La processione del 3 giugno a Reggio Emilia. Lo scandalo della devozione – di Elisabetta Frezza – Video

Processione 3 giugno 2017In città per il 3 giugno era in cartellone la solita grottesca parata dell’esibizionismo contronaturale, uno dei mille e mille raduni che invadono e lordano gli spazi pubblici per abituare il mondo intero all’idea che il sesso pervertito sia cosa gaia e giusta e quindi meritevole di promozione sociale come modello virtuoso: un modo come un altro per esorcizzare un evidente disagio esistenziale e psichico di una esigua minoranza tramite lo stordimento e l’ostentazione compulsiva del vizio, e per tentare di placarlo, quel disagio, nell’alveo rassicurante del gruppo conforme; sempre più conforme e sempre più nutrito grazie ai lavaggi di cervelli garantiti a ciclo continuo dal sistema mediatico, politico, “educativo”.

Uno spettacolo desolante cui l’uomo della strada si è assuefatto suo malgrado perché gli è stato fatto intendere che il mondo è cambiato e che tutti dobbiamo adeguarci alle sue nuove fattezze sintetiche, per quanto raccapriccianti.

Fin qui, dunque, tutto paradossalmente “normale” per la società evoluta in cui non c’è più religione. Letteralmente.

Ma in quello stesso 3 giugno si è materializzata nella pubblica piazza anche e proprio la religione dimenticata (perché smantellata da chi avrebbe dovuto esserne custode, se non per vocazione almeno per mestiere).

Si è manifestata nell’atto liturgico di una processione in riparazione del peccato dell’uomo che mette se stesso al posto del Padre, suo Creatore e suo Dio: dell’uomo che, in preda all’atavico delirio di onnipotenza, crede di poter sovvertire impunemente l’ordine della natura e, accecato dal mito della falsa libertà – col conforto delle istituzioni (laiche ed ecclesiali) – si vota all’abbruttimento e all’autodistruzione.

Si è svolto, nelle strade di Reggio, il rito perenne capace in ogni tempo di pescare nel fondo dell’animo rispondendo al bisogno insopprimibile di ogni essere umano (e anche post-umano) di levare gli occhi al cielo, rendere gloria a Dio, implorare la Sua protezione; e così ritrovare un equilibrio sulla terra che gira forsennata su se stessa.

La processione avanzava in preghiera come fosse protetta da una corazza invisibile, attraverso una città stupefatta e impietrita dalla “aliena” potenza della vera fede cristiana.

La gente guardava dagli usci e dalle finestre, si fermava, si segnava, univa la propria voce alle avemaria, incuriosita e incredula dinanzi a una epifania del sacro cui è sì totalmente disabituata, ma che le è estranea solo in superficie perché di fatto questo rito essenziale non può non evocare in chiunque un retaggio profondo di verità e di ordine, e di pace interiore.

Nessuno dei detrattori – non solo i poveri sodomiti, ma anche e soprattutto i diversamente credenti e il clero costituzionale – possiede argomenti con cui ribattere a un fenomeno impermeabile al linguaggio del mondo cui tutti si sono allegramente uniformati disimparando il linguaggio dell’eterno.

Non possono che prendere atto, in religioso silenzio, di qualcosa che, nella sua carica trascendente, è irriducibile per definizione alle categorie asfittiche del secolo cui la stessa chiesa in disarmo vorrebbe asservire il patrimonio che le è affidato, allo scopo ultimo di neutralizzarlo.

Il rosario, le litanie, i canti della tradizione, il latino, l’incenso, le talari e le cotte. Un modo tanto nuovo quanto antico di rispondere pubblicamente alle bestemmie e alle provocazioni blasfeme, riparando l’ordine violato dal peccato: un modo che fa bene ai volenti e ai nolenti, perché invoca sull’intera umanità caduta lo sguardo pietoso del Padreterno.

E il chiasso sguaiato delle varie manifestazioni di piazza, componenti irrinunciabili del gioco delle parti nell’agone politico, come per incanto lascia il posto, in una mattina fuori dal tempo, al ritmo musicale della preghiera, formula essenziale di verità, capace di illuminare la strada del bene e quella del male con la luce che viene dall’alto nel segno glorioso della Croce di Cristo.

Grazie ai pochi sacerdoti che conservano la fede nel tempo dell’apostasia, e avendola la professano, il legame tra terra e cielo si può ancora vedere, vivere e toccare.

pubblicato su “Riscossa Cristiana”