« III Repubblica al via, ma quanto assomiglia alla prima » di Ruben Razzante

Maria Elisabetta Alberti CasellatiLa rapida elezione dei due presidenti delle Camere, Maria Elisabetta Alberti Casellati (Forza Italia) al Senato e Roberto Fico (Movimento Cinque Stelle) alla Camera, non deve trarre in inganno. Quanti si illudono di trovarsi di fronte a una svolta politica e allo sblocco di una situazione di stallo creata dalle elezioni del 4 marzo dovranno presto amaramente ricredersi.

I tatticismi che hanno accompagnato le trattative post-voto tra i partiti sono la riprova del fatto che nulla è cambiato rispetto ai riti stantii della Prima e della Seconda Repubblica, anzi ci sarebbe da rimpiangere entrambe, o quanto meno la Seconda, durante la quale un sia pur ipocrita bipolarismo tra Silvio Berlusconi e Romano Prodi garantiva la certezza di sapere subito il nome del Presidente del Consiglio.

L’elezione della guida delle due Camere, figlia di un accordo tra Cinque Stelle e centrodestra, non facilita in alcun modo la risoluzione del rebus relativo alla formazione del governo, per la semplice ragione che nessuna ipotesi appare praticabile.

Il clima di queste ore sembra ricatapultarci nella Prima Repubblica, quando i bizantinismi correntizi e le estenuanti mediazioni impedivano di dare stabilità al governo del Paese e indebolivano la competitività del sistema Italia.

Tanti segnali concorrono a definire come pateticamente restauratore lo scenario che si sta delineando.

A cominciare dal livore delle dichiarazioni di un rancoroso ex Capo dello Stato, Giorgio Napolitano che, dopo aver sostenuto a lungo Matteo Renzi nella sua discesa nell’arena politica nazionale, ha colto la palla al balzo durante la cerimonia di insediamento della nuova Assemblea di Palazzo Madama, da lui temporaneamente presieduta, per tuonare contro l’ex premier e contro la sua “autoesaltazione”.

Certo anche lo stesso Renzi non è immune da contraddizioni, visto che oggi è senatore, dopo aver chiesto agli italiani di abolire il Senato promuovendo un referendum che ha perso il 4 dicembre 2016.

Non solo l’ormai ex segretario dem si è fatto eleggere a Palazzo Madama, ma ha anche preteso di dettare la linea nella scelta dei capigruppo e ora punterà a far saltare ogni possibile accordo tra il suo partito e i Cinque Stelle per un ipotetico governo.

Altro che ritiro dalla politica, come aveva solennemente promesso agli italiani prima della sfida referendaria.

La ciliegina sulla torta della conservazione dello status quo e della triste immutabilità della condizione della politica italiana è rappresentata dalla rinascita del Cnel (Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro), che i renziani volevano abolire con il referendum, a causa dei suoi costi inutili.

Negli uffici di Villa Lubin di quello che la Costituzione qualifica come organo ausiliario, si stavano già preparando gli scatoloni, all’epoca del referendum renziano, e quella sede faceva gola a qualche authority.

Ma evidentemente chi pensava e diceva di aver archiviato una volta per sempre il Cnel aveva fatto i conti senza l’oste. E l’oste è la voracità della classe politica italiana.

Il governo Gentiloni, che proprio ieri alle 18 ha rassegnato le sue dimissioni (ma resterà in carica per il disbrigo degli affari correnti), essendo stati eletti i nuovi Presidenti delle Camere e quindi incamminandosi la legislatura verso la formazione di un nuovo esecutivo con una nuova maggioranza, tra i suoi ultimi atti ha effettuato un’infornata di 48 nomine in quell’organo considerato da tutti inutile, con relative indennità.

E’ l’ennesima consacrazione del principio di lottizzazione, mai morto, in barba ai proclami di spending review che tutti i partiti politici, Pd compreso, avevano rivolto all’opinione pubblica in campagna elettorale.

Ora i due Presidenti delle Camere sono chiamati a svecchiare, a dirigere il processo legislativo verso un rinnovamento vero e non di facciata.

Ne avranno la forza, il coraggio, la volontà o penseranno, come molti malignamente insinuano, già alla prossima legislatura, visto che quella appena avviata sembra di transizione verso nuovi scenari meglio definiti e da realizzarsi con una nuova legge elettorale da varare a breve?

Il patto tra Silvio Berlusconi e Matteo Salvini è precario e basato sulla diffidenza reciproca. Il capo del Carroccio punta a prosciugare il bacino elettorale forzista e a proporsi, alle probabili elezioni anticipate del maggio 2019, come il leader di tutto il centrodestra.

I grillini, dopo aver abilmente conquistato la presidenza della Camera, punteranno a ricompattarsi (Fico rappresenta l’ala ortodossa, in costante confronto dialettico con quella governista incarnata e guidata da Luigi Di Maio) e a rinverdire le loro battaglie storiche, contro i vitalizi, gli sprechi, i privilegi.

Obiettivo finale: stravincere le prossime elezioni politiche e governare da soli. Con un centrodestra rissoso al suo interno e sempre più sbilanciato a destra e un centrosinistra in caduta libera e in agonia dopo la morte del renzismo tutto diventa possibile.

 
La Nuova Bussola Quotidiana