Vatileaks, ovvero l’informazione omologata. Il nostro punto di vista.

Vatileaks, termine inventato da qualche giornalista di bello spirito per analogia con Wikileaks, l’organizzazione di Julian Assange, che pubblica documenti riservatissimi la cui divulgazione mette in pericolo la stabilità di imprese, banche e Stati. E tutti i media, per non essere da meno, si sono omologati definendo l’affaire vaticano con quest’ultimo neologismo.

 

Ma non è la sola omologazione. Rileggendo le decine di articoli scritti dai vari redattori, cattolici e non, ci si rende conto che da quando nel maggio scorso il caso è venuto alla cosiddetta ribalta della cronaca ad oggi, dopo la pubblicazione della requisitoria del promotore di giustizia della Santa Sede e della sentenza di rinvio a giudizio di Paolo Gabriele, tutti hanno fatto a gara per fornire le medesime informazioni ed emettere gli stessi giudizi. Tutti, o quasi, coralmente intruppati per non far mancare ai propri lettori l’ultima novità nel campo delle supposizioni e delle conclusioni. Sì, perché in questa storia l’ipotesi diventa subito tesi e l’assunto deve essere obbligatoriamente uno scandaloso complotto.

Infatti qualcuno ha avviato immediatamente la prima cordata di una fantapolitica trama di intrighi vaticani, associando malignamente accadimenti e tempistiche. E tutti dietro a seguire, a riportare supposizioni e smentite, a gareggiare in un’improbabile azione di intelligence casereccia, rimbalzata poi nell’universo mondo, perché se in Italia si mormora qualcosa certamente deve essere vero. E gli ignari chiamati in causa si sono visti obbligati a promettere querele difensive o a esibire corrispondenze riservate per tutelare la propria onorabilità e quella del Papa.

Costretti a mettere da parte le trame oscure di natura politica, è stata la volta delle informazioni su Paolo Gabriele, Paoletto per gli amici e i colleghi, descritto come un buon padre di famiglia, amato e stimato da tutti, un umile sempliciotto dapprima inserviente generico presso i Sacri Palazzi, poi passato al servizio del prefetto della Casa Pontificia e, al pensionamento di questi, assurto al prestigioso ruolo di cameriere personale di Benedetto XVI. A tal punto la figura di Paoletto è stata delineata come quella di un fedele e pio servitore del Papa da innescare un’altra congettura: quella del capro espiatorio di un intrigo di cui non poteva che essere la vittima sacrificale. Anche perché nei primi interrogatori si era avvalso spesso della facoltà di non rispondere e tanto bastava per imbastire la tesi del martire.

E allora ecco entrare in scena un deputato radicale che, preoccupatissimo (sic nel comunicato stampa) per la sorte del povero perseguitato dai veleni vaticani, a nome del proprio partito offriva un’assistenza legale gratuita con tanto di nome del professionista messo premurosamente a disposizione.

Ma di fronte alle inoppugnabili e puntuali smentite di Padre Lombardi, ecco ideare un altro teorema: data la qualità della persona non era possibile che avesse agito da solo, certamente doveva avere dei complici, certamente esisteva un inconfessabile arcano, forse quelle di Dan Brown non erano solo fantasie, perché la realtà le aveva superate. Quali fossero poi queste realtà certamente si sarebbe scoperto, visto che Benedetto XVI aveva chiesto la massima trasparenza.

Riassunti in sintesi, sono stati questi i contenuti degli editoriali giornalistici, anche quelli dei vaticanisti accreditati presso la Santa Sede, scrittori/conferenzieri/opinionisti e presenzialisti nei talk-show ad argomento cattolico, i quali, ammiccando di saperla lunga, hanno lasciato intendere di avere conoscenza delle stanze vaticane e dei loro scellerati segreti. Questo, ovviamente, per rendere un servizio alla Verità, senza rendersi conto che il loro agire faceva il paio con quello di Paoletto, che si credeva “lo strumento dello Spirito Santo”.

Ma dopo la requisitoria del promotore di giustizia del Vaticano, vera lectio magistralis per la chiarezza espositiva e la modernità del linguaggio giuridico, ognuno ha potuto giudicare da sé sia i fatti sia la personalità dell’imputato e, senza voler infierire, comprendere come la sua semplicità cognitiva (sic nella perizia personologica d’ufficio) dia la precisa misura di quanto ne capisse dei documenti che gli passavano sotto gli occhi e che fotocopiava, considerato poi che per la gran parte non erano nemmeno in italiano.

Quindi gli scrupolosi giornalisti sono stati costretti a contraddirsi di nuovo e ad ammettere, con probabile rammarico, che forse il complotto era tutto e solo nella testa del Gabriele. Ma, per non smentirsi del tutto, hanno sottolineato con soddisfazione che, le indagini non hanno ancora portato piena luce su tutte le articolate e intricate vicende (sic nel testo della requisitoria) sottintendendo che vi è ancora qualche speranza che le loro supposizioni abbiano fondamento.

E giù ancora a citare le verosimiglianze con gli scritti di Dan Brown. Ma l’incredibile è che fra quanti hanno evocato il suddetto scrittore vi è pure qualche illustre vaticanista che, all’uscita del libro che l’ha reso famoso, si era affannato a sbugiardarne gli errori storici e dottrinali con tanto di pubblicazione cartacea e online.

Poi c’è stato anche chi, dopo aver mentalmente frugato nelle stanze vaticane per scovare le prove degli inconfessabili scandali, per farisaica solidarietà con Benedetto XVI ha dichiarato di rimpiangere i bei tempi in cui i collaboratori dei Pontefici erano persone affidabili. Costui ignora, evidentemente, che il tanto vituperato “nepotismo” è stato adottato a sistema dai Papi proprio per tutelarsi da tentazioni come quelle in cui è caduto lo sprovveduto Paolo Gabriele.

Ma lo scoop ancora non sono riusciti a realizzarlo, perché la sala stampa vaticana li ha sempre puntualmente  anticipati.

Perciò, forti della loro testata o della loro buona nomea, soprattutto se di parte cattolica, formulano solo e sempre supposizioni, lasciano intendere a mezze parole per poter poi candidamente smentirsi, tracciano conclusioni poi contraddette dai fatti: per tutti, a qualsiasi bandiera appartengano, l’importante è stare sul pezzo al pari degli altri e non perdere la fiducia dell’editore/direttore. Altrimenti come ci si guadagna da vivere?

Noi però non siamo pagati da nessuno e quindi possiamo fare le supposizioni che meglio crediamo, dovendone rendere conto solo a Dio e alla nostra coscienza.

E allora supponiamo anche noi, certi di essere molto prossimi all’unica verità dei fatti.

Dall’attenta e serena lettura della requisitoria, la personalità di Paolo Gabriele emerge come fragile e contraddittoria. Ha un carattere insicuro e bisognoso di conferme perché non possiede la formazione culturale e spirituale necessaria a ricoprire un incarico in cui, per benevolenza e imprudenza dei suoi superiori, è stato catapultato suo malgrado. Ha benissimo capito di dover servire un capo di Stato e, contemporaneamente, il Vicario di Cristo in terra, compito quest’ultimo che richiede di possedere un’anima profondamente umile, una santa coscienza e un solido equilibrio emotivo.

Paoletto forse viene stordito, inconsapevolmente e lentamente, dal palcoscenico della folla esultante davanti al Papa, dalla marea di fedeli che lui per primo fende sulla papa-mobile o osserva alle spalle del Pontefice nei grandi raduni. Sempre in primo piano in tutte le occasioni, inconsciamente finisce con l’identificarsi con quella realtà grandiosa e, a suo modo, potente. E ne ha la conferma adocchiando le intestazioni e le prestigiose firme delle missive che giungono alla Segreteria di Stato, in cui viene incautamente inserito anche se con compiti marginali.

Scatta a quel punto l’istinto istrionico di protagonismo che ben conoscono gli attori e tutti coloro che, a qualsiasi titolo, collaborano ad eventi che richiamano migliaia di persone. E’ un’ebbrezza che lo porta ad essere riservatissimo e chiuso con i colleghi e i sottoposti, ma che gli fa intrattenere conversazioni alla pari con gli alti prelati e i vari personaggi che accedono alle stanze pontificie.

Come incanalare l’urgenza di mettere a frutto i vantaggi di una posizione così elevata, ritagliandosi  un ruolo che gli offra una, seppur segreta, soddisfazione compensatrice del senso di frustrazione (sic nella seconda perizia personologica) per l’ombra in cui è posto? L’occasione gli si presenta quando scopre che un giornalista ha pubblicato un libro in cui si rivelerebbero segreti e indiscrezioni sulla Santa Sede. Cerca allora di capire (forse influenzato da tale lettura) dove sia il marcio e, al culmine dei suoi ragionamenti, ne individua addirittura due luoghi: nello Stato del Vaticano e nella Chiesa di Cristo.

Lui può assistere alle conversazioni, può frugare nei documenti, addirittura può fotocopiarli liberamente e portarseli a casa, insomma è lui l’uomo della provvidenza che svelerà gli scandali dello Stato pontificio e riporterà la moralità nella Chiesa.

Il sentimento di grandiosità unito ad un esasperato ideale di giustizia (sic nelle perizie personologiche) che subdolamente si sono fatti spazio nella sua mente lo portano a contattare lo scrittore, a offrirsi di svelare, seppur velato, quello che crede di aver saputo e capito nelle secrete stanze, a consegnargli copie di documenti raccogliticci di cui, confida al giudice istruttore, non ha compreso molto, ma certamente su cui il giornalista insieme ad altri, più esperti di lui, lo avrebbero aiutato a fare chiarezza (sic nella sentenza di rinvio a giudizio). E quindi coinvolge anche altre persone distribuendo documenti a destra e a manca con la richiesta di esprimere pareri.

Poi, da sempliciotto qual è, cade facilmente nella trappola tesagli per verificare se la talpa fosse proprio lui, come tutti nella segreteria vaticana ormai avevano compreso.

La domanda che sorge spontanea è come mai, avendo contatti quotidiani e personali con il Papa, non abbia ritenuto di confidarsi direttamente e apertamente con lui, ma questo probabilmente non lo sapremo mai.

Intanto dovrà subire tre gradi di giudizio mentre noi, ad ogni dichiarazione della Santa Sede, dovremo subire l’interpretazione delle notizie da parte di un’informazione prevenuta e impostata sulla caccia alle streghe vaticane.

Non possiamo che compiangerlo il povero Paolo Gabriele. Nemmeno lui aveva chiaro dove lo avrebbe portato il suo sentire, chissà se ha capito che pasticcio ha combinato prima di tutto a se stesso, chissà se ha mai letto negli Atti degli Apostoli la fine di Anania e di sua moglie.

Perché al Papa non ha rubato solo oggetti materiali, ha rischiato di rubargli la pace scatenando le malignità e i pettegolezzi del mondo intero su di lui e la sua casa.

Ma non praevalebunt, chiunque essi siano, ha detto Gesù e ci ha rassicurati Benedetto XVI. E noi ne siamo pienamente convinti.

Paola de Lillo