Dall’idea della moneta unica europea (SME/EURO) al debito pubblico italiano. Come abbiamo ceduto la nostra sovranità – di Antonio Socci

moneta“Bufale”? Ci sarebbe da chiarire se ce l’hanno raccontata giusta, in Italia, a proposito di euro, debito pubblico e crisi economica. Perché – nonostante decenni di lacrime e sangue – non se ne viene a capo e anzi il debito pubblico è sempre più grande e la nostra economia sempre più devastata? Secondo il mainstream perché siamo un Paese di lazzaroni e spendaccioni, sempre fuori dalle regole. Ma non è vero.

I dati dicono che noi siamo in realtà tra i più virtuosi. Tempo fa, un autorevole specialista come il professor Marco Fortis, sul “Sole 24 ore”, spiegava che “nonostante la sua (dell’Italia) fama di economia di sprechi, molto indebitata e poco osservante degli impegni, in realtà il nostro Paese ha una spesa pubblica al netto degli interessi che in termini reali è rimasta quasi invariata tra il 2005 e il 2015 (una delle migliori performance tra i Paesi avanzati).

Inoltre, l’Italia è uno dei Paesi più disciplinati nel rispettare le regole europee di finanza pubblica. Ad esempio, durante questi ultimi anni di crisi, già dal 2012, cioè ben prima di altri Paesi, il nostro deficit/Pil rispetta la regola del 3%.

Nel lungo periodo, poi, sin dal 1992, l’Italia è sempre stata in avanzo statale primario con la sola eccezione del 2009: un record assoluto a livello mondiale. E, come sottolinea il citato documento del Mef, nel periodo 2009-2015 l’avanzo statale primario dell’Italia è stato mediamente il più alto nella Ue”.

Eppure, nonostante questa virtuosa politica di rigore, la voragine del debito pubblico cresce sempre di più: è arrivata nel 2015 al 132,7 per cento sul Pil e ancora si allarga.

Quello che ci mette ko sono gli interessi che paghiamo ogni anno sul debito, circa 70 miliardi di euro. “Il debito pubblico – scrive Fortis – costituisce la nostra palla al piede”.

Ma quando e perché ci siamo indebitati così spaventosamente?

 

LA SVOLTA

E’ accaduto negli anni Ottanta. Nel 1980 il nostro rapporto debito/Pil era al 56,8 per cento, cioè ultravirtuoso (ed eravamo da decenni ai primissimi posti per crescita economica nel mondo). Ma dal 1981 di colpo il debito è esploso e in quattordici anni, nel 1994, è arrivato al 121,8 per cento del Pil.

Come una guerra persa. Cosa provocò questo cataclisma? Secondo la vulgata delle classi dirigenti e dei media il debito pubblico è esploso dal 1981 perché gli italiani – che dal dopoguerra avevano avuto un livello del debito costante (e virtuoso) – sono diventati di colpo irresponsabili spendaccioni, evasori, corrotti e quant’altro. D’improvviso. Dal 31 dicembre 1980. Non è curioso?

Questa “damnatio” della “prima repubblica” è il motivo ufficiale per cui ci hanno imposto 25 anni di lacrime e sangue e consente ai tedeschi di deprecare il popolo italiano che deve essere punito e deve pagare salatamente la sua indisciplina.

Ma se questa versione dei fatti fosse giusta, dopo decenni di “rigore” il problema doveva essere risolto: com’è che, invece, siamo sempre più indebitati, pur avendo sottoposto gli italiani a salassi micidiali che hanno messo in ginocchio la nostra economia?

C’è però un’altra “narrazione” dei fatti che individua una diversa origine del debito pubblico. In particolare sottolinea che ci fu una svolta in quel fatale 1981: fu il “divorzio consensuale” fra Banca d’Italia e Tesoro (deciso dal ministro Nino Andreatta e dal governatore di Bankitalia Carlo Azeglio Ciampi) che sollevò la Banca d’Italia dall’obbligo di comprare titoli di Stato, cosicché lo Stato italiano da quel momento non ebbe più il controllo degli interessi sul debito e fu esposto alla speculazione.

Questa decisione era giustificata dall’ingresso dell’Italia nel Sistema Monetario Europeo (Sme) che era il primo passo verso la moneta unica.

Da qui venne l’impennata della spesa per interessi sul debito. E, scrive Alberto Bagnai, col debito pubblico crebbe anche la disoccupazione (fino a raddoppiare), mentre “si fermò il potere d’acquisto delle famiglie”.

Ciò che accadde dopo – cioè Maastricht e l’euro – moltiplicò gli effetti devastanti di quel primo passo verso la moneta unica. Ecco perché “perseverare” nell’errore aggrava la situazione dell’Italia.

Questa è la versione dei fatti che forniscono i “no euro”, i keynesiani e i cosiddetti sovranisti. Si può sospettare che sia di parte. Sennonché c’è la conferma dei diretti interessati.

 

LA CONFERMA

In un memorabile articolo sul “Sole 24 ore” del 26 luglio 1991, Nino Andreatta, ricordando quel divorzio consensuale fra Tesoro e Bankitalia, scriveva, con la schiettezza che gli era abituale: Naturalmente la riduzione del signoraggio monetario e i tassi di interesse positivi in termini reali si tradussero rapidamente in un nuovo grave problema per la politica economica, aumentando il fabbisogno del Tesoro e l’escalation della crescita del debito rispetto al prodotto nazionale. Da quel momento in avanti la vita dei ministri del Tesoro si era fatta più difficile e a ogni asta il loro operato era sottoposto al giudizio del mercato”.

L’obiettivo ideologico di questa impostazione di politica economica era, di fatto, un trasferimento di sovranità dai popoli e dagli stati ai mercati. Oggi è la realtà della globalizzazione, con l’abbattimento di frontiere e identità.

Anche il governatore di Bankitalia, Mario Draghi, in un intervento rievocativo del 2011, confermò che “la decisione di Andreatta e Ciampi, pur rivestita di panni ‘tecnici’, ha forti effetti politici di lungo periodo”.

Draghi ricordò che gli oppositori, nel 1981, erano “timorosi del rialzo dei tassi d’interesse reali” e agitarono “lo spettro della deindustrializzazione del Paese”.

Sembra proprio ciò che è avvenuto, ma il Governatore si limitò solo a osservare laconicamente che – visti in prospettiva storica – “gli effetti del ‘divorzio’ sulla politica di bilancio non sono quelli sperati” e “il rapporto tra debito pubblico e prodotto supera il 120 per cento del prodotto nel 1994”.

Cioè il debito pubblico era raddoppiato in pochi anni. Certo, secondo Andreatta e Draghi quel “divorzio” abbatté l’inflazione a due cifre dell’Italia, ma Bagnai ha mostrato che quell’inflazione – provocata dall’esplosione del prezzo del greggio dovuta alle crisi petrolifere del 1973 e del 1979 – rientrò per gli stessi motivi negli anni Ottanta, quando la situazione mediorentale si normalizzò e il prezzo del petrolio crollò del 75 per cento.

 

RIVOLUZIONE COPERNICANA

Se questa “altra” spiegazione è la vera narrazione della crisi italiana il centrosinistra dovrebbe rimettersi del tutto in discussione e in parte pure il centrodestra.

Infatti il polo berlusconiano irruppe sulla scena nel 1994 contro l’oppressione fiscale e lo statalismo (entrambi identificati, giustamente, con la sinistra).

Tuttavia si doveva capire che l’oppressione fiscale era diventata insopportabile proprio perché sulla spesa pubblica (passata dal 43 al 59 per cento del pil dal 1980 al 1993) gravavano gli enormi interessi sul debito.

Lo stesso Antonio Martino osservava che “nel 1993 oltre il 73% del gettito delle imposte dirette è stato assorbito dalla spesa per interessi passivi”.

Il problema dunque non era la spesa dello Stato, ma gli interessi sul debito e la nostra progressiva perdita (a vantaggio di Ue e “mercati”) della sovranità monetaria ed economica che poi è diventata perdita della sovranità politica e legislativa.

In questi anni si sono ridotte pure la sovranità popolare (gli elettori sono sempre più espropriati) e la sovranità sui confini (siamo obbligati a subire una colossale emigrazione non voluta).

Dunque oggi un centrodestra che vuole rinascere, più che alle leggi elettorali, dovrebbe ripensare alla sua “mission”.

La battaglia contro lo statalismo e contro il fisco oppressivo, dovrebbe diventare una battaglia per ricostruire di nuovo lo Stato italiano: recuperando la sovranità monetaria, economica, fiscale, territoriale e politica. “Interesse nazionale” dovrebbe essere la nuova parola d’ordine.

Il vento di Trump invita a questa riconversione.

 

Antonio Socci

Da “Libero”, 10 dicembre 2016

 

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