C’era una volta…

Tanto, ma tanto tempo fa nelle famiglie c’era sempre qualche nonna che, rimasta vedova, era finita ad abitare con un figlio o una figlia sposati e si rendeva utile in mille faccende domestiche, una delle quali era l’intrattenimento dei nipotini.

Non essendoci la televisione, i computer e le altre diavolerie moderne, la nonna raccontava ai bimbi, talvolta leggendole, delle favole che incominciavano sempre con “C’era una volta…”

I piccoli intuivano che quelle storie erano fuori dalla realtà, ma proprio quello era il bello, sì perché in quei racconti potevano esistere una casetta di pane e zucchero, una strega cattiva, una fatina buona, una zucca che diventava carrozza, i gatti con gli stivali e i principi azzurri, che tanto piacevano alle bambine.

Ma a ben guardare con occhi da adulti quelle favole erano animate da personaggi di una crudeltà impensabile: madri che volevano sbarazzarsi dei figli mandandoli a sperdersi di notte nei boschi, matrigne omicide, lupi che mangiavano le bimbe, orchi famelici e una lunga serie di personaggi paurosi.

Le favole poi, dopo tanto spavento, finivano sempre bene, a tarallucci e vino come si soleva dire per indicare una gran leccornia, anche se lasciavano nel profondo un’inquietudine che si materializzava nella paura del buio e, in certi bimbi particolarmente sensibili, talvolta provocavano veri e propri incubi notturni.

Ma anche conoscendo quelle storie e vincendo quelle paure si imparava a crescere e, soprattutto, a distinguere il bene dal male, a formarsi una coscienza retta, a capire che esistono le conseguenze delle proprie azioni e che nella vita si deve scegliere da che parte stare.

A quei tempi la famiglia “allargata” era spesso composta da genitori, fratelli, nonni, zie zitelle e da chiunque non possedesse la forza economica per sostenersi da solo, sia da parte di padre che di madre.

E ognuno aveva un proprio ruolo e una propria capacità pratica messa al servizio degli altri: c’era chi confezionava gli abiti, soprattutto dei più piccolii, e chi lavorava la maglia; chi riparava qualsiasi guasto si verificasse in casa e chi si improvvisava tappezziere; chi faceva la spesa e preparava il cibo quotidiano e chi sapeva imbandire i pranzi per le feste e le grandi occasioni.

E chiunque ne avesse la possibilità lavorava mettendo a disposizione delle necessità comuni parte del proprio guadagno o, in certi casi, del proprio reddito.

Le inevitabili difficoltà interpersonali erano superate dal rispetto dei ruoli e dall’educazione, che in quel tempo era  radicata in tutta la società.

L’alterco, così come l’insulto e la volgarità verbale erano comportamenti impensabili ed espressi solo da persone con problemi caratteriali o mentali.

La società, soprattutto del dopoguerra, non aveva le tensioni nevrotiche di quella attuale in quanto, mediamente, gli obiettivi di vita non attenevano al bieco consumismo o, peggio ancora, all’arrivismo protagonistico dei giorni d’oggi, ma esclusivamente al raggiungimento di uno stabile tenore economico che mettesse la famiglia al riparo dalla povertà.

In tali famiglie il ruolo genitoriale era indiscusso perché, lavorando in genere solo il padre, la sudditanza economica imponeva anche l’ubbidienza alle regole, così come l’affrancarsi finanziario dei figli, una volta divenuti adulti, non modificava i rapporti già consolidati.

Anche la presenza in casa delle figure parentali anziane garantiva, in certo modo, la stabilità dei ruoli. Centrale poi era la figura materna, che provvedeva a tutti e a tutto e rappresentava, senza alcuna retorica, l’angelo della casa.

In una società, così virtuosa rispetto all’attuale, la domenica e le feste religiose erano sempre rispettate con la frequentazione della S. Messa, alla quale si recava tutta la famiglia per riunirsi poi intorno al desco dove era sempre imbandito un cibo più curato, quando non anche il dolce, rigorosamente fatto in casa.

Frequentemente poi la sera si recitava insieme il rosario e i frutti di quella fede erano le vocazioni religiose, quando non proprio la santità delle persone, nascosta o ufficialmente riconosciuta anche dalla Chiesa.

Tali scene familiari sono molto ben rappresentate nei film-commedia del dopoguerra, che riproducevano l’unica società allora esistente.

Questo non significa che non vi fossero problematiche sociali, dolori, prove e lutti: non sarebbe stato un mondo reale ma di fantasia, esattamente come le fiabe che venivano raccontate ai bimbi di allora.

Ma quello che è intollerabile è la mistificazione che oggi si fa di quella società, perlopiù sana e serena, inventando mille bugie sulla realtà di allora che ancora oggi, nonostante il riconosciuto fallimento delle ideologie rivoluzionarie del ’68, si vuole annientare, sovvertire e sostituire con modelli che hanno già rivelato la loro vera faccia mortifera e pestilenziale.

Il ritornello è sempre lo stesso: una volta le donne erano succubi dei loro mariti, non contavano nulla, non erano realizzate e non avevano diritti; una volta i mariti erano dei padri-padroni; una volta le giovani erano tenute sotto chiave e non potevano scegliere liberamente chi sposare; una volta si violentavano i figli ma non si sapeva; una volta non c’era libertà di espressione; una volta si ammazzava come adesso ma i giornali non lo riportavano…

E poco vale cercare di dimostrare che non era proprio così, anche se i casi negativi esistevano, ma erano relegati a contesti specifici poco evoluti e non certo generali.

Tutto quello che adesso si vuole far passare come giusto e normale, per rafforzarlo, viene contrapposto alla negatività del mondo di una volta, perché oggi sì che c’è veramente libertà per tutti!

Non importa se Marcuse, l’ideologo della rivoluzione culturale del ’68, dovette ritrattare le sue teorie più rivoluzionarie e oggi non è più accademicamente qualificante citarlo (sic transit gloria mundi!); non importa se i giovani d’oggi si drogano, si ubriacano, si ammazzano per un niente e si associano in branchi di bulli; non importa se le ragazze faticano a trovare modelli positivi e arrivano a prostituirsi pur di raggiungere effimere celebrità, quando non finiscono nell’anoressia o nella depressione; non importa se i nonni non più autosufficienti vengono mandati a morire negli ospizi, con il rischio di finire anzitempo i loro giorni per mano di infermieri-aguzzini; non importa se i genitori non hanno altro ruolo che di bancomat o di difesa dei figli per qualsiasi reato commettano; non importa se troppe famiglie si sfasciano e ben pochi credono nell’indissolubilità del matrimonio; non importa se ogni settimana un marito ammazza la moglie, magari pure i figli, e qualche volta è lei a liberarsi così di lui; non importano i sei milioni di aborti dall’entrata in vigore della legge 194/78 ad oggi…

L’importante è affermare che una volta si stava peggio.

 

Paola de Lillo