Quando l’incontro con Dio è un “ritorno a casa”

Da rocker comunista e “bestemmiatore di professione” a cantore della gloria di Dio. Non ha affatto rinnegato il suo passato, né tantomeno la sua personalità e la sua arte ma da circa una decina d’anni a questa parte, Giovanni Lindo Ferretti è un uomo nuovo. Il sessantenne cantante emiliano, storico fondatore dei CCCP-Fedeli alla linea e del Consorzio Suonatori Indipendenti (CSI), oggi leader dei Per Grazia Ricevuta (PRG), ha reso testimonianza lo scorso 3 maggio, presso la Congregazione dell’Oratorio San Filippo Neri, nell’ambito del IV ciclo di incontri Narrar degli uomini, parlar di Dio, realizzato in collaborazione con l’Associazione Bomba Carta.

In una sala gremita da un pubblico per lo più giovanile, l’incontro è stato presentato e moderato dai giornalisti Andrea Monda e Lorenzo Fazzini.

Ferretti si è raccontato con piglio ironico e vivace, confidando un certo imbarazzo ed un pizzico di inadeguatezza nell’esporre una “testimonianza di fede”.

La sua è la storia di un italiano che ha vissuto l’epoca più ideologicamente connotata della nostra storia: educato da bambino alla fede cattolica, è cresciuto sullo sfondo del post-Concilio e del ’68, passando poi per gli anni di piombo e per l’appiattimento edonistico degli anni successivi. Fino all’epoca attuale, segnata dalla crisi profonda delle grandi strutture socio-economiche ma anche dall’opportunità di un ritorno al sacro.

In gioventù e nella prima fase della maturità, Giovanni Lindo Ferretti ha vissuto l’etica “rivoluzionaria” in modo coerente, mietendo successi in campo artistico e, al tempo stesso, compiendo molti errori. Vivendo fino in fondo le proprie contraddizioni, l’artista emiliano ha poi avvertito il bisogno di un “ritorno a casa”.

Da alcuni anni, infatti, Ferretti è tornato a vivere assieme all’anziana madre a Cerreto Alpi, suo paese natale sull’Appennino tosco-emiliano, dove, per scelta, ha rinunciato ad Internet, al cellulare e a tutti i mezzi di comunicazione moderni. Un isolamento che però lo ha completamente riconciliato con Dio e con la genuinità del mondo della sua infanzia.

Durante l’incontro di venerdì scorso, Ferretti ha raccontato di come, da bambino, tutte le sere prima di coricarsi, la nonna lo aiutava a recitare le preghiere di fine giornata, prestando particolare attenzione all’esame di coscienza. “Mi esortava a comprendere quali fossero le mie colpe – ha detto – senza pensare a quelle degli altri bambini, sulle quali avrebbero riflettuto loro stessi, con le loro nonne…”.

Aver ricevuto un’educazione cristiana così rigorosa segnò il giovane Ferretti in modo indelebile. Quella vissuta nella sua famiglia era la fede degli umili, quella dei Pater, Ave e Gloria scanditi in modo un po’ meccanico, in un “latino maccheronico” ma con grande convinzione ed autenticità.

“L’educazione si può anche perdere ma alla fine riaffiora”, ha raccontato. “Ad una certa età ho perso la fede, ma di sicuro la fede non ha mai perso me – ha proseguito -. A volte questo ti fa scoprire una forza che non credevi di avere”.

Quando, in età matura, Ferretti iniziò a ripensare criticamente la sua vita, sentì l’esigenza di un esame di coscienza. Ripensò, quindi, agli esami di coscienza fatti da bambino con la nonna e alle tante preghiere con lei recitate, “anche se, quando ricominciai a pregare, le mie preghiere avevano una dimensione più terapeutica che religiosa”.

Il ragazzo smise di andare in chiesa, intorno ai 14 anni: “le ultime messe a cui ho assistito furono le prime con le chitarre, poi, abbandonate le messe, iniziai ad andare ai concerti dei Nomadi e dell’Equipe 84”. È l’inizio della grande passione per il rock che non lo ha mai abbandonato. Anche oggi, “quello che offro al Signore è la mia musica”, ha raccontato.

Negli anni in cui Giovanni Lindo Ferretti diventa adulto, il connubio tra musica e politica è assai di moda e lui se ne lascia conquistare. “Sono cresciuto nella mitologia delle rivoluzioni”, ha detto, ricordando anche di quando, nel 1974, si ritrovò “in Portogallo, armato su una barricata”, durante la “rivoluzione dei garofani” che mise fine alla dittatura salazarista.

Come la maggior parte dei rivoluzionari, Ferretti è stato per molti anni un avversario della Chiesa Cattolica: “Vedevo la Chiesa come la causa di tutti i mali sociali”, ha detto. Sparare a zero sulla Chiesa, oggi come ieri, è fin troppo facile: è come se esistessero tanti “pacchetti di luoghi comuni anticattolici e io li ho presi tutti”, ha confidato.

Poi sono arrivati il successo, unito all’inevitabile prezzo da pagare e alle tante amarezze della vita. Ferretti vede morire in giovane età tanti amici, chi per droga, chi per terrorismo, poi, molti anni più tardi, un viaggio nei paesi dell’allora “socialismo reale” lo riporta bruscamente alla realtà.

“Credevo che con la prassi rivoluzionaria si potesse costruire il paradiso in terra, invece peggiora le condizioni di vita degli uomini”, ha osservato l’artista.

In tempi più recenti il ritorno alla casa paterna, agli affetti e ai ricordi d’infanzia: l’amata nonna non c’era più ma le preghiere da lei insegnate erano più vive che mai. “Ho la certezza che, anche quando ero lontano da Dio, qualcuno ha pregato per me”.

Un ritorno a casa colmo di struggimento e gioia al tempo stesso, ma niente affatto facile da intraprendere, così come non è stato facile il ritorno alla pratica sacramentale: “La strada più lunga che ho mai percorso è stata quella fino al confessionale”, ha raccontato Ferretti.

Proseguendo in vari botta e risposta con Lorenzo Fazzini, sono emersi vari spunti curiosi nella vita e nel pensiero del cantante emiliano: “Quando pensiamo agli uomini per categorie, facciamo un atto blasfemo”, ha detto, a proposito dei riduzionismi ideologici.

Quanto all’avvento del nuovo pontificato, Ferretti ha dichiarato che “a caldo, la rinuncia di Benedetto XVI, mi è sembrata la cosa meno pensabile possibile, poi ho compreso che era un’occasione per fare silenzio e pregare tanto”. Poi la gioia per l’arrivo di papa Francesco, “un dono del suo predecessore”.

Ha poi confidato di essere tornato a vivere in montagna, perché l’uomo, a suo avviso, merita di vivere in un mondo che rispecchi la “creazione” e la presenza del “Creatore”, laddove le caotiche città ultramoderne sono il simbolo di un “mondo artefatto che non rispecchia l’essere umano, né è fatto per l’uomo”.

Luca Marcolivio

 

Fonte: Zenit.org