DIRETTORIO SU PIETÀ POPOLARE E LITURGIA

CONGREGAZIONE PER IL CULTO DIVINO
E LA DISCIPLINA DEI SACRAMENTI

Città del Vaticano 2002

INTRODUZIONE (1-21)

Natura e struttura (4)
I destinatari (5)
La terminologia (6-10)
Pio esercizio (7)
Devozioni (8)
Pietà popolare (9)
Religiosità popolare (10)
Alcuni principi (11-13)
Il primato della Liturgia (11)
Valorizzazione e rinnovamento (12)
Distinzione e armonia con la Liturgia (13)
Il linguaggio della pietà popolare (14-20)
I gesti (15)
I testi e le formule (16)
Il canto e la musica (17)
Le immagini (18)
I luoghi (19)
I tempi (20)
Responsabilità e competenze (21)

 PARTE PRIMA

Linee emergenti
Dalla storia, dal Magistero, dalla teologia (22-92)

Cap. I. LITURGIA E PIETÀ POPOLARE ALLA LUCE DELLA STORIA (22-59)

Liturgia e pietà popolare nel corso dei secoli (22-46)
Nell’antichità cristiana (23-27)
Nel Medioevo (28-33)
Nell’epoca moderna (34-43)
Nell’epoca contemporanea (44-46)
Liturgia e pietà popolare: problematica attuale (47-59)
Indicazioni della storia: cause di squilibrio (48-49)
Nella luce della Costituzione liturgica (50-58)
L’importanza della formazione (59)

Cap. II. LITURGIA E PIETÀ POPOLARE NEL MAGISTERO DELLA CHIESA (60-75)

I valori della pietà popolare (61-64)
Alcuni pericoli che possono far deviare la pietà popolare (65-66)
Il soggetto della pietà popolare (67-69)
I pii esercizi (70-72)
Liturgia e pii esercizi (73-74)
Criteri per il rinnovamento dei pii esercizi (75)

Cap. III. PRINCIPI TEOLOGICI PER LA VALUTAZIONE E IL RINNOVAMENTO DELLA PIETÀ POPOLARE (76-92)

La vita cultuale: comunione col Padre,  per Cristo nello Spirito (76-80)
La Chiesa, comunità cultuale (81-84)
Sacerdozio comune e pietà popolare (85-86)
Parola di Dio e pietà popolare (87-89)
Pietà popolare e rivelazioni private (90)
Inculturazione e pietà popolare (91-92)

 

PARTE SECONDA

ORIENTAMENTI

PER L’ARMONIZZAZIONE DELLA PIETÀ POPOLARE CON LA LITURGIA (93-287)

Premessa (93)

Cap. IV. ANNO LITURGICO E PIETÀ POPOLARE (94-182)

La domenica (95)
Nel Tempo di Avvento (96-105)
La corona di Avvento (98)
Le  processioni di Avvento (99)
Le «Tempora d’inverno» (100)
La Vergine Maria nell’Avvento (101-102)
La  novena del Natale (103)
Il presepio (104)
La pietà popolare e lo spirito dell’Avvento (105)
Nel Tempo di Natale (106-123)
La Notte di Natale (109-111)
La festa della Santa Famiglia (112)
La festa dei Santi Innocenti (113)
Il 31 dicembre (114)
La solennità della santa Madre di Dio (115-117)
La solennità dell’Epifania del Signore (118)
La festa del Battesimo del Signore (119)
La festa della Presentazione del Signore (120-123)
Nel Tempo di Quaresima (124-137)
La venerazione a Cristo crocifisso (127-129)
La lettura della Passione del Signore (130)
La «Via Crucis» (131-135)
La «Via Matris» (136-137)
Settimana Santa (138-139)
Domenica delle Palme
Le palme e i rami di ulivo o di altri alberi (139)
Triduo pasquale (140-151)
Giovedì Santo
La visita al luogo della reposizione (141)
Venerdì Santo
La processione del Venerdì Santo (142-143)
Rappresentazione della Passione di Cristo (144)
Il ricordo della Vergine addolorata (145)
Sabato santo
L’«Ora della Madre» (147)
Domenica di Pasqua
L’incontro del Risorto con la Madre (149)
La benedizione della mensa familiare (150)
Il saluto pasquale alla Madre del Risorto (151)
Nel Tempo Pasquale (152-156)
La benedizione annuale delle famiglie nelle loro case (152)
La «Via lucis» (153)
La devozione alla divina misericordia (154)
La novena di Pentecoste (155)
La domenica di Pentecoste (156)
Nel Tempo durante l’anno (157-182)
La solennità della santissima Trinità (157-159)
La solennità del Corpo e Sangue del Signore (160-163)
L’adorazione eucaristica (164-165)
Il Cuore sacratissimo di Cristo (166-173)
Il Cuore immacolato di Maria (174)
Il Sangue preziosissimo di Cristo (175-179)
L’Assunzione della Beata Vergine (180-181)
Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani (182)

Cap. V. LA VENERAZIONE PER LA SANTA MADRE DEL SIGNORE (183-207)

Alcuni principi (183-186)
I tempi dei pii esercizi mariani (187-191)
La celebrazione della festa (187)
Il sabato (188)
Tridui, settenari, novene mariane (189)
I «mesi mariani» (190-191)
Alcuni pii esercizi mariani raccomandati dal Magistero (192-207)
Ascolto orante della Parola di Dio (193-194)
L’«Angelus Domini» (195)
Il «Regina caeli» (196)
Il Rosario (197-202)
Le Litanie della Vergine (203)
La consacrazione – affidamento a Maria (204)
Lo scapolare del Carmine e altri scapolari (205)
Le medaglie mariane (206)
L’inno «Akathistos» (207)

Cap. VI. LA VENERAZIONE PER  I SANTI  E I BEATI (208-247)

Alcuni principi (208-212)
I Santi Angeli (213-217)
San Giuseppe (218-223)
San Giovanni Battista (224-225)
Il culto tributato a Santi e Beati (226-247)
La celebrazione dei Santi (227-229)
Il giorno della festa (230-233)
Nella celebrazione dell’Eucaristia (234)
Nelle Litanie dei Santi (235)
Le reliquie dei Santi (236-237)
Le sante immagini (238-244)
Le processioni (245-247)

Cap. VII. I SUFFRAGI PER I DEFUNTI (248-260)

La fede nella risurrezione dei morti (248-250)
Significato dei suffragi (251)
Le esequie cristiane (252-254)
Altri suffragi (255)
La memoria dei defunti nella pietà popolare (256-260)

Cap. VIII. SANTUARI E PELLEGRINAGGI (261-287)

Il Santuario (262-279)
Alcuni principi (262-263)
Riconoscimento canonico (264)
Il santuario luogo di celebrazioni cultuali (265-273)
Valore esemplare (266)
La celebrazione della Penitenza (267)
La celebrazione dell’Eucaristia (268)
La celebrazione dell’Unzione degli infermi (269)
La celebrazione di altri sacramenti (270)
La celebrazione della Liturgia delle Ore (271)
La celebrazione dei sacramentali (272-273)
Il santuario luogo di evangelizzazione (274)
Il santuario luogo della carità (275)
Il santuario luogo di cultura (276)
Il santuario luogo di impegno ecumenico (277-278)
Il Pellegrinaggio (279-287)
Pellegrinaggi biblici (280)
Il pellegrinaggio cristiano (281-285)
Spiritualità del pellegrinaggio (286)
Svolgimento del pellegrinaggio (287)

CONCLUSIONE (288)


SIGLE

AAS          Acta Apostolicae Sedis

CCC          Catechismo della Chiesa Cattolica

CCL          Corpus Christianorum (Series Latina)

CIC           Codex Iuris Canonici

CSEL        Corpus Scriptorum Ecclesiasticorum Latinorum

DS H.        Denzinger – A. Schönmetzer, Enchiridion Symbolorum definitionum et declarationum de rebus fidei et morum.

EI              Enchiridion Indulgentiarum. Normae et concessiones (1999)

LG             Concilio Vaticano II, Costituzione Lumen gentium

PG             Patrologia graeca (J.P. Migne)

PL             Patrologia latina (J.P. Migne)

SC             Concilio Vaticano II, Costituzione Sacrosanctum Concilium

SCh           Sources chrétiennes

 


Dal «MESSAGGIO»  di Sua Santità Giovanni Paolo II all’Assemblea Plenaria della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti
(21 settembre 2001)

 2. La Sacra Liturgia, che la Costituzione Sacrosanctum Concilium qualifica come il culmine della vita ecclesiale, non può mai essere ridotta a semplice realtà estetica, né può essere considerata come uno strumento con finalità meramente pedagogiche o ecumeniche. La celebrazione dei santi misteri è innanzitutto azione di lode alla sovrana maestà di Dio, Uno e Trino, ed espressione voluta da Dio stesso. Con essa l’uomo, in modo personale e comunitario, si presenta dinanzi a Lui per rendergli grazie, consapevole che il suo essere non può trovare la sua pienezza senza lodarlo e compiere la sua volontà, nella costante ricerca del Regno che è già presente, ma che verrà definitivamente nel giorno della Parusia del Signore Gesù. La Liturgia e la vita sono realtà indissociabili. Una Liturgia che non avesse un riflesso nella vita diventerebbe vuota e certamente non gradita a Dio.

3. La celebrazione liturgica è un atto della virtù di religione che, coerentemente con la sua natura, deve caratterizzarsi per un profondo senso del sacro. In essa l’uomo e la comunità devono essere consapevoli di trovarsi in modo speciale dinanzi a Colui che è tre volte santo e trascendente. Di conseguenza l’atteggiamento richiesto non può che essere permeato dalla riverenza e dal senso dello stupore che scaturisce dal sapersi alla presenza della maestà di Dio. Non voleva forse esprimere questo Dio nel comandare a Mosè di togliersi i sandali dinanzi al roveto ardente? Non nasceva forse da questa consapevolezza l’atteggiamento di Mosè e di Elia, che non osarono guardare Iddio facie ad faciem?

Il Popolo di Dio  ha bisogno di vedere nei sacerdoti e nei diaconi un comportamento pieno di riverenza e di dignità, capace di aiutarlo a penetrare le cose invisibili, anche senza tante parole e spiegazioni. Nel Messale Romano, detto di San Pio V, come in diverse Liturgie orientali, vi sono bellissime preghiere con le quali il sacerdote esprime il più profondo senso di umiltà e di riverenza di fronte ai santi misteri: esse rivelano la sostanza stessa di qualsiasi Liturgia.

La celebrazione liturgica presieduta dal sacerdote è un’assemblea orante, radunata nella fede e attenta alla Parola di Dio. Essa ha come scopo primario quello di presentare alla divina Maestà il Sacrificio vivo, puro e santo, offerto sul Calvario una volta per sempre dal Signore Gesù, che si fa presente ogni volta che la Chiesa celebra la Santa Messa per esprimere il culto dovuto a Dio in spirito e verità.

Mi è noto l’impegno profuso da codesta Congregazione per promuovere, insieme con i Vescovi, l’approfondimento della vita liturgica nella Chiesa. Nell’esprimere il mio apprezzamento, auspico che tale preziosa opera contribuisca a rendere le celebrazioni sempre più degne e fruttuose.

4. La vostra Plenaria, anche in vista della preparazione di un apposito Direttorio, ha scelto come tema centrale quello della religiosità popolare. Essa costituisce un’espressione della fede che si avvale di elementi culturali di un determinato ambiente, interpretando ed interpellando la sensibilità dei partecipanti in modo vivace ed efficace.

La religiosità popolare, che si esprime in forme diversificate e diffuse, quando è genuina, ha come sorgente la fede e dev’essere, pertanto, apprezzata e favorita. Essa, nelle sue manifestazioni più autentiche, non si contrappone alla centralità della Sacra Liturgia, ma, favorendo la fede del popolo che la considera una sua connaturale espressione religiosa, predispone alla celebrazione dei sacri misteri.

5. Il corretto rapporto tra queste due espressioni di fede deve tener presenti alcuni punti fermi e, tra questi, innanzitutto che la Liturgia è il centro della vita della Chiesa e nessun’altra espressione religiosa può sostituirla od essere considerata allo stesso livello.

E’ importante ribadire, inoltre, che la religiosità popolare ha il suo naturale coronamento nella celebrazione liturgica, verso la quale, pur non confluendovi abitualmente, deve idealmente orientarsi, e ciò deve essere illustrato con un’appropriata catechesi.

Le espressioni della religiosità popolare appaiono talora inquinate da elementi non coerenti con la dottrina cattolica. In tali casi esse vanno purificate con prudenza e pazienza, attraverso contatti con i responsabili e una catechesi attenta e rispettosa, a meno che incongruenze radicali non rendano necessarie misure chiare e immediate.

Queste valutazioni competono innanzitutto al Vescovo diocesano o ai Vescovi del territorio interessati a tali forme di religiosità. In questo caso è opportuno che i Pastori confrontino le loro esperienze per offrire orientamenti pastorali comuni, evitando contraddizioni dannose per il popolo cristiano. Tuttavia, a meno di palesi motivi contrari, i Vescovi abbiano nei confronti della religiosità popolare un atteggiamento positivo ed incoraggiante.

***

CONGREGAZIONE PER IL CULTO DIVINO

E LA DISCIPLINA DEI SACRAMENTI

Prot. N. 1532/00/L

DECRETO

Nell’affermare il primato della Liturgia, «culmine a cui tende l’azione della Chiesa e, insieme, fonte da cui promana tutta la sua virtù» (Sacrosanctum Concilium 10), il Concilio Ecumenico Vaticano II  ricorda tuttavia che «la vita spirituale non si esaurisce nella partecipazione alla sola Liturgia» (ibidem 12). Ad alimentare la vita spirituale dei fedeli vi sono, infatti, anche «i pii esercizi del popolo cristiano», specialmente quelli raccomandati dalla Sede Apostolica e praticati nelle Chiese particolari su mandato o con l’approvazione del Vescovo. Nel richiamare l’importanza che tali espressioni cultuali siano conformi alle leggi e alle norme della Chiesa, i Padri conciliari hanno tracciato l’ambito della loro comprensione teologica e pastorale: «i pii esercizi siano ordinati in modo da essere in  armonia con la sacra Liturgia, da essa traggano in qualche modo ispirazione, e ad essa, data la sua natura di gran lunga superiore, conducano il popolo cristiano» (ibidem 13).

Alla luce di tale autorevole insegnamento e di altri pronunciamenti del Magistero della Chiesa circa le pratiche di pietà del popolo cristiano e raccogliendo le istanze pastorali emerse in questi anni, la Plenaria della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti, svoltasi nei giorni 26-28 settembre 2001, ha approvato il presente Direttorio. In esso vengono considerati, in forma organica, i nessi che intercorrono tra Liturgia e pietà popolare, richiamando i princìpi che guidano tale relazione e dando orientamenti al fine di una loro fruttuosa attuazione nelle Chiese particolari, secondo la peculiare tradizione di ciascuna. E’ dunque, a titolo speciale, compito dei Vescovi valorizzare la pietà popolare, i cui frutti sono stati e sono di grande valore per la conservazione della fede nel popolo cristiano, coltivando un atteggiamento pastoralmente positivo e incoraggiante verso di essa.

Ricevuta dal Sommo Pontefice Giovanni Paolo II l’approvazione a che questo Dicastero pubblichi il «Direttorio su pietà popolare e Liturgia. Principi e orientamenti» (Foglio della Segreteria di Stato del 14 dicembre 2001, Prot. N. 497.514), la Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti è lieta di renderlo pubblico, con l’auspicio che, da questo strumento, Pastori e fedeli possano trarre giovamento per crescere in Cristo, per lui e con lui, nello Spirito Santo, a lode del Padre che sta nei cieli.

Nonostante qualsiasi cosa in contrario.

Dalla sede della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti, il 17 dicembre 2001.

Jorge A. Card. Medina Estévez

Prefetto

Francesco Pio Tamburrino

Arcivescovo Segretario


INTRODUZIONE

 

1. Nell’assicurare l’incremento e la promozione della Liturgia, «culmine a cui tende l’azione della Chiesa e, insieme, fonte da cui promana tutta la sua virtù»[1], questa Congregazione avverte la necessità che non siano trascurate altre forme di pietà del popolo cristiano e il loro fruttuoso apporto per vivere uniti a Cristo, nella Chiesa, secondo l’insegnamento del Concilio Vaticano II.[2]

A seguito del rinnovamento conciliare, la situazione della pietà popolare cristiana si presenta variata a seconda dei Paesi e delle tradizioni locali. Si notano atteggiamenti contrastanti, quali: abbandono manifesto e sbrigativo di forme di pietà ereditate dal passato, lasciando vuoti non sempre colmabili;  attaccamento a modi imperfetti o errati di devozione, che allontanano dalla genuina rivelazione biblica e sono in concorrenza con l’economia sacramentale; critiche ingiustificate alla pietà del popolo semplice in nome di una presunta “purità” della fede; esigenza di salvaguardare le ricchezze della pietà popolare, espressione del sentire profondo maturato dai credenti in un dato spazio e tempo; bisogno di purificazione da equivoci e da pericoli di sincretismo; rinnovata vitalità della religiosità popolare quale resistenza e reazione a una cultura tecnologico-pragmatica e all’utilitarismo economico; caduta di interesse per la pietà popolare provocato da ideologie secolarizzate e dall’aggressione di “sette” ad essa ostili.

La questione richiama costantemente l’attenzione di Vescovi, presbiteri e diaconi, di operatori pastorali e di studiosi, ai quali stanno a cuore sia la promozione della vita liturgica presso i fedeli, sia la valorizzazione della pietà popolare.

2. Il rapporto tra  Liturgia e pii esercizi è stato toccato espressamente dal Concilio Vaticano II nella Costituzione sulla sacra Liturgia. [3] In varie circostanze la Sede Apostolica[4]e le Conferenze dei Vescovi[5] hanno affrontato più ampiamente l’argomento della pietà popolare, riproposta tra i compiti futuri del rinnovamento dallo stesso Giovanni Paolo II nella Lettera apostolica Vicesimus Quintus Annus: la «pietà popolare non può essere né ignorata, né trattata con indifferenza o disprezzo, perché è ricca di valori, e già di per sé esprime l’atteggiamento religioso di fronte a Dio. Ma essa ha bisogno di essere di continuo evangelizzata, affinché la fede, che esprime, divenga un atto sempre più maturo ed autentico. Tanto i pii esercizi del popolo cristiano, quanto altre forme di devozione, sono accolti e raccomandati purché non sostituiscano e non si mescolino alle celebrazioni liturgiche. Un’autentica pastorale liturgica saprà appoggiarsi sulle ricchezze della pietà popolare, purificarle e orientarle verso la Liturgia come offerta dei popoli». [6]

3. Nell’intento, dunque, di aiutare «i Vescovi perché, oltre al culto liturgico, siano incrementate e tenute in onore le preghiere e le pratiche di pietà del popolo cristiano, che pienamente rispondano alle norme della Chiesa»[7], è sembrato opportuno a questo Dicastero redigere il presente Direttorio, nel quale si cercano di considerare in forma organica i nessi che intercorrono tra Liturgia e pietà popolare, ricordando alcuni principi e dando indicazioni per la loro attuazione pratica.

Natura e struttura

4. Il Direttorio è costituito da due parti. La prima, denominata Linee emergenti, fornisce gli elementi per attuare una armonica composizione tra culto liturgico e pietà popolare. Anzitutto viene tratteggiata l’esperienza maturata lungo la storia e la rilevazione della problematica del nostro tempo (cap. I); si ripropongono quindi organicamente gli insegnamenti del Magistero, quale indispensabile premessa di comunione ecclesiale e di azione proficua (cap. II ); infine, sono presentati i principi teologici alla cui luce affrontare e risolvere i problemi relativi al rapporto tra Liturgia e pietà popolare (cap. III). Solo nel sapiente e operoso rispetto di questi presupposti c’è la possibilità di sviluppare una vera e feconda armonizzazione. Per converso, la loro disattenzione si risolve in una reciproca sterile ignoranza, in una dannosa confusione o in una contrapposizione polemica.

La seconda parte, chiamata Orientamenti, presenta un insieme di proposte operative, senza tuttavia presumere di abbracciare tutti gli usi e le pratiche di pietà esistenti in luoghi particolari. Nel menzionare le differenti espressioni di pietà popolare non si vuole sollecitarne l’adozione laddove non esistano. L’esposizione è sviluppata con riferimento alla celebrazione dell’Anno liturgico (cap. IV); alla peculiare venerazione che la Chiesa rende alla Madre del Signore (cap. V); alla devozione verso gli Angeli, i Santi e i Beati (cap. VI); ai suffragi per i fratelli e le sorelle defunti (cap. VII); allo svolgimento dei pellegrinaggi e alle manifestazioni di pietà nei santuari (cap. VIII).       

Nel suo insieme, il Direttorio ha lo scopo di orientare e anche se, in alcuni casi, previene possibili abusi e deviazioni, ha un indirizzo costruttivo e un tono positivo. In questo contesto gli Orientamenti forniscono sulle singole devozioni brevi notizie storiche, ricordano i vari pii esercizi in cui esse si esprimono, richiamano le ragioni teologiche che ne sono a fondamento, danno suggerimenti pratici sul tempo, sul luogo, sul linguaggio e su altri elementi per una valida armonizzazione tra le azioni liturgiche e i pii esercizi.

I destinatari

5. Le proposte operative, che riguardano soltanto la Chiesa latina e prevalentemente il Rito Romano, sono indirizzate anzitutto ai Vescovi, a cui spetta il compito di presiedere la comunità di culto diocesana, di incrementare la vita liturgica e di coordinare con essa le altre forme cultuali;[8] ne sono destinatari pure i loro collaboratori diretti, ossia i loro Vicari, i presbiteri e i diaconi, in modo speciale i Rettori di santuari. Sono inoltre rivolte anche ai Superiori maggiori degli istituti di vita consacrata, maschili e femminili, perché non poche manifestazioni della pietà popolare sono sorte e si sono sviluppate in quell’ambito, e perché dalla collaborazione dei religiosi e delle religiose e dei membri degli istituti secolari molto si può attendere per la giusta armonizzazione doverosamente auspicata.

La terminologia

6. Nel corso dei secoli le Chiese d’Occidente sono state variamente segnate dal fiorire e dal radicarsi nel popolo cristiano, insieme e accanto alle celebrazioni liturgiche, di molteplici e variate modalità di esprimere, con semplicità e trasporto, la fede in Dio, l’amore per Cristo Redentore, l’invocazione dello Spirito Santo, la devozione per la Vergine Maria, la venerazione dei Santi, l’impegno di conversione e la carità fraterna. Poiché la trattazione di questa complessa materia, denominata comunemente “religiosità popolare” o “pietà popolare”[9], non conosce una terminologia univoca, si impone qualche precisazione. Senza pretendere di voler dirimere ogni questione, si descrive il significato usuale delle locuzioni impiegate in questo documento.

Pio esercizio

7. Nel Direttorio la locuzione “pio esercizio” designa quelle espressioni pubbliche o private della pietà cristiana che, pur non facendo parte della Liturgia, sono in armonia con essa, rispettandone lo spirito, le norme, i ritmi; inoltre dalla Liturgia traggono in qualche modo ispirazione e ad essa devono condurre il popolo cristiano.[10] Alcuni pii esercizi si compiono per mandato della stessa Sede Apostolica, altri per mandato dei Vescovi;[11] molti fanno parte delle tradizioni cultuali delle Chiese particolari e delle famiglie religiose. I pii esercizi hanno sempre un riferimento alla rivelazione divina pubblica e uno sfondo ecclesiale: riguardano infatti le realtà di grazia che Dio ha rivelato in Cristo Gesù e, conformi alle «norme e leggi della Chiesa», si svolgono «secondo le consuetudini o i libri legittimamente approvati».[12]

Devozioni

8. Nel nostro ambito, il termine viene usato per designare le diverse pratiche esteriori (ad esempio: testi di preghiera e di canto; osservanza di tempi e visita a luoghi particolari, insegne, medaglie, abiti e consuetudini), che, animate da interiore atteggiamento di fede, manifestano un accento particolare della relazione del fedele con le Divine Persone, o con la beata Vergine nei suoi privilegi di grazia e nei titoli che li esprimono, o con i Santi, considerati nella loro configurazione a Cristo o nel ruolo da loro svolto nella vita della Chiesa.[13]

Pietà popolare

9. La locuzione “pietà popolare” designa qui le diverse manifestazioni cultuali di carattere privato o comunitario che, nell’ambito della fede cristiana, si esprimono prevalentemente non con i moduli della sacra Liturgia, ma nelle forme peculiari derivanti dal genio di un popolo o di una etnia e della sua cultura.

La pietà popolare, ritenuta giustamente un «vero tesoro del popolo di Dio»,[14] «manifesta una sete di Dio che solo i semplici e i poveri possono conoscere; rende capaci di generosità e di sacrificio fino all’eroismo, quando si tratta di manifestare la fede; comporta un senso acuto degli attributi profondi di Dio: la paternità, la provvidenza, la presenza amorosa e costante; genera atteggiamenti interiori raramente osservati altrove al medesimo grado: pazienza, senso della croce nella vita quotidiana, distacco, apertura agli altri, devozione».[15]

Religiosità popolare

10. La realtà indicata con la locuzione “religiosità popolare” riguarda un’esperienza universale: nel cuore di ogni persona, come nella cultura di ogni popolo e nelle sue manifestazioni collettive, è sempre presente una dimensione religiosa. Ogni popolo infatti tende ad esprimere la sua visione totalizzante della trascendenza e la sua concezione della natura, della società e della storia attraverso mediazioni cultuali, in una sintesi caratteristica di grande significato umano e spirituale.

La religiosità popolare non si rapporta necessariamente alla rivelazione cristiana. Ma in molte regioni, esprimendosi in una società impregnata in vario modo di elementi cristiani, dà luogo ad una sorta di “cattolicesimo popolare”, in cui coesistono, più o meno armonicamente, elementi provenienti dal senso religioso della vita, dalla cultura propria di un popolo, dalla rivelazione cristiana.

Alcuni principi

Per introdurre ad una visione d’insieme, si richiama qui succintamente quanto viene largamente esposto e spiegato nel presente Direttorio.

Il primato della Liturgia

11. La storia  insegna che, in certe epoche, la vita di fede è stata sostenuta da forme e pratiche di pietà, spesso sentite dai fedeli come maggiormente incisive e coinvolgenti delle celebrazioni liturgiche. In verità, «ogni celebrazione liturgica, in quanto opera di Cristo sacerdote e del suo Corpo, che è la Chiesa, è azione sacra per eccellenza, e nessun’altra azione della Chiesa ne uguaglia l’efficacia allo stesso titolo e allo stesso grado».[16]  Deve essere, pertanto, superato l’equivoco che la Liturgia non sia “popolare”: il rinnovamento conciliare ha inteso promuovere la partecipazione del popolo nella celebrazione liturgica, favorendo modi e spazi (canti, coinvolgimento attivo, ministeri laicali…) che, in altri tempi, hanno suscitato preghiere alternative o sostitutive all’azione liturgica.

L’eminenza della Liturgia rispetto ad ogni altra possibile e legittima forma di preghiera cristiana deve trovare riscontro nella coscienza dei fedeli: se le azioni sacramentali sono necessarie per vivere in Cristo, le forme della pietà popolare appartengono invece all’ambito del facoltativo. Prova veneranda è il precetto di partecipare alla Messa domenicale, mentre nessun obbligo ha mai riguardato i pii esercizi, per quanto raccomandati e diffusi, i quali possono tuttavia essere assunti con carattere obbligatorio da comunità o singoli fedeli.

Ciò chiama in causa la formazione dei sacerdoti e dei fedeli, affinché venga data la preminenza alla preghiera liturgica e all’anno liturgico su ogni altra pratica di devozione. In ogni caso, questa doverosa preminenza non può comprendersi in termini di esclusione, contrapposizione, emarginazione.

Valorizzazione e rinnovamento

12. La facoltatività dei pii esercizi non deve quindi significare scarsa considerazione né disprezzo di essi. La via da seguire è quella di valorizzare correttamente e sapientemente le non poche ricchezze delle pietà popolare, le potenzialità che possiede, l’impegno di vita cristiana che sa suscitare.

Essendo il Vangelo la misura ed il criterio valutativo di ogni forma espressiva – antica e nuova – di pietà cristiana, alla valorizzazione dei pii esercizi e di pratiche di devozione deve coniugarsi l’opera di purificazione, talvolta necessaria per conservare il giusto riferimento al mistero cristiano.  Vale per la pietà popolare quanto asserito per la Liturgia cristiana, ossia che «non può assolutamente accogliere riti di magia, di superstizione, di spiritismo, di vendetta o a connotazione sessuale».[17]

In tale senso, si comprende che il rinnovamento voluto per la Liturgia dal Concilio Vaticano II deve, in qualche modo, ispirare anche la corretta valutazione e il rinnovamento dei pii esercizi e pratiche di devozione. Nella pietà popolare devono percepirsi: l’afflato biblico, essendo improponibile una preghiera cristiana senza riferimento diretto o indiretto alla pagina biblica; l’afflato liturgico, dal momento che dispone e fa eco ai misteri celebrati nelle azioni liturgiche; l’afflato ecumenico, ossia la considerazione di sensibilità e tradizioni cristiane diverse, senza per questo giungere a inibizioni inopportune; l’afflato antropologico, che si esprime sia nel conservare simboli ed espressioni significative per un dato popolo evitando tuttavia l’arcaismo privo di senso, sia nello sforzo di interloquire con sensibilità odierne. Per risultare fruttuoso, tale rinnovamento deve essere permeato di senso pedagogico e realizzato con gradualità, tenendo conto dei luoghi e delle circostanze.    

Distinzione e armonia con la Liturgia

13. La differenza oggettiva tra i pii esercizi e le pratiche di devozione rispetto alla Liturgia deve trovare visibilità nell’espressione cultuale. Ciò significa la non commistione delle formule proprie di pii esercizi con le azioni liturgiche; gli atti di pietà e di devozione trovano il loro spazio al di fuori della celebrazione dell’Eucaristia e degli altri sacramenti.

Da una parte, si deve pertanto evitare la sovrapposizione, poiché il linguaggio, il ritmo, l’andamento, gli accenti teologici della pietà popolare si differenziano dai corrispondenti delle azioni liturgiche. Similmente, è da superare, dove è il caso, la concorrenza o la contrapposizione con le azioni liturgiche: va salvaguardata la precedenza da dare alla domenica, alla solennità, ai tempi e giorni liturgici.

Dall’altra parte, si eviti di apportare modalità di “celebrazione liturgica” ai pii esercizi, che debbono conservare il loro stile, la loro semplicità, il proprio linguaggio.

Il linguaggio della pietà popolare

14. Il linguaggio verbale e gestuale della pietà popolare, pur conservando la semplicità e la spontaneità d’espressione, deve sempre risultare curato, in modo da far trasparire in ogni caso, insieme alla verità di fede, la grandezza dei misteri cristiani.

I gesti

15. Una grande varietà e ricchezza di espressioni corporee, gestuali e simboliche caratterizza la pietà popolare. Si pensi esemplarmente all’uso di baciare o toccare con la mano le immagini, i luoghi, le reliquie e gli oggetti sacri; intraprendere pellegrinaggi e fare processioni; compiere tratti di strada o percorsi “speciali” a piedi scalzi o in ginocchio; presentare offerte, ceri e doni votivi; indossare abiti particolari; inginocchiarsi e prostrarsi; portare medaglie e insegne…  Simili espressioni, che si tramandano da secoli di padre in figlio, sono modi diretti e semplici di manifestare esternamente il sentire del cuore e l’impegno di vivere cristianamente. Senza questa componente interiore c’è il rischio che la gestualità simbolica scada in consuetudini vuote e, nel peggiore dei casi, nella superstizione.

I testi e le formule

16. Pur redatti con linguaggio, per così dire, meno rigoroso rispetto alle preghiere della Liturgia, i testi di preghiere e formule di devozione devono trarre ispirazione dalle pagine della Sacra Scrittura, della Liturgia, dei Padri e del Magistero, concordare con la fede della Chiesa. I testi stabili e pubblici di preghiere e atti di pietà devono recare l’approvazione dell’Ordinario del luogo.[18]

Il canto e la musica

17. Anche il canto, espressione naturale dell’anima di un popolo, occupa una funzione di rilievo nella pietà popolare.[19] La cura nel conservare l’eredità di canti ricevuti dalla tradizione deve coniugarsi con il sentire biblico ed ecclesiale, aperta alla necessità di revisioni o di nuove composizioni.

Il canto si associa istintivamente presso alcuni popoli col battito delle mani, il movimento ritmico del corpo e passi di danza. Tali forme di esprimere il sentire interiore fanno parte delle tradizioni popolari, specie in occasione delle feste dei santi Patroni; è chiaro che devono essere manifestazioni di vera preghiera comune e non semplicemente spettacolo. Il fatto che siano abituali in determinati luoghi non significa che si debba incoraggiare la loro estensione ad altri luoghi, nei quali non sarebbero connaturali.

Le immagini

18. Un’espressione di grande importanza nell’ambito della pietà popolare è l’uso di immagini sacre che, secondo i canoni della cultura e la molteplicità delle arti, aiutano i fedeli a porsi davanti ai misteri della fede cristiana. La venerazione per le immagini sacre appartiene, infatti, alla natura della pietà cattolica: ne è segno il grande patrimonio artistico, rinvenibile in chiese e santuari, alla cui costituzione ha spesso contribuito la devozione popolare.

Vale il principio relativo all’impiego liturgico delle immagini di Cristo, della Vergine e dei Santi, tradizionalmente asserito e difeso dalla Chiesa, consapevole che «l’onore reso all’immagine è diretto alla persona rappresentata».[20] Il necessario rigore richiesto per il programma iconografico delle chiese[21] – rispetto delle verità della fede e della loro gerarchia, bellezza e qualità – deve potersi incontrare anche in immagini e oggetti destinati alla devozione privata e personale.

Poiché l’iconografia per gli edifici sacri non è lasciata all’iniziativa privata, i responsabili di chiese e oratori tutelino la dignità, la bellezza e la qualità delle immagini esposte alla pubblica venerazione, impedendo che quadri o statue ispirati da devozioni private di singoli siano imposte di fatto alla venerazione comune.[22]

I Vescovi, come anche i rettori dei santuari, vigilino affinché le immagini sacre variamente riprodotte ad uso dei fedeli, per essere esposte nelle case o portate al collo o custodite presso di sé, non scadano mai nella banalità né inducano in errore.

I luoghi

19. Insieme alla chiesa, la pietà popolare ha uno spazio espressivo di rilievo nel santuario – talvolta non è una chiesa -, spesso contraddistinto da peculiari forme e pratiche di devozione, tra cui la più nota è il pellegrinaggio. Accanto a tali luoghi, manifestamente riservati alla preghiera comunitaria e privata, ne esistono altri, non meno importanti, quali la casa, gli ambienti di vita e di lavoro; in date occasioni, anche le strade e le piazze diventano spazi di manifestazione di fede.

I tempi

20. Il ritmo scandito dall’alternarsi del dì e della notte, dai mesi, dal cambio delle stagioni, è accompagnato da variate espressioni di pietà popolare. Essa è legata ugualmente a giorni particolari, marcati da avvenimenti lieti e tristi della vita personale, familiare, comunitaria. E’ poi soprattutto la “festa”, con i giorni della preparazione, a far risaltare le manifestazioni religiose che hanno contribuito a forgiare la tradizione peculiare di un data comunità.

Responsabilità e competenze

21. Le manifestazioni della pietà popolare sono sotto la responsabilità dell’Ordinario del luogo: a lui compete la loro regolamentazione, di incoraggiarle nella funzione di aiuto ai fedeli per la vita cristiana, di purificarle dove è necessario e di evangelizzarle; di vegliare che non si sostituiscano né si mescolino con le celebrazioni liturgiche;[23] di approvare i testi di preghiere e di formule connesse con atti pubblici di pietà e pratiche di devozione.[24] Le disposizioni date da un Ordinario per il proprio territorio di giurisdizione riguardano per sé la Chiesa particolare a lui affidata.

Pertanto, singoli fedeli – chierici e laici – come gruppi particolari eviteranno di proporre pubblicamente testi di preghiere, formule ed iniziative soggettivamente varate, senza il consenso dell’Ordinario.

A norma della citata Costituzione apostolica Pastor Bonus, n. 70, è compito di questa Congregazione aiutare i Vescovi in materia di preghiere e pratiche di pietà del popolo cristiano, come di dare disposizioni al riguardo in casi che oltrepassano i confini di una Chiesa particolare e quando si impone un provvedimento sussidiario.

***

PARTE PRIMA

LINEE EMERGENTI
DALLA STORIA,  DAL MAGISTERO,  DALLA TEOLOGIA

Capitolo I

LITURGIA E PIETÀ POPOLARE
ALLA LUCE DELLA STORIA

 

Liturgia e pietà popolare nel corso dei secoli

22. I rapporti tra Liturgia e pietà popolare sono antichi. E’ necessario pertanto procedere anzitutto ad una ricognizione, seppur rapida, del modo in cui nel corso dei secoli essi sono stati vissuti.  Ne verranno, in non pochi casi, ispirazione e suggerimenti per risolvere le questioni che si pongono nel nostro tempo.

Nell’antichità cristiana

23. Nell’età apostolica e subapostolica si riscontra una profonda fusione tra le espressioni cultuali che oggi chiamiamo rispettivamente Liturgia e pietà popolare. Per le più antiche comunità cristiane la sola realtà che conti è Cristo (cf. Col 2, 16), le sue parole di vita (cf. Gv 6, 63), il suo comandamento dell’amore reciproco (cf. Gv 13, 34), le azioni rituali che egli ha comandato di compiere in sua memoria (cf. 1 Cor 11, 24-26). Tutto il resto – giorni e mesi, stagioni e anni, feste e noviluni, cibi e bevande … (cf. Gal 4, 10; Col 2, 16-l9) – è secondario.

Nella primitiva generazione cristiana si possono tuttavia già individuare i segni di una pietà personale, proveniente in primo luogo dalla tradizione giudaica, come il seguire le raccomandazioni e l’esempio di Gesù e di san Paolo circa la preghiera incessante (cf. Lc 18, 1; Rm 12, 12;  1 Ts 5, 17),  ricevendo o iniziando ogni cosa con rendimento di grazie (cf. 1 Cor 10, 31; 1 Ts 2, 13; Col 3,17). Il pio israelita cominciava la giornata lodando e ringraziando Dio e proseguiva, con questo spirito, in ogni azione del giorno; in tal modo, ogni momento lieto o triste, dava luogo a un’espressione di lode, supplica, pentimento. I Vangeli e gli altri scritti del Nuovo Testamento contengono invocazioni rivolte a Gesù, ripetute quasi come giaculatorie dai fedeli, fuori dal contesto liturgico e segno di  devozione cristologica. C’è da pensare che fosse comune tra i fedeli ripetere espressioni bibliche quali: «Gesù, Figlio di Davide, abbi pietà di me» (Lc 18,38); «Signore, se vuoi, puoi sanarmi» (Mt 8,1); «Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno» (Lc 23,42); «Mio Signore e mio Dio» (Gv 20,28); «Signore Gesù, accogli il mio spirito» (At 7,59). Sul modello di questa pietà si svilupperanno innumerevoli preghiere rivolte a Cristo dai fedeli di tutti i tempi.

Fino dal secolo II, si osserva che forme ed espressioni della pietà popolare, sia di origine giudaica, sia di matrice greco-romana, sia di altre culture, confluiscono spontaneamente nella Liturgia. È stato rilevato, ad esempio, che nel documento conosciuto come Traditio apostolica non sono infrequenti elementi di matrice popolare.[25]

Così pure nel culto dei martiri, di notevole rilevanza nelle Chiese locali, sono riscontrabili tracce di usi popolari relativi alla memoria dei defunti.[26] Tracce di pietà popolare si notano pure in alcune primitive espressioni di venerazione verso la beata Vergine,[27] tra cui si ricorda la preghiera Sub tuum praesidium e l’iconografia mariana delle catacombe di Priscilla a Roma.

La Chiesa quindi, pur rigorosa per quanto riguarda le condizioni interiori e i requisiti ambientali per una degna celebrazione dei divini misteri (cf. 1 Cor 11, 17-32), non dubita di incorporare essa stessa nei riti liturgici forme ed espressioni della pietà individuale, domestica, comunitaria.

In quest’epoca, Liturgia e pietà popolare non si contrappongono né concettualmente né pastoralmente: concorrono armonicamente alla celebrazione dell’unico mistero di Cristo unitariamente considerato e al sostegno della vita soprannaturale ed etica dei discepoli del Signore.

24. A partire dal IV secolo, anche per la nuova situazione politico-sociale in cui venne a trovarsi la Chiesa, la questione del rapporto tra espressioni liturgiche ed espressioni di pietà popolare si pone in termini non solo di spontanea convergenza ma anche di consapevole adattamento e inculturazione.

Le varie Chiese locali, guidate da chiare intenzioni evangelizzatrici e pastorali, non disdegnano di assumere nella Liturgia, debitamente purificate, forme cultuali solenni e festose provenienti dal mondo pagano, capaci di commuovere gli animi e di colpire l’immaginazione, verso le quali il popolo si sentiva attratto. Tali forme, poste al servizio del mistero del culto, non apparivano contrarie né alla verità del Vangelo né alla purezza del genuino culto cristiano. Anzi si rilevava che solo nel culto reso a Cristo, vero Dio e vero Salvatore, risultavano vere molte espressioni cultuali che, scaturite dal profondo senso religioso dell’uomo, erano tributate a falsi dei e a falsi salvatori.

25. Nei secoli IV-V si fa più manifesto il senso del sacro riferito al tempo e ai luoghi. Per il primo, infatti, le Chiese locali, oltre a richiamarsi ai dati neotestamentari relativi al “giorno del Signore”, alle festività pasquali, ai tempi di digiuno (cf. Mc 2,18-22), stabiliscono giorni particolari per celebrare alcuni misteri salvifici di Cristo, quali l’Epifania, il Natale, l’Ascensione; per onorare le memorie dei martiri nel loro dies natalis; per ricordare il transito dei loro Pastori nell’anniversario del dies depositionis; per celebrare alcuni sacramenti o assumere solenni impegni di vita. Per la sacralizzazione del luogo, quello in cui la comunità viene convocata per celebrare i divini misteri e la lode del Signore, sottratto talora al culto pagano o semplicemente profano, viene dedicato esclusivamente al culto divino e diviene, per la disposizione stessa degli spazi architettonici, un riflesso del mistero di Cristo e una immagine della Chiesa celebrante.

26. In quest’epoca matura il processo di formazione e conseguente differenziazione delle varie famiglie liturgiche. Le più importanti Chiese metropolitane infatti, per motivi di lingua, di tradizione teologica, di sensibilità spirituale, di contesto sociale, celebrano l’unico culto del Signore con propri moduli culturali e popolari. Ciò conduce progressivamente alla creazione di sistemi liturgici aventi ciascuno un peculiare stile celebrativo e un proprio complesso di testi e di riti.     Non è quindi privo di interesse rilevare che alla formazione dei riti liturgici, anche nei periodi riconosciuti come aurei, non sono estranei gli elementi popolari.

D’altra parte i Vescovi e i sinodi regionali intervengono nell’organizzazione del culto stabilendo norme, vegliando sulla correttezza dottrinale dei testi e sulla loro bellezza formale, valutando le sequenze rituali.[28] Tali interventi determinano l’instaurarsi di un regime liturgico di forme ormai fissate, in cui necessariamente si smorza l’originaria creatività, che non era tuttavia arbitrarietà. In ciò alcuni studiosi individuano una delle cause della futura proliferazione di testi per la pietà privata e popolare.

27. Il pontificato di san Gregorio Magno (590-604), insigne pastore e liturgista, suole essere indicato come un esemplare punto di riferimento di un fecondo rapporto tra Liturgia e pietà popolare. Quel Pontefice infatti svolge un’intensa opera liturgica orientata ad offrire al popolo romano, attraverso l’organizzazione di processioni, stazioni, rogazioni, strutture rispondenti alla sensibilità popolare, che sono tuttavia saldamente inserite nell’ambito stesso della celebrazione dei divini misteri; impartisce sagge direttive perché la conversione dei nuovi popoli al Vangelo non avvenga a scapito della loro tradizione culturale, anzi la stessa Liturgia risulti arricchita di nuove legittime espressioni cultuali; armonizza le nobili espressioni del genio artistico con quelle più umili della sensibilità popolare; assicura il senso unitario del culto cristiano ancorandolo saldamente alla celebrazione della Pasqua, sebbene vari eventi dell’unico mistero salvifico –  come il Natale, l’Epifania e l’Ascensione … -, siano oggetto di celebrazioni particolari e siano in espansione le memorie dei Santi.

Nel Medioevo

28. Nell’Oriente cristiano, particolarmente bizantino, l’età medievale si presenta come tempo della lotta contro l’eresia iconoclasta in due fasi (725-787 e 815-843), periodo “sparti-acque” per lo sviluppo della Liturgia, dei commenti classici sulla Liturgia Eucaristica e dell’iconografia riguardante l’edificio di culto.

In campo liturgico si accresce considerevolmente il patrimonio innografico e i riti assumono la loro forma definitiva. La Liturgia riflette la visione simbolica dell’universo e la concezione gerarchica e sacrale del mondo. In essa convergono le istanze della società cristiana, gli ideali e le strutture del monachesimo, le aspirazioni popolari, le intuizioni dei mistici e le regole degli asceti.

Superata la crisi iconoclasta con il decreto De sacris imaginibus del Concilio ecumenico Niceno II (787),[29] una vittoria consolidata nel “Trionfo dell’Ortodossia” (843), l’iconografia si sviluppa, si organizza in forma definitiva, si dà una legittimazione dottrinale. L’icona, ieratica, di grande capacità simbolica, è essa stessa parte della celebrazione liturgica: riflette il mistero celebrato, ne costituisce una forma di presenza permanente e lo propone al popolo fedele.

29. In Occidente l’incontro tra il cristianesimo e nuovi popoli, soprattutto celti, visigoti, anglosassoni, francogermanici, avvenuto già nel secolo V, dà luogo nell’alto Medioevo ad un processo di formazione di nuove culture, di nuove istituzioni politiche e civili.

Nel vasto arco di tempo che va dal secolo VII fino alla metà del secolo XV si determina e progressivamente si accentua la differenziazione tra Liturgia e pietà popolare, fino al crearsi un dualismo celebrativo: parallelamente alla Liturgia, officiata in lingua latina, si sviluppa una pietà popolare comunitaria, che si esprime in lingua volgare.

30. Tra le cause che in questo periodo hanno determinato tale dualismo si possono indicare: 

– l’idea che la Liturgia è competenza piuttosto dei chierici, essendo i laici pressoché spettatori;

– la spiccata differenziazione dei ruoli nella società cristiana – chierici, monaci, laici – dà luogo a forme e a stili diversi di preghiera; 

– la considerazione distinta e particolareggiata, in ambito liturgico e iconografico, dei vari aspetti dell’unico mistero di Cristo; se da un lato è espressione di attenzione amorosa verso la vita e l’opera del Signore, dall’altro non facilita l’esplicita percezione della centralità della Pasqua e favorisce il moltiplicarsi di momenti e forme celebrative di indole popolare;

– l’insufficiente conoscenza diretta delle Scritture non solo da parte dei laici, ma anche da parte di molti chierici e religiosi, rende difficile l’accesso alla chiave indispensabile per comprendere la struttura e il linguaggio simbolico della Liturgia;

– la diffusione, per contro, della letteratura apocrifa, ricca di racconti miracolosi e di episodi aneddotici, esercita un influsso considerevole nell’iconografia e, colpendo l’immaginazione dei fedeli, ne attira l’attenzione;

– la rarità della predicazione di indole omiletica, la quasi scomparsa di quella mistagogica e l’insufficiente formazione catechetica, per cui la celebrazione liturgica resta chiusa all’intelligenza e alla partecipazione attiva dei fedeli, i quali cercano di conseguenza forme e momenti cultuali alternativi;

– la tendenza all’allegorismo che, incidendo eccessivamente sull’interpretazione dei testi e dei riti, devia i fedeli dalla comprensione della vera natura della Liturgia;

– il recupero di forme e strutture espressive popolari, quasi come inconscia rivalsa nei confronti di una Liturgia divenuta per molti versi incomprensibile e distante dal popolo.

31. Nel Medioevo sorsero e si svilupparono molti movimenti spirituali e associazioni di varia configurazione giuridica ed ecclesiale, la cui vita ed attività ebbero notevoli conseguenze nell’impostazione dei rapporti tra Liturgia e pietà popolare.

Così, ad esempio, i nuovi ordini religiosi di vita evangelico-apostolica, dediti alla predicazione, adottarono forme celebrative più semplici nei confronti di quelle monastiche, e più vicine al popolo e alle sue forme espressive. E, d’altra parte, favorirono la creazione di pii esercizi con i quali esprimevano il loro carisma e lo trasmettevano ai fedeli.

Confraternite religiose, sorte con scopi cultuali e caritativi, e corporazioni laiche, costituitesi con finalità professionali, danno origine ad una certa attività liturgica a carattere popolare: erigono cappelle per le loro riunioni cultuali, scelgono un Patrono e ne celebrano la festa, compongono non di rado, per uso proprio, piccoli uffici e altri formulari di preghiera, in cui è manifesto l’influsso della Liturgia e insieme la presenza di elementi provenienti dalla pietà popolare.

A loro volta le scuole di spiritualità, divenute un importante punto di riferimento nella vita ecclesiale, ispirano atteggiamenti esistenziali e modi di interpretare la vita in Cristo e nello Spirito Santo, i quali influiscono non poco su alcune scelte celebrative (per esempio, gli episodi della Passione di Cristo) e sono alla base di molti pii esercizi.

Ed ancora, la società civile, che si configura idealmente come una societas christiana, modella alcune sue strutture su usanze ecclesiali e talora scandisce i ritmi di vita sui ritmi liturgici; per cui, ad esempio, il tocco serale delle campane è a un tempo avviso ai cittadini di rientrare dal lavoro dei campi in città e invito a rivolgere un saluto alla Vergine.

32. Lungo tutto il Medioevo, dunque, nascono progressivamente e si sviluppano molte espressioni di pietà popolare, non poche delle quali sono giunte fino al nostro tempo:

– si organizzano sacre rappresentazioni che hanno come oggetto i misteri celebrati nell’anno liturgico, soprattutto gli eventi salvifici del Natale di Cristo e della sua Passione, Morte e Risurrezione;

– nasce la poesia in lingua volgare che, trovando larga applicazione nel campo della pietà popolare, favorisce la partecipazione dei fedeli;

– compaiono forme devozionali alternative o parallele ad alcune espressioni liturgiche; così, ad esempio, la rarità della comunione eucaristica è compensata dalle varie forme di adorazione al santissimo Sacramento; nel tardo Medioevo la recita del Rosario tende a sostituire la recita del Salterio; i pii esercizi compiuti il Venerdì Santo in onore della Passione del Signore sostituiscono per molti fedeli l’azione liturgica propria di quel giorno;

– si incrementano le forme popolari del culto alla beata Vergine e ai Santi: pellegrinaggi ai luoghi santi della Palestina e alle tombe degli Apostoli e dei martiri, venerazione delle reliquie, suppliche litaniche, suffragi per i defunti; 

– si sviluppano considerevolmente i riti di benedizione in cui, insieme con elementi di genuina fede cristiana, se ne riscontrano altri che sono riflesso di una sensibilità naturalistica e di credenze e pratiche popolari precristiane; 

– si costituiscono nuclei di “tempi sacri” a sfondo popolare, che si pongono al margine del ritmo dell’anno liturgico: giorni di fiera sacro-profani, tridui, settenari, ottavari, novene, mesi dedicati a particolari devozioni popolari.

33. Nel Medioevo il rapporto tra Liturgia e pietà popolare è costante e complesso. In esso si può osservare un duplice movimento: la Liturgia ispira e feconda espressioni della pietà popolare; e viceversa, forme della pietà popolare vengono accolte e integrate nella Liturgia. Ciò avviene soprattutto nell’ambito dei riti di consacrazione di persone, di assunzione di impegni personali, di dedicazione di luoghi, di istituzioni di feste e nel variegato campo delle benedizioni.

Prevale tuttavia il fenomeno di un certo dualismo tra Liturgia e pietà popolare. Verso la fine del Medioevo ambedue attraversano un periodo di crisi: nella Liturgia, per la rottura dell’unità cultuale, elementi secondari acquistano un rilievo eccessivo a scapito degli elementi centrali; nella pietà popolare, per la mancanza di una profonda catechesi, deviazioni ed esagerazioni minacciano la corretta espressione del culto cristiano.

Nell’epoca moderna

34. Ai suoi inizi l’epoca moderna non appare molto favorevole per una soluzione equilibrata dei rapporti tra Liturgia e pietà popolare. Nella seconda metà del secolo XV la devotio moderna, che ebbe insigni maestri di vita spirituale e raggiunse notevole espansione tra chierici e laici colti, favorisce il sorgere di pii esercizi a sfondo meditativo e affettivo, che hanno come principale punto di riferimento l’umanità di Cristo – i misteri della sua infanzia, della vita nascosta, della Passione e Morte –. Ma il primato accordato alla contemplazione e la valorizzazione della soggettività uniti ad un certo pragmatismo ascetico, che esalta l’impegno umano, fanno sì che la Liturgia non appaia agli occhi di uomini e donne di grande ascendente spirituale, quale sorgente prima della vita cristiana.

35. Espressione tipica della devotio moderna è ritenuta la celebre opera De imitatione Christi, che ha esercitato uno straordinario e salutare influsso in molti discepoli del Signore, desiderosi di raggiungere la perfezione cristiana. Il De imitatione Christi orienta i fedeli verso un tipo di pietà piuttosto individuale, in cui è accentuato il distacco dal mondo e l’invito ad ascoltare la voce del Maestro interiore; meno ampi sembrano gli spazi dati agli aspetti comunitari ed ecclesiali della preghiera e alle istanze della spiritualità liturgica.

Negli ambienti in cui si coltiva la devotio moderna, si incontrano facilmente pii esercizi di buona fattura, espressione cultuale di persone sinceramente devote, ma non sempre è dato di incontrare una valorizzazione piena della celebrazione liturgica.

36. Tra la fine del secolo XV e l’inizio del secolo XVI, a causa delle scoperte geografiche – in Africa, in America e, successivamente, nell’Estremo Oriente –, la questione dei rapporti tra Liturgia e pietà popolare si pone in termini nuovi.

L’opera di evangelizzazione e catechesi in paesi distanti dal centro culturale e cultuale del rito romano avviene certamente attraverso l’annuncio della Parola e la celebrazione dei sacramenti (cf. Mt 28, 19), ma anche attraverso i pii esercizi diffusi dai missionari.

I pii esercizi diventano quindi un mezzo di trasmissione dell’annuncio evangelico e, in seguito, di conservazione della fede cristiana. Scarso appare, a causa delle norme che tutelavano la Liturgia romana, il reciproco influsso tra Liturgia e cultura autoctona (avvenuto tuttavia in qualche modo nelle Reducciones del Paraguay). L’incontro con tale cultura avverrà invece facilmente nell’ambito della pietà popolare.

37. Agli inizi del secolo XVI, tra gli uomini più solleciti di una genuina riforma della Chiesa, sono da ricordare i monaci camaldolesi Paolo Giustiniani e Pietro Querini, autori di un Libellus ad Leonem X,[30] contenente importanti indicazioni per rivitalizzare la Liturgia e aprirne i tesori a tutto il popolo di Dio: l’istruzione, soprattutto biblica, del clero e dei religiosi; l’adozione della lingua volgare nella celebrazione dei divini misteri; il riordino dei libri liturgici; l’eliminazione di elementi spuri, mutuati da una non corretta pietà popolare; la catechesi, ordinata anche a far conoscere ai fedeli il valore della Liturgia.

38. Poco dopo la chiusura del Concilio Lateranense V (16 marzo 1517), che emanò alcune disposizioni per l’educazione dei giovani alla Liturgia,[31] ebbe inizio la crisi del sorgere del protestantesimo, i cui fautori sollevavano non poche obiezioni su punti essenziali della dottrina cattolica sui sacramenti e sul culto della Chiesa, compresa la pietà popolare.

Il Concilio di Trento (1545-1563), convocato per affrontare la situazione creatasi nel popolo di Dio con il dilagare del movimento protestante, dovette pertanto, nelle sue tre fasi, occuparsi di questioni riguardanti la Liturgia e la pietà popolare sotto il profilo sia dottrinale sia cultuale. Tuttavia, dato il contesto storico e l’indole dogmatica dei temi che doveva trattare, affrontò prevalentemente le questioni di natura liturgico-sacramentaria da un punto di vista dottrinale:[32] lo fece assumendo un atteggiamento di denuncia degli errori e di condanna degli abusi, di difesa della fede e della tradizione liturgica della Chiesa; mostrando pure attenzione per i problemi attinenti all’istruzione liturgica del popolo, proponendo con il decreto De reformatione generali[33] un programma pastorale e affidandone l’attuazione alla Sede Apostolica e ai Vescovi.

39. In ossequio alle disposizioni conciliari molte province ecclesiastiche tennero sinodi, nei quali è manifesta la preoccupazione di condurre i fedeli ad una partecipazione efficace alla celebrazione dei divini misteri. A loro volta i Romani Pontefici intrapresero una vasta riforma liturgica: in un tempo relativamente breve, dal 1568 al 1614, furono rivisti il Calendario e i libri del Rito romano[34] e nel 1588 fu creata la Sacra Congregazione dei Riti per la tutela e il retto ordinamento delle celebrazioni  liturgiche della Chiesa romana.[35] Quale elemento di formazione pastorale-liturgica svolse la sua funzione il Catechismus ad parochos.

40. Dalla riforma operata dopo il Concilio di Trento derivarono alla Liturgia molteplici benefici: furono ricondotti alla “antica norma dei Santi Padri”,[36] se pure limitatamente alle cognizioni scientifiche dell’epoca, non pochi riti; furono eliminati elementi e sovrastrutture estranee alla Liturgia, eccessivamente legate alla sensibilità popolare; fu controllato il contenuto dottrinale dei testi, in modo che essi riflettessero la purezza della fede; fu conseguita una notevole unità rituale nell’ambito della Liturgia romana, che riacquistò dignità e bellezza.

Ma si ebbero anche, indirettamente, alcune conseguenze negative: la Liturgia sembrò acquistare una fissità, che derivava più dagli ordinamenti rubricali che la regolavano che non dalla sua natura; e sembrò pure divenire, nel suo soggetto agente, quasi esclusivamente gerarchica; ciò venne a rafforzare il dualismo esistente tra Liturgia e pietà popolare.

41. La Riforma cattolica, nell’impegno positivo di rinnovamento dottrinale, morale e istituzionale della Chiesa e nel suo intento di contrastare lo sviluppo del protestantesimo, favorì in un certo senso l’affermarsi della complessa cultura barocca. E questa, a sua volta, esercitò un influsso considerevole sulle espressioni letterarie, artistiche e musicali della pietà cattolica.

Nell’epoca postridentina il rapporto tra Liturgia e pietà popolare presenta connotati in parte nuovi: la Liturgia entra in un periodo di sostanziale uniformità e di persistente staticità; in contrapposizione ad essa la pietà popolare conosce uno sviluppo straordinario.

Entro certi limiti, determinati dalla necessità di vigilare sull’insorgere di forme esuberanti o fantasiose, la Riforma cattolica favorì la creazione e la diffusione dei pii esercizi, che si rivelarono un mezzo importante per la difesa della fede cattolica e il nutrimento della pietà dei fedeli. Si pensi ad esempio, allo sviluppo delle confraternite devote ai misteri della Passione del Signore, alla Vergine Maria e ai Santi, aventi come triplice fine la penitenza, la formazione dei laici e le opere di carità. Da questa pietà popolare trasse motivo la creazione di bellissime immagini, piene di sentimento, la cui contemplazione continua ad alimentare la fede e l’esperienza religiosa dei fedeli.

Le “missioni al popolo”, sorte in quest’epoca, contribuiscono anch’esse alla diffusione dei pii esercizi. In esse Liturgia e pietà popolare coesistono, se pure con un certo squilibrio: le missioni infatti si prefiggono soprattutto lo scopo di condurre i fedeli ad accostarsi al sacramento della riconciliazione e a ricevere la comunione eucaristica, ma ricorrono con dovizia ai pii esercizi come mezzo per indurre alla conversione e come momento cultuale di sicura partecipazione popolare.

I pii esercizi venivano spesso raccolti e ordinati in manuali di preghiera che, muniti dell’approvazione ecclesiastica, costituivano veri e propri sussidi cultuali: per i vari momenti della giornata, del mese, dell’anno e per innumerevoli circostanze della vita.

Nell’epoca della Riforma cattolica il rapporto tra Liturgia e pietà popolare non si pone solo nei termini contrapposti di staticità e di sviluppo, ma conosce pure situazioni anomale: i pii esercizi si svolgono talvolta all’interno della stessa azione liturgica sovrapponendosi ad essa, e nell’azione pastorale occupano un luogo preferenziale nei confronti della Liturgia. Si accentua così il distacco dalla Sacra Scrittura e non si avverte sufficientemente la centralità del mistero pasquale di Cristo, fondamento, fulcro e culmine di tutto il culto cristiano, avente la sua espressione privilegiata nella domenica.

42. Nell’epoca dell’Illuminismo si accentua il distacco tra la “religione dei dotti”, potenzialmente vicina alla Liturgia, e la “religione dei semplici”, per sua natura prossima alla pietà popolare. Ma di fatto dotti e popolo sono accomunati dalle stesse pratiche religiose. Tuttavia i “dotti” appoggiano una pratica religiosa illuminata dall’intelligenza e dal sapere e avversano la pietà popolare che, ai loro occhi, è nutrita da superstizione e da fanatismo.

Alla Liturgia li indirizza il senso aristocratico che permea molteplici espressioni della vita culturale, il carattere enciclopedico che ha assunto il sapere, lo spirito critico e di ricerca che porta alla pubblicazione di antiche fonti liturgiche, il carattere ascetico di alcuni movimenti che, influenzati anche dal giansenismo, postulano un ritorno alla purezza della Liturgia dell’antichità. Pur risentendo della particolare temperie culturale, il rinnovato interesse per la Liturgia è animato da interesse pastorale verso il clero e i laici, come avviene in Francia a partire dal sec. XVII.

Alla pietà popolare rivolge la sua attenzione la Chiesa in vasti settori della sua azione pastorale. Si intensifica infatti quel tipo di azione apostolica che tende a far sì che Liturgia e pietà popolare, in una certa misura, si integrino a vicenda. Così, ad esempio, la predicazione si svolge in significativi tempi liturgici, quali la Quaresima e la domenica in cui ha luogo la catechesi degli adulti, ed è diretta ad ottenere la conversione degli animi e dei costumi dei fedeli, ad avvicinarli al sacramento della riconciliazione, a riportarli alla frequenza della Messa domenicale, ad illustrare il valore del sacramento dell’Unzione degli infermi e del Viatico.

La pietà popolare, come in passato era stata efficace per arginare gli effetti negativi del movimento protestante, così ora si dimostra valida per contrastare le suggestioni corrosive del razionalismo e, all’interno della Chiesa, le conseguenze dannose del giansenismo. Da questo impegno e dall’ulteriore sviluppo delle missioni al popolo la pietà popolare esce arricchita: vengono sottolineati in modo nuovo alcuni aspetti del Mistero cristiano, come per esempio, il Cuore di Cristo,  e nuovi “giorni” polarizzano la pietà dei fedeli, per esempio, i nove “primi venerdì” del mese.

Nel Settecento è per altro da ricordare l’attività di Ludovico Antonio Muratori che seppe coniugare gli studi eruditi con le nuove istanze pastorali e nella sua celebre opera Della regolata devozione dei cristiani propose una religiosità che sapesse trarre dalla Liturgia e dalla Scrittura la propria sostanza e si mantenesse lontana dalla superstizione e dalla magia. Illuminata fu anche l’opera di papa Benedetto XIV (Prospero Lambertini), cui si deve l’importante iniziativa di permettere l’uso della Bibbia in lingua volgare.

43. La Riforma cattolica aveva rafforzato le strutture e l’unità del rito della Chiesa romana. Pertanto essa, che nel secolo XVIII conosce una grande espansione missionaria, diffonde la propria Liturgia e la propria struttura organizzativa presso i popoli ai quali annuncia il messaggio evangelico.

Nel Settecento, nei territori di missione, il rapporto tra Liturgia e pietà popolare si pone in termini simili, ma accentuati, a quelli già osservati nei secoli XVI e XVII:

– la Liturgia mantiene intatta la sua fisionomia romana, perché nei suoi confronti, anche per timore di ripercussioni negative nel campo della fede, non si pone quasi per nulla il problema dell’inculturazione – sono da menzionare i lodevoli sforzi in tale senso avviati da Matteo Ricci con la questione dei Riti cinesi, e da Roberto de’ Nobili con i Riti indiani -, ed è quindi sentita, in parte almeno, estranea alla cultura autoctona;

– la pietà popolare da una parte è soggetta al pericolo del sincretismo religioso, soprattutto là dove l’evangelizzazione non è penetrata in profondità; dall’altra diviene progressivamente più autonoma e matura: non si limita cioè a riproporre i pii esercizi diffusi dagli evangelizzatori, ma ne crea altri, che recano l’impronta della cultura locale.

Nell’epoca contemporanea

44. Nel secolo XIX, superata la crisi della rivoluzione francese, che nel suo intento di sradicare la fede cattolica avversò palesemente il culto cristiano, si assiste ad una significativa rinascita liturgica.

Essa fu preceduta e preparata da un vigoroso affermarsi dell’ecclesiologia, che presentava la Chiesa non solo come società gerarchica ma anche come popolo di Dio e comunità cultuale. Accanto al risveglio ecclesiologico, sono da porre in luce, quali prodromi della rinascita liturgica, il rifiorire degli studi biblici e patristici, la tensione ecclesiale ed ecumenica di uomini come Antonio Rosmini († 1855) e di John Henry Newman († 1890).

Nel processo di rinascita del culto liturgico una menzione speciale richiede l’opera dell’abate Prosper Guéranger (†1875), restauratore del monachesimo in Francia e fondatore dell’abbazia di Solesmes: la sua visione della Liturgia è permeata di amore per la Chiesa e per la tradizione; tuttavia la sua considerazione per la Liturgia romana, ritenuta indispensabile fattore di unità, lo porta ad opporsi a espressioni liturgiche autoctone. La rinascita liturgica da lui promossa ha il merito di non essere un movimento accademico, ma di mirare a fare della Liturgia l’espressione cultuale, sentita e partecipata, di tutto il popolo di Dio.

45. Il secolo XIX non segna solo il risveglio della Liturgia ma anche, e talora in modo autonomo, un incremento della pietà popolare. Così il rifiorire del canto liturgico coincide con la creazione di nuovi canti popolari; la diffusione di sussidi liturgici come i messali bilingui ad uso dei fedeli, si accompagna con la proliferazione di libretti devozionali.

La stessa cultura del romanticismo, che rivaluta il sentimento e le istanze religiose dell’uomo, favorisce la ricerca, la comprensione e la valorizzazione dell’elemento popolare anche in campo cultuale.

Si assiste in questo stesso secolo ad un fenomeno di vasta portata: espressioni di culto locale, sorte per iniziativa popolare, in riferimento a eventi prodigiosi – miracoli, apparizioni…–, ottengono successivamente un riconoscimento ufficiale, il favore e la protezione dell’autorità ecclesiale, e sono assunte nella stessa Liturgia. A questo riguardo, il caso di diversi santuari, meta di pellegrinaggi, centri di Liturgia penitenziale ed eucaristica e luoghi di pietà popolare mariana, è emblematico.

Nel secolo XIX tuttavia il rapporto tra la Liturgia, in fase di risveglio, e la pietà popolare, in fase di espansione, è turbato da un fattore negativo: si accentua il fenomeno, che si era riscontrato già nella Riforma cattolica, della sovrapposizione dei pii esercizi alle azioni liturgiche.

46. Agli inizi del secolo XX il papa san Pio X (1903-1914) si propose di avvicinare i fedeli alla Liturgia, di renderla quindi “popolare”. Egli infatti riteneva che i fedeli acquistano il «vero spirito cristiano» attingendo alla «sua prima e indispensabile fonte, che è la partecipazione attiva ai sacrosanti misteri e alla preghiera pubblica e solenne della Chiesa».[37] Con ciò san Pio X diede un autorevole contributo all’affermazione della superiorità oggettiva della Liturgia su ogni altra forma di pietà; respinse la confusione tra la pietà popolare e la Liturgia e, indirettamente, favorì la chiara distinzione tra i due campi ed aprì la via che avrebbe condotto ad una giusta comprensione del loro rapporto.

Sorse e si sviluppò così, per l’apporto di uomini eminenti per scienza, pietà e passione ecclesiale, il movimento liturgico, che ebbe un posto rilevante nella vita della Chiesa del XX secolo e in esso i Sommi Pontefici hanno riconosciuto un passaggio dello Spirito.[38] Lo scopo ultimo degli animatori del movimento liturgico[39] era di indole pastorale: favorire nei fedeli l’intelligenza e quindi l’amore per la celebrazione dei divini misteri, ridare ad essi la coscienza di appartenere ad un popolo sacerdotale (cf. 1 Pt 2, 5).

Si comprende come alcuni esponenti rigidi del movimento liturgico guardassero con diffidenza le manifestazioni della pietà popolare e individuassero in esse una causa della decadenza della Liturgia. Dinanzi a loro erano gli abusi provocati dalla sovrapposizione dei pii esercizi alla Liturgia o addirittura la sostituzione di essa con espressioni cultuali popolari. Essi inoltre, nell’intento di ripristinare la purezza del culto divino, guardavano, come a un modello ideale, alla Liturgia dei primi secoli della Chiesa e, di conseguenza, rifiutavano, talora in modo radicale, le espressioni della pietà popolare, di origine medievale o sorte nell’epoca postridentina.

Ma questo rifiuto non teneva sufficientemente conto del fatto che le espressioni della pietà popolare, spesso approvate e raccomandate dalla Chiesa, avevano sostenuto la vita spirituale di molti fedeli e prodotto innegabili frutti di santità, ed avevano pure largamente contribuito alla salvaguardia della fede e alla diffusione del messaggio cristiano. Perciò Pio XII, nel documento programmatico con cui assumeva la guida del movimento liturgico, l’enciclica Mediator Dei del 21 novembre 1947,[40] a quel rifiuto opponeva la difesa dei pii esercizi, con i quali, in una certa misura, si era identificata la pietà cattolica degli ultimi secoli.

Sarebbe stata opera del Concilio ecumenico Vaticano II, con la Costituzione Sacrosanctum Concilium, definire nei giusti termini il rapporto tra la Liturgia e la pietà popolare, proclamando il primato indiscutibile della santa Liturgia e la subordinazione ad essa dei pii esercizi, pur ribadendo la validità di questi ultimi.[41]

Liturgia e pietà popolare: problematica attuale

47. Dal profilo storico ora tracciato si evince che la questione del rapporto tra Liturgia e pietà popolare non si pone solo oggi: lungo i secoli, sia pure sotto altre denominazioni e in modi diversi, essa si è presentata più volte e ad essa sono state date varie articolazioni. È necessario ora trarre dall’insegnamento della storia alcune indicazioni per rispondere alle domande pastorali che oggi si pongono con frequenza e urgenza.

Indicazioni della storia: cause di squilibrio

48. La storia mostra anzitutto che il corretto rapporto tra Liturgia e pietà popolare viene turbato allorché nei fedeli si attenua la coscienza di alcuni valori essenziali della Liturgia stessa. Tra le cause di tale affievolimento vengono segnalate:

– la debole consapevolezza o la diminuzione del senso della Pasqua e del posto centrale che essa occupa nella storia della salvezza, della quale la Liturgia cristiana è l’attualizzazione; dove ciò accade, i fedeli orientano quasi inevitabilmente la loro pietà, senza tener conto della “gerarchia delle verità”, verso altri misteri salvifici della vita di Cristo e verso la beata Vergine, gli Angeli e i Santi;

– l’affievolimento del senso del sacerdozio universale in virtù del quale i fedeli sono abilitati a «offrire sacrifici spirituali graditi a Dio, per mezzo di Gesù Cristo» (1 Pt 2, 5; cf. Rm 12,1) e a partecipare pienamente, secondo la loro condizione, al culto della Chiesa; tale affievolimento, accompagnato spesso dal fenomeno di una Liturgia guidata da chierici anche in parti non riguardanti le funzioni proprie dei sacri ministri, fa sí che talora i fedeli si orientino verso la pratica dei pii esercizi, dei quali si sentono partecipanti attivi;

– la non conoscenza del linguaggio proprio della Liturgia – la lingua, i segni, i simboli e i gesti rituali…- , per cui ai fedeli sfugge in gran parte il significato della celebrazione. Ciò può ingenerare in essi l’impressione di essere estranei all’azione liturgica; allora sono facilmente indotti a preferire i pii esercizi, il cui linguaggio è più conforme alla loro formazione culturale, o le particolari devozioni più rispondenti a esigenze e situazioni concrete della vita quotidiana.

49. Ognuno di questi fatti, che non di rado coesistono in uno stesso ambiente, produce uno squilibrio nel rapporto tra Liturgia e pietà popolare, a detrimento della prima e ad impoverimento della seconda. Pertanto essi dovranno essere corretti attraverso un’accorta e perseverante azione catechetica e pastorale.

Per converso, i movimenti di rinnovamento liturgico e l’accrescimento del senso liturgico nei fedeli danno luogo ad un ridimensionamento della pietà popolare nei confronti della Liturgia. Ciò si deve ritenere un fatto positivo, conforme all’orientamento più profondo della pietà cristiana.

Nella luce della Costituzione liturgica

50. Nel nostro tempo il tema del rapporto tra Liturgia e pietà popolare va guardato soprattutto alla luce delle direttive impartite dalla Costituzione Sacrosanctum Concilium, le quali sono ordinate alla ricerca di un rapporto armonico tra ambedue le espressioni di pietà, in cui tuttavia la seconda sia oggettivamente subordinata e finalizzata alla prima.[42]

Ciò significa che bisogna anzitutto evitare di porre la questione del rapporto tra Liturgia e pietà popolare in termini di opposizione, come pure di equiparazione o di sostituzione. Infatti la coscienza dell’importanza primordiale della Liturgia e la ricerca delle sue più genuine espressioni non devono condurre a trascurare la realtà della pietà popolare e tanto meno a disprezzarla o a ritenerla superflua o addirittura dannosa per la vita cultuale della Chiesa.

La non considerazione o la disistima nei confronti della pietà popolare denunciano una inadeguata valutazione di alcuni fatti ecclesiali e sembrano suggerite più da pregiudizi ideologici che non dalla dottrina della fede. Esse costituiscono un atteggiamento che:

– non tiene conto che la pietà popolare è anch’essa una realtà ecclesiale promossa e sorretta dallo Spirito,[43] sulla quale il Magistero esercita la sua funzione di autenticazione e di garanzia;

– non considera sufficientemente i frutti di grazia e di santità che la pietà popolare ha prodotto e continua a produrre nella compagine ecclesiale;

– è non di rado espressione di una ricerca illusoria della “Liturgia pura” la quale, a parte la soggettività dei criteri con cui viene stabilita la puritas, è – come insegna l’esperienza secolare – più un’aspirazione ideale che una realtà storica;

– è portato a confondere una nobile componente dell’animo umano, ossia il sentimento, che legittimamente permea molte espressioni della pietà liturgica e della pietà popolare, con la sua degenerazione, cioè il sentimentalismo.

51. Ma nel rapporto tra Liturgia e pietà popolare si riscontra anche il fenomeno opposto, cioè una tale valutazione della pietà popolare che in pratica è a scapito della Liturgia della Chiesa.

Non si può tacere che dove ciò avvenga, o per una situazione di fatto o per una pretesa scelta teorica, si dà luogo a una grave deviazione pastorale: la Liturgia non sarebbe più «il culmine verso cui tende la vita della Chiesa e, insieme, la fonte da cui promana la sua virtù»,[44] ma una espressione cultuale ritenuta estranea alla comprensione e alla sensibilità del popolo e che, quindi, viene negletta, relegata a un ruolo secondario, oppure riservata a gruppi particolari.

52. La encomiabile intenzione di avvicinare l’uomo contemporaneo, soprattutto chi non ha ricevuto sufficiente istruzione catechetica, al culto cristiano e la constatata difficoltà, da parte di determinate culture, di assimilare alcuni elementi e strutture della Liturgia, non devono avere come conseguenza la svalutazione teorica o pratica dell’espressione primaria e fondamentale del culto liturgico. In questo modo, invece di affrontare con lungimiranza e perseveranza le difficoltà reali, si pensa di poterle risolvere in modo semplicistico.

53. Là dove gli esercizi della pietà popolare vengono praticati a scapito delle azioni liturgiche, accade di udire affermazioni quali:

– la pietà popolare è uno spazio adeguato per celebrare in modo libero e spontaneo la “Vita” e le sue molteplici espressioni; la Liturgia invece, centrata sul “Mistero di Cristo” e anamnetica per sua natura, inibisce la spontaneità e risulta ripetitiva e formalistica;

– la Liturgia non riesce a coinvolgere il fedele nella totalità del suo essere, nella sua corporeità e nel suo spirito; la pietà popolare invece, parlando direttamente all’uomo, ne coinvolge il corpo, il cuore, lo spirito;

– la pietà popolare è uno spazio reale e genuino per la vita di preghiera: attraverso i pii esercizi infatti il fedele dialoga veramente con il Signore, con parole che egli comprende pienamente e che sente proprie; la Liturgia al contrario, ponendo sulle sue labbra parole non sue e spesso estranee al suo mondo culturale, più che un mezzo si rivela un impedimento per la vita di preghiera;

– la ritualità in cui si esprime la pietà popolare è recepita e accolta dal fedele, perché vi è corrispondenza tra il suo mondo culturale e il linguaggio rituale; la ritualità propria della Liturgia è invece incompresa, perché i suoi moduli espressivi provengono da un mondo culturale che il fedele sente diverso e lontano.

54. In tali affermazioni viene accentuato in modo esagerato e dialettico il divario che – non lo si può negare – esiste in alcune aree culturali tra le espressioni della Liturgia e quelle della pietà popolare.

È certo però che là dove queste opinioni si esprimono, esse sono segno che il genuino concetto della Liturgia cristiana è fortemente compromesso se non del tutto svuotato dei suoi contenuti essenziali.

Contro tali opinioni bisogna ricordare la parola grave e meditata dell’ultimo Concilio ecumenico: «Ogni celebrazione liturgica, in quanto opera di Cristo sacerdote e del suo Corpo, che è la Chiesa, è azione sacra per eccellenza, e nessun’altra azione della Chiesa, allo stesso titolo e allo stesso grado, ne uguaglia l’efficacia».[45]

55. L’unilaterale esaltazione della pietà popolare senza tener conto della Liturgia non è coerente col fatto che gli elementi essenziali di quest’ultima risalgono alla volontà istitutiva di Gesù stesso e non ne sottolinea, come di dovere, l’insostituibile valore soteriologico e dossologico. Dopo l’ascensione del Signore alla gloria del Padre e il dono dello Spirito, la perfetta glorificazione di Dio e la salvezza dell’uomo avvengono primariamente attraverso la celebrazione liturgica,[46] la quale esige l’adesione della fede e inserisce il credente nell’evento salvifico fondamentale: la Passione, Morte e Risurrezione di Cristo (cf. Rm 6, 2-6; 1 Cor 11, 23-26).

La Chiesa, nell’autocomprensione del suo mistero e della sua azione cultuale e salvifica, non dubita di affermare che «mediante la Liturgia, specialmente nel divino sacrificio dell’Eucaristia, “si compie l’opera della nostra redenzione”»;[47] ciò non esclude l’importanza di altre forme di pietà.

56. La disistima teorica o pratica nei confronti della Liturgia conduce inevitabilmente a oscurare la visione cristiana del mistero di Dio, che si china misericordiosamente sull’uomo caduto per attirarlo a Sé con l’incarnazione del Figlio e il dono dello Spirito Santo; a non percepire il significato della storia della salvezza e il rapporto esistente tra l’Antica e la Nuova Alleanza; a sottovalutare la Parola di Dio, la sola Parola che salva, di cui si nutre e a cui incessantemente si riferisce la Liturgia; ad attenuare nell’animo dei fedeli la coscienza del valore dell’opera di Cristo, Figlio di Dio e Figlio della Vergine Maria, il solo Salvatore e unico Mediatore (cf. 1 Tm 2, 5; At 4,12); a smarrire il sensus Ecclesiæ.

57. L’accento posto esclusivamente sulla pietà popolare, la quale per altro – come è stato detto – deve muoversi nell’ambito della fede cristiana,[48] può favorire un processo di allontanamento dei fedeli dalla rivelazione cristiana e di riassunzione in modo indebito o distorto di elementi della religiosità cosmica e naturale; può determinare l’introduzione nel culto cristiano di elementi ambigui provenienti da credenze pre-cristiane o che siano unicamente espressione della cultura o della psicologia di un popolo o di una etnia; creare l’illusione di raggiungere il trascendente attraverso esperienze religiose inquinate;[49] compromettere il genuino senso cristiano della salvezza quale dono gratuito di Dio, proponendo una salvezza che sia conquista dell’uomo e frutto del suo sforzo personale (non si deve dimenticare il pericolo spesso reale della deviazione pelagiana); può infine far sì che la funzione dei mediatori secondari, quali la Beata Vergine Maria, gli Angeli, i Santi e talora i protagonisti della storia nazionale, sovrasti nella mentalità dei fedeli il ruolo dell’unico Mediatore, il Signore Gesù Cristo.

58. Liturgia e pietà popolare sono due espressioni legittime del culto cristiano, anche se non omologabili. Esse non sono da opporre, né da equiparare, ma da armonizzare come viene descritto nella Costituzione liturgica: «I pii esercizi del popolo cristiano […] siano ordinati in modo da essere in armonia con la sacra Liturgia, da essa traggano in qualche modo ispirazione, e ad essa, data la sua natura di gran lunga superiore, conducano il popolo cristiano».[50]

Liturgia e pietà popolare sono quindi due espressioni cultuali da porre in mutuo e fecondo contatto: in ogni caso tuttavia la Liturgia dovrà costituire il punto di riferimento per «incanalare con lucidità e prudenza gli aneliti di preghiera e di vita carismatica»[51] che si riscontrano nella pietà popolare; dal canto suo la pietà popolare, con i suoi valori simbolici ed espressivi, potrà fornire alla Liturgia alcune coordinate per una valida inculturazione e stimoli per un efficace dinamismo creatore.[52]

L’importanza della formazione

59. Alla luce di quanto richiamato, la via per risolvere motivi di squilibrio o di tensione tra Liturgia e pietà popolare è quella della formazione, sia del clero che dei laici. Insieme alla necessaria formazione liturgica, opera di lungo respiro, sempre da riscoprire e approfondire,[53] a complemento di essa e  in vista di una spiritualità armonica e ricca, si impone anche la formazione alla pietà popolare.[54]

Infatti, poiché «la vita spirituale non si esaurisce nella partecipazione alla sola Liturgia»,[55] il limitarsi esclusivamente all’educazione liturgica non soddisfa ogni ambito di accompagnamento e di crescita spirituale. Del resto, l’azione liturgica, specie la partecipazione all’Eucaristia, non può permeare un vissuto dal quale è assente la preghiera individuale e sono carenti i valori veicolati dalle tradizionali forme di devozione del popolo cristiano. Il rivolgersi odierno a pratiche “religiose” di provenienza orientale, variamente rielaborate, è indice di una ricerca di spiritualità dell’esistere, del soffrire, del condividere. Le generazioni post-conciliari – a seconda dei paesi – non hanno l’esperienza delle forme di devozione che avevano le generazioni precedenti: ecco perché, la catechesi e l’azione educativa non possono trascurare, nella proposta di una spiritualità vissuta, il riferimento al patrimonio rappresentato dalla pietà popolare, in modo speciale dai pii esercizi raccomandati dal Magistero.

 

Capitolo II

LITURGIA E PIETÀ POPOLARE
NEL MAGISTERO DELLA CHIESA

60. È già stata rilevata l’attenzione del Magistero del Concilio Vaticano II, dei Romani Pontefici e dei Vescovi verso la pietà popolare.[56] Sembra ora opportuno proporre una sintesi organica degli insegnamenti del Magistero in tale materia, per facilitare l’assunzione di un orientamento dottrinale comune nei confronti della pietà popolare e per favorire una valida azione pastorale.

I valori della pietà popolare

61. Secondo il Magistero la pietà popolare è una realtà viva nella Chiesa e della Chiesa: la sua fonte è nella presenza costante ed attiva dello Spirito di Dio nella compagine ecclesiale; il suo punto di riferimento, il mistero di Cristo Salvatore; il suo scopo, la gloria di Dio e la salvezza degli uomini; l’occasione storica, «l’incontro felice tra l’opera di evangelizzazione e la cultura».[57] Perciò il Magistero ha espresso più volte la sua stima per la pietà popolare e le sue manifestazioni; ha ammonito coloro che la ignorano, la trascurano o la disprezzano ad assumere nei suoi confronti un atteggiamento più positivo, che tenga conto dei suoi valori;[58] non ha dubitato, infine, di presentarla quale «vero tesoro del popolo di Dio».[59]

La stima del Magistero verso la pietà popolare è motivata anzitutto dai valori che essa incarna.

La pietà popolare ha un senso quasi innato del sacro e del trascendente. Manifesta una genuina sete di Dio e «un senso acuto degli attributi profondi di Dio: la paternità, la provvidenza, la presenza amorosa e costante»,[60] la misericordia.[61]

I documenti magisteriali rilevano alcuni atteggiamenti interiori e alcune virtù che la pietà popolare valorizza in modo particolare, suggerisce ed alimenta: la pazienza e la «rassegnazione cristiana nelle situazioni irrimediabili»;[62] l’abbandono fiducioso in Dio; la capacità di soffrire e di percepire il «senso della croce nella vita quotidiana»;[63] il desiderio sincero di piacere al Signore, di riparare le offese a Lui arrecate e di fare penitenza; il distacco dalle cose materiali; la solidarietà e l’apertura agli altri, il «senso di amicizia, di carità e di unione familiare».[64]

62. La pietà popolare rivolge volentieri la sua attenzione al mistero del Figlio di Dio che, per amore degli uomini, si è fatto bambino, fratello nostro, nascendo povero da una Donna umile e povera, e rivela altresì una viva sensibilità verso il mistero della Passione e Morte di Cristo.[65]

Nella pietà popolare occupano largo spazio la considerazione del mistero dell’aldilà, il desiderio di comunione con gli abitanti del cielo, la beata Vergine Maria, gli Angeli, e i Santi, e la preghiera in suffragio delle anime dei defunti.

63. La fusione armonica del messaggio cristiano con la cultura di un popolo, che spesso si riscontra nelle manifestazioni della pietà popolare, è un altro motivo della stima del Magistero per quest’ultima.

Nelle manifestazioni più genuine della pietà popolare, infatti, il messaggio cristiano da una parte assimila i moduli espressivi della cultura del popolo, dall’altra permea di contenuti evangelici la sua concezione della vita e della morte, della libertà, della missione, del destino dell’uomo.

La trasmissione, quindi, dai genitori ai figli, da una generazione all’altra, delle espressioni culturali porta con sé la trasmissione dei principi cristiani. In alcuni casi la fusione è talmente profonda che elementi propri della fede cristiana sono diventati elementi integranti dell’identità culturale di un popolo.[66]  Si pensi, ad esempio, alla pietà verso la Madre del Signore.

64. Il Magistero rileva ancora l’importanza della pietà popolare per la vita di fede del popolo di Dio, per la conservazione della fede stessa e per l’assunzione di nuove iniziative di evangelizzazione.

Si osserva che non è possibile non tener conto di «quelle devozioni che sono praticate in certe regioni dal popolo fedele con un fervore e una purezza di intenzione commoventi»;[67] che la sana religiosità popolare, «per le sue radici essenzialmente cattoliche, può essere un antidoto contro le sette e una garanzia di fedeltà al messaggio della salvezza»;[68] che la pietà popolare è stata un provvidenziale strumento per la custodia della fede, là dove i cristiani erano privi di assistenza pastorale; che dove l’evangelizzazione è stata insufficiente, «la popolazione in gran parte esprime la propria fede soprattutto nella pietà popolare»;[69] che la pietà popolare, infine, costituisce un valido e imprescindibile «punto di partenza per ottenere che la fede del popolo acquisti maturità e profondità».[70]

Alcuni pericoli che possono far deviare la pietà popolare

65. Il Magistero, che mette in luce gli innegabili valori della pietà popolare, non trascura di segnalare alcuni pericoli che possono minacciarla: l’insufficiente presenza di elementi essenziali della fede cristiana, quali il significato salvifico della Risurrezione di Cristo, il senso dell’appartenenza alla Chiesa, la persona e l’azione del divino Spirito; la sproporzione tra la stima per il culto dei Santi e la coscienza dell’assoluta sovranità di Gesù Cristo e del suo mistero; lo scarso contatto diretto con la Sacra Scrittura; l’isolamento dalla vita sacramentale della Chiesa; la tendenza a separare il momento cultuale dagli impegni della vita cristiana; la concezione utilitaristica di alcune forme di pietà; la utilizzazione di «segni, gesti e formule, che talvolta prendono una importanza eccessiva, fino alla ricerca dello spettacolare»;[71] il rischio, in casi estremi, di «favorire l’ingresso delle sette e portare addirittura alla superstizione, alla magia, al fatalismo o all’oppressione».[72]

66. Per porre rimedio a queste eventuali carenze e difetti della pietà popolare il Magistero del nostro tempo ribadisce con insistenza che occorre “evangelizzare” la pietà popolare,[73] porla in contatto fecondo con la parola del Vangelo. Ciò «la libererà progressivamente dai suoi difetti; purificandola, la consoliderà, facendo sì che ciò che è ambiguo acquisti una fisionomia più chiara nei contenuti di fede, speranza e carità».[74]

In quest’opera di “evangelizzazione” della pietà popolare, il senso pastorale suggerisce però di procedere con grande pazienza e con prudente senso di tolleranza, ispirandosi alla metodologia seguita dalla Chiesa nel corso dei secoli per affrontare sia i problemi dell’inculturazione della fede cristiana e della Liturgia,[75] sia le questioni inerenti alle devozioni popolari.

Il soggetto della pietà popolare

67. Il Magistero della Chiesa ricordando che «la vita spirituale non si esaurisce nella partecipazione alla sola Liturgia» e che il cristiano «è sempre tenuto a entrare nella sua stanza, per pregare il Padre in segreto», anzi, «secondo l’insegnamento dell’Apostolo, è tenuto a pregare incessantemente»,[76] indica che soggetto delle diverse forme di preghiera è ogni cristiano – chierico, religioso, laico – sia quando, mosso dallo Spirito di Cristo, prega privatamente, sia quando prega comunitariamente in gruppi di varia origine e fisionomia.[77]

68. In particolare il Santo Padre Giovanni Paolo II ha indicato la famiglia come soggetto della pietà popolare. L’Esortazione apostolica Familiaris consortio, dopo aver esaltato la famiglia quale santuario domestico della Chiesa, rileva che «per preparare e prolungare nella casa il culto celebrato nella chiesa[78], la famiglia cristiana ricorre alla preghiera privata, che presenta una grande varietà di forme: questa varietà, mentre testimonia la straordinaria ricchezza secondo cui lo Spirito anima la preghiera cristiana, viene incontro alle diverse esigenze e situazioni di vita di chi si rivolge al Signore». Osserva poi che «oltre alle preghiere del mattino e della sera, sono espressamente da consigliare […]: la lettura e la meditazione della Parola di Dio, la preparazione ai sacramenti, la devozione e consacrazione al Cuore di Gesù, le varie forme di culto alla Vergine santissima, la benedizione della mensa, l’osservanza della pietà popolare».[79]

69. Soggetto ugualmente importante della pietà popolare sono pure le confraternite e altre pie associazioni di fedeli. Tra i loro fini istituzionali, oltre all’esercizio della carità e all’impegno sociale, è la promozione del culto cristiano: verso la Trinità, verso Cristo e i suoi misteri, la beata Vergine, gli Angeli, i Santi e i Beati, nonché il suffragio per le anime dei fedeli defunti.

Spesso le confraternite hanno, accanto al calendario liturgico, una sorta di calendario proprio, in cui sono indicate feste particolari, gli uffici, le novene, i settenari, i tridui da celebrare; i giorni penitenziali da osservare e i giorni in cui svolgere processioni e pellegrinaggi o compiere determinate opere di misericordia. Hanno pure libri devozionali propri e peculiari segni distintivi, quali scapolari, medaglie, abitini e cinture, e talora luoghi di culto proprio e propri cimiteri.

La Chiesa riconosce le confraternite e conferisce loro personalità giuridica,[80] ne approva gli statuti e ne apprezza le finalità e l’attività cultuale. Richiede tuttavia che questa, evitando ogni forma di contrapposizione o di isolamento, sia saggiamente inserita nella vita parrocchiale e diocesana.

I pii esercizi

70. Espressione tipica della pietà popolare sono i pii esercizi, i quali per altro sono molto diversi tra loro per l’origine storica e il contenuto, per il linguaggio e lo stile, per l’uso e i destinatari. Il Concilio Vaticano II ha preso in considerazione i pii esercizi, ha ricordato che essi sono vivamente raccomandati,[81] indicando altresì le condizioni che ne garantiscono la legittimità e la validità.

71. Alla luce della natura e delle caratteristiche proprie del culto cristiano, è evidente anzitutto che i pii esercizi devono essere conformi alla sana dottrina e alle leggi e alle norme della Chiesa;[82] devono inoltre essere in armonia con la sacra Liturgia; tener conto per quanto possibile dei tempi dell’anno liturgico e favorire «cioè  una partecipazione cosciente e attiva alla preghiera comune della Chiesa».[83]

72. I pii esercizi appartengono alla sfera del culto cristiano. Perciò la Chiesa ha sempre sentito la necessità di essere attenta ad essi, perché attraverso di essi Dio venga degnamente glorificato e l’uomo riceva beneficio spirituale ed incitamento a condurre una coerente vita cristiana.

L’azione dei Pastori nei confronti dei pii esercizi è stata molteplice: di raccomandazione e di stimolo, di orientamento e, talora, di correzione. Nella vasta gamma dei pii esercizi vengono distinti: i pii esercizi che si compiono per disposizione della Sede Apostolica o che da essa sono stati raccomandati lungo i secoli;[84]  i pii esercizi delle Chiese particolari, «che vengono celebrati per disposizione dei Vescovi, secondo le consuetudini o i libri legittimamente approvati»;[85] altri pii esercizi che si praticano per diritto particolare o tradizione nelle famiglie religiose o nelle confraternite e in altre pie associazioni di fedeli; essi spesso hanno ricevuto l’approvazione esplicita della Chiesa; i pii esercizi che si compiono nell’ambito della vita familiare o personale.

Alcuni pii esercizi, introdotti per consuetudine dalla comunità dei fedeli e approvati dal Magistero,[86] godono della concessione di indulgenze.[87]

Liturgia e pii esercizi

73. L’insegnamento della Chiesa sulla questione dei rapporti tra Liturgia e pii esercizi può essere sintetizzato in questi termini: la Liturgia, per sua natura, è di gran lunga superiore ai pii esercizi,[88] per cui nella prassi pastorale bisogna dare alla Liturgia «il posto preminente che le compete nei confronti dei pii esercizi»;[89] Liturgia e pii esercizi devono coesistere nel rispetto della gerarchia dei valori e della natura specifica di ambedue le espressioni cultuali.[90]

74. Una considerazione attenta di questi principi deve condurre a compiere un reale sforzo per armonizzare, per quanto possibile, i pii esercizi con i ritmi e le esigenze della Liturgia; quindi «senza fondere o confondere le due forme di pietà»;[91] ad evitare, conseguentemente, la confusione e l’ibrida commistione tra Liturgia e pii esercizi;  a non contrapporre la Liturgia ai pii esercizi o, contro il sentire della Chiesa, ad eliminare questi ultimi, creando un vuoto che spesso non viene colmato a grande scapito del popolo fedele.[92]

Criteri generali per il rinnovamento dei pii esercizi

75. La Sede Apostolica non ha mancato poi di indicare con quali criteri teologici e pastorali, storici e letterari si debbano – all’occorrenza – restaurare i pii esercizi;[93] come in essi si debba accentuare l’afflato biblico e l’ispirazione liturgica e debba trovare espressione l’istanza ecumenica; come se ne debba evidenziare il nucleo essenziale, individuato attraverso l’indagine storica e fare sí che essi rispecchino alcuni aspetti della spiritualità contemporanea; come essi debbano tenere in debito conto le acquisizioni di una sana antropologia; come debbano pure rispettare la cultura e lo stile espressivo del popolo a cui sono destinati, senza lasciar perdere gli elementi tradizionali ancorati nelle abitudini popolari.
 

Capitolo III

PRINCIPI TEOLOGICI
PER LA VALUTAZIONE E IL RINNOVAMENTO
DELLA PIETÀ POPOLARE

La vita cultuale: comunione col Padre, per Cristo nello Spirito

76. Nella storia della rivelazione la salvezza dell’uomo è costantemente presentata come un dono di Dio, scaturito dalla sua misericordia, in sovrana libertà e totale gratuità. L’intero complesso degli eventi e delle parole attraverso i quali si manifesta e si attua il piano salvifico[94] si configura come un dialogo continuo tra Dio e l’uomo, dialogo in cui Iddio ha l’iniziativa e che esige da parte dell’uomo un atteggiamento di ascolto nella fede e una risposta di «obbedienza alla fede» (Rm 1, 5; 16, 26).

Singolare importanza nel dialogo salvifico ha l’Alleanza stipulata sul Sinai tra Dio e il popolo eletto (cf. Es 19-24), che fa di quest’ultimo una “proprietà” del Signore, un “regno di sacerdoti e una nazione santa” (Es 19, 6). Ed Israele, che pur non fu sempre fedele all’Alleanza, trovò in essa ispirazione e forza per modellare il suo comportamento sul comportamento di Dio stesso (cf. Lv 11, 44-45; 19, 2) e sui contenuti della sua Parola.

In particolare il culto di Israele e la sua preghiera hanno come oggetto soprattutto la memoria dei mirabilia Dei, cioè degli interventi salvifici di Dio nella storia; ciò mantiene viva la venerazione per gli eventi in cui si sono attuate le promesse di Dio e che costituiscono pertanto il punto di riferimento costante sia per la riflessione di fede sia per la vita di preghiera.

77. Conformemente al suo disegno eterno, «Dio che aveva già parlato nei tempi antichi molte volte e in diversi modi ai padri per mezzo dei profeti, ultimamente, in questi giorni, ha parlato a noi per mezzo del Figlio, che ha costituito erede di tutte le cose e per mezzo del quale ha fatto anche il mondo» (Eb 1, 1-2). Il mistero di Cristo, soprattutto la sua Pasqua di Morte e di Risurrezione, è in effetti la piena e definitiva rivelazione e attuazione delle promesse salvifiche. Poiché Gesù, «l’unigenito Figlio di Dio» (Gv 3, 18), è colui nel quale il Padre ci ha donato tutto, senza risparmio alcuno (cf. Rm 8, 32; Gv 3, 16), è evidente che il punto di riferimento essenziale per la fede e la vita di preghiera del popolo di Dio risiede nella persona e nell’opera del Cristo: in lui abbiamo il Maestro di verità (cf. Mt 22, 16), il Testimone fedele (cf. Ap 1, 5), il sommo Sacerdote (cf. Eb 4, 14), il Pastore delle nostre anime (cf. 1 Pt 2, 25), il Mediatore unico e perfetto (cf. 1 Tm 2, 5; Eb 8, 6; 9, 15; 12, 24): per mezzo di lui l’uomo va al Padre (cf. Gv 14, 6), sale a Dio la lode e la supplica della Chiesa e discende sull’umanità ogni dono divino.

Sepolti con Cristo e risuscitati con lui nel battesimo (cf. Col 2, 12; Rm 6, 4), sottratti al dominio della carne e introdotti in quello dello Spirito (cf. Rm 8, 9), siamo chiamati allo stato perfetto nella misura che conviene alla piena maturità di Cristo (cf. Ef 4, 13); in Cristo abbiamo il modello di un’esistenza di cui ogni momento riflette l’atteggiamento di ascolto della parola del Padre e di accoglienza del suo volere, come un “sì” incessante alla sua volontà: «Mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha mandato» (Gv 4, 34).

Cristo dunque è il modello perfetto della pietà filiale e del colloquio incessante con il Padre, ossia il modello di una ricerca ininterrotta del contatto vitale, intimo e confidente con Dio, che illumina, sorregge e guida l’uomo durante tutta la sua esistenza.

78. Nella vita di comunione con il Padre i fedeli sono guidati dallo Spirito (cf. Rm 8, 14), che è stato dato loro perché li trasformi progressivamente in Cristo; infonda in essi lo «spirito di figli adottivi», per cui assumano l’atteggiamento filiale di Cristo (cf. Rm 8, 15-17) e i suoi stessi sentimenti (cf. Fil 2, 5); renda presente ad essi l’insegnamento di Cristo (cf. Gv 14, 26; 16, 13-25), perché alla sua luce interpretino le vicende della vita e gli avvenimenti della storia; li conduca alla conoscenza delle profondità di Dio (cf. 1 Cor 2, 10) e li abiliti a fare della propria vita un “culto spirituale” (cf. Rm 12, 1); li sostenga nelle contraddizioni e nelle prove che devono affrontare nel faticoso processo di trasformazione in Cristo; susciti, alimenti e diriga la loro preghiera: «Lo Spirito di Dio viene in aiuto alla nostra debolezza, perché nemmeno sappiamo che cosa sia conveniente domandare, ma lo Spirito stesso intercede con insistenza per noi, con gemiti inesprimibili; e colui che scruta i cuori sa quali sono i desideri dello Spirito, poiché egli intercede per i credenti secondo i disegni di Dio» (Rm 8, 26-27).

Dallo Spirito trae origine e impulso il culto cristiano, nello Spirito si svolge e si compie. Si può dunque affermare che senza la presenza dello Spirito di Cristo non vi è genuino culto liturgico, ma neppure può esprimersi l’autentica pietà popolare.

79. Alla luce dei principi finora esposti appare necessario che la pietà popolare si configuri e costituisca un momento del dialogo tra Dio e l’uomo per Cristo nello Spirito Santo. Non vi è dubbio che essa, nonostante le carenze che qua e là si riscontrano – come ad esempio la confusione tra Dio Padre e Gesù -, reca in sé un’impronta trinitaria.

La pietà popolare infatti è molto sensibile al mistero della paternità di Dio: si commuove di fronte alla sua bontà, ne ammira la potenza e la sapienza; si allieta per la bellezza della creazione e ne loda il Creatore; sa che Dio Padre è giusto e misericordioso, ed ha cura dei poveri e degli umili; proclama che Egli comanda di fare il bene e premia coloro che vivono con onestà seguendo la retta via, mentre aborrisce il male e allontana da Sé coloro che si ostinano nel seguire la via dell’odio e della violenza, dell’ingiustizia e della menzogna.

La pietà popolare si concentra volentieri sulla figura di Cristo, Figlio di Dio e Salvatore dell’uomo: si commuove al racconto della sua nascita e intuisce l’amore immenso che si sprigiona da quel Bambino, Dio vero e vero fratello nostro, povero e perseguitato fin dalla sua infanzia; gode di rappresentarsi numerose scene della vita pubblica del Signore Gesù, il Buon Pastore che avvicina i pubblicani e i peccatori, il Taumaturgo che guarisce gli infermi e soccorre i bisognosi, il Maestro che parla con verità; e soprattutto ama contemplare i misteri della Passione di Cristo, perché in essi avverte il suo sconfinato amore e la misura della sua solidarietà con la sofferenza umana: Gesù tradito e abbandonato, flagellato e incoronato di spine, crocifisso tra i malfattori, deposto dalla croce nel grembo della terra, pianto da amici e discepoli.

La pietà popolare non ignora che nel mistero di Dio vi è la persona dello Spirito Santo. Essa infatti crede che «per opera dello Spirito Santo» il Figlio di Dio «si è incarnato nel seno della Vergine Maria e si è fatto uomo»[95] e che agli albori della Chiesa lo Spirito fu dato agli Apostoli (cf. At 2, 1-13); sa che la potenza dello Spirito di Dio, il cui sigillo è impresso in modo particolare nei cristiani mediante la confermazione, è viva in ogni sacramento della Chiesa; sa che «nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo» inizia la celebrazione dell’Eucaristia, viene conferito il battesimo e dato il perdono dei peccati; sa che nel nome delle tre Divine Persone si compie ogni forma di preghiera della comunità cristiana ed è invocata sull’uomo e su tutte le creature la benedizione divina.

80. Occorre dunque che nella pietà popolare si rafforzi la coscienza del riferimento alla Santissima Trinità che, come si è detto, essa reca in sé, seppure in germe. A questo scopo vengono date alcune indicazioni:

– è necessario illuminare i fedeli sull’impronta peculiare della preghiera cristiana, che ha come destinatario il Padre, per la mediazione di Gesù Cristo, nella potenza dello Spirito Santo.

– E’ necessario che le espressioni della pietà popolare mettano in più chiara luce la persona e l’azione dello Spirito Santo. La mancanza di un “nome” per lo Spirito di Dio e l’abitudine di non rappresentarLo con immagini antropomorfiche hanno determinato, almeno in parte, una certa assenza dello Spirito Santo nei testi e negli altri moduli espressivi della pietà popolare, pur non dimenticando la funzione della musica e dei gesti del corpo per manifestare la relazione con lo Spirito. Tale assenza può essere colmata attraverso l’evangelizzazione della pietà popolare, di cui più volte ha trattato il Magistero della Chiesa.

– È necessario altresì che le espressioni della pietà popolare mettano in risalto il valore primario e fondante della Risurrezione di Cristo. L’amorosa attenzione rivolta all’umanità sofferente del Salvatore, tanto viva nella pietà popolare, deve essere sempre congiunta alla prospettiva della sua glorificazione. Solo a tale condizione verrà esposto nella sua integrità il disegno salvifico di Dio in Cristo e sarà colto nella sua inscindibile unità il Mistero pasquale di Cristo; solo così sarà delineato il volto genuino del cristianesimo, che è vittoria della vita sulla morte, celebrazione di Colui che «non è Dio dei morti, ma dei vivi» (Mt 22, 32), del Cristo, il Vivente, che era morto ed ora vive per sempre (cf. Ap 1, 28) e dello Spirito «che è Signore e dà la vita».[96]

– Infine è necessario che la devozione alla Passione di Cristo conduca i fedeli ad una partecipazione piena e consapevole all’Eucaristia, in cui è dato in cibo il corpo di Cristo offerto in sacrificio per noi (cf. 1 Cor 11, 24); ed è dato come bevanda il sangue di Gesù versato sulla croce per la nuova ed eterna Alleanza e per la remissione di tutti i peccati. Tale partecipazione ha il suo momento più alto e significativo nella celebrazione del Triduo pasquale, culmine dell’Anno liturgico, e nella celebrazione domenicale dei santi Misteri.

La Chiesa, comunità cultuale

81. La Chiesa, «popolo adunato nell’unità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo»,[97] è una comunità di culto. Per volontà del suo Signore e Fondatore, essa compie numerose azioni rituali che hanno per scopo la gloria di Dio e la santificazione dell’uomo,[98] e che sono, tutte, in vario modo e in grado diverso, celebrazione del Mistero pasquale di Cristo, volte alla realizzazione del volere divino di riunire i figli dispersi nell’unità di un solo popolo.

Nelle varie azioni rituali, infatti, la Chiesa annunzia il Vangelo della salvezza e proclama la Morte e la Risurrezione di Cristo, attuando attraverso i santi segni la sua opera di salvezza. Nell’Eucaristia celebra il memoriale della beata Passione, della gloriosa Risurrezione e dell’ammirabile Ascensione, e dagli altri sacramenti attinge altri doni dello Spirito, che scaturiscono dalla Croce del Salvatore. La Chiesa glorifica il Padre con salmi e inni per le meraviglie da lui operate nella Morte e nell’Esaltazione del Cristo suo Figlio e lo supplica perché il mistero salvifico della Pasqua raggiunga tutti gli uomini; nei sacramentali, istituiti per soccorrere i fedeli in varie situazioni e necessità, supplica il Signore perché tutta la loro attività sia sorretta e illuminata dallo Spirito della Pasqua.

82. Nella celebrazione della Liturgia non si esaurisce tuttavia il compito della Chiesa rispetto al culto divino. I discepoli di Cristo, infatti, secondo l’esempio e l’insegnamento del Maestro, pregano anche nel segreto della loro camera (cf. Mt 6, 6); si riuniscono a pregare secondo forme create da uomini e donne di grande esperienza religiosa, che hanno colto alcune istanze dei fedeli e ne hanno orientato la pietà verso aspetti particolari del mistero di Cristo; pregano secondo strutture sorte quasi anonimamente dal fondo della coscienza collettiva cristiana, nelle quali le esigenze della cultura popolare si compongono armonicamente con i dati essenziali del messaggio evangelico.

83. Le forme genuine della pietà popolare sono anch’esse frutto dello Spirito Santo e devono ritenersi espressione della pietà della Chiesa: perché compiute da fedeli viventi in comunione con essa, nell’adesione alla sua fede e nel rispetto della sua disciplina cultuale; perché non poche di esse sono state esplicitamente approvate e raccomandate dalla Chiesa stessa.[99]

84. In quanto espressione di pietà ecclesiale la pietà popolare è sottoposta alle leggi generali del culto cristiano e all’autorità pastorale della Chiesa, che esercita su di essa un’azione di discernimento e di autenticazione, e la rinnova ponendola in fecondo contatto con la Parola rivelata, la tradizione, la stessa Liturgia.

È necessario d’altra parte che le espressioni della pietà popolare siano sempre illuminate dal “principio ecclesiologico” del culto cristiano. Ciò consentirà alla pietà popolare di:

– avere una visione corretta dei rapporti tra Chiesa particolare e Chiesa universale; la pietà popolare infatti è portata a concentrarsi prevalentemente sui valori locali e sulle necessità immediate, rischiando di chiudersi ai valori universali e alle prospettive ecclesiologiche;

– situare la venerazione della beata Vergine, degli Angeli, dei Santi e Beati, e il suffragio per i defunti nel vasto ambito della Comunione dei Santi e all’interno dei rapporti intercorrenti tra la Chiesa celeste e la Chiesa tuttora pellegrina sulla terra;

– comprendere in modo fecondo il rapporto tra ministero e carisma; il primo, necessario nelle espressioni del culto liturgico; il secondo, frequente nelle manifestazioni della pietà popolare.

Sacerdozio comune e pietà popolare

85. Con i sacramenti dell’iniziazione cristiana il fedele entra a far parte della Chiesa, popolo profetico, sacerdotale e regale, cui spetta di rendere a Dio il culto in spirito e verità (cf. Gv 4, 23). Egli esercita tale sacerdozio per Cristo nello Spirito Santo non solo in ambito liturgico, soprattutto nella celebrazione dell’Eucaristia, ma anche in altre espressioni della vita cristiana, tra le quali le manifestazioni della pietà popolare. Lo Spirito Santo infatti gli conferisce la capacità di offrire sacrifici di lode a Dio, di elevare a lui preghiere e suppliche e, in primo luogo, di fare della propria vita un «sacrificio vivente, santo e gradito a Dio» (Rm 12, 1; cf. Eb 12, 28).

86. Su questo fondamento sacerdotale la pietà popolare aiuta i fedeli a perseverare nella preghiera e nella lode di Dio Padre, a rendere testimonianza a Cristo (cf. At 2, 42-47) e, sostenendo la vigilanza nell’attesa della sua gloriosa venuta, dà ragione, nello Spirito Santo, della speranza della vita eterna (cf. 1 Pt 3, 15); e, mentre conserva aspetti qualificanti del proprio contesto culturale, esprime quei valori di ecclesialità che caratterizzano, sia pure in vario modo e grado, tutto ciò che nasce e si sviluppa all’interno del Corpo mistico di Cristo.

Parola di Dio e pietà popolare

87. La Parola di Dio, consegnata nella Sacra Scrittura, custodita e proposta dal Magistero della Chiesa, celebrata nella Liturgia, è strumento privilegiato e insostituibile dell’azione dello Spirito nella vita cultuale dei fedeli.

Poiché nell’ascolto della Parola di Dio si edifica e cresce la Chiesa, il popolo cristiano deve acquistare familiarità con la Sacra Scrittura e imbeversi del suo spirito,[100] per tradurre in forme idonee e conformi ai dati della fede il senso di pietà e di devozione che scaturisce dal contatto con il Dio che salva, rigenera e santifica.

Nella parola biblica la pietà popolare troverà una fonte inesauribile di ispirazione, insuperabili modelli di preghiera e feconde proposte tematiche. Inoltre il costante riferimento alla Sacra Scrittura costituirà un’indicazione e un criterio per moderare l’esuberanza con cui non di rado si manifesta il sentimento religioso popolare, dando luogo ad espressioni ambigue e talora perfino non corrette.

88. Ma «la lettura della Sacra Scrittura dev’essere accompagnata dalla preghiera, affinché possa svolgersi il colloquio tra Dio e l’uomo»;[101] pertanto è assai raccomandabile che le varie forme in cui si esprime la pietà popolare prevedano di norma la presenza di testi biblici, opportunamente scelti e debitamente commentati.

89. A tale scopo gioverà il modello offerto dalle celebrazioni liturgiche, le quali comportano costitutivamente la presenza della Sacra Scrittura, proposta in vari modi per i diversi tipi di celebrazione. Ma poiché alle espressioni della pietà popolare si riconosce una legittima varietà di disegno e di articolazione, non è certo necessario che in esse la disposizione delle pericopi bibliche ricalchi in tutto le strutture rituali con cui la Liturgia proclama la Parola di Dio.

Il modello liturgico costituirà, in ogni caso, per la pietà popolare una sorta di salvaguardia di una corretta scala di valori, in cui al primo posto sia l’atteggiamento di ascolto di Dio che parla; insegnerà a scoprire l’armonia tra l’Antico e il Nuovo Testamento e a interpretare l’uno alla luce dell’altro; fornirà soluzioni collaudate da secolare esperienza per attualizzare in modo corretto il messaggio biblico e offrirà un valido criterio per valutare l’autenticità della preghiera.

Nella scelta dei testi è auspicabile che si ricorra a passi brevi, facilmente memorizzabili, incisivi, di facile comprensione anche se di ardua attuazione. Del resto, alcuni esercizi di pietà come la Via Crucis e il Rosario favoriscono la conoscenza della Scrittura: rapportati direttamente a gesti e preghiere imparate a memoria, gli episodi evangelici della vita di Gesù sono più facilmente ricordabili.

Pietà popolare e rivelazioni private

90. Da sempre e in ogni luogo, la religiosità popolare si mostra interessata a fenomeni e fatti straordinari, spesso connessi con rivelazioni private. Pur non circoscrivibile al solo ambito della pietà mariana, è questa ad essere particolarmente toccata a motivo di “apparizioni” e relativi “messaggi”. Valga, al riguardo, quanto ricorda il Catechismo della Chiesa Cattolica: «Lungo i secoli ci sono state delle rivelazioni chiamate “private”, alcune delle quali sono state riconosciute dall’autorità della Chiesa. Esse non appartengono tuttavia al deposito della fede. Il loro ruolo non è quello di “migliorare” o di “completare” la Rivelazione definitiva di Cristo, ma di aiutare a viverla più pienamente in una determinata epoca storica. Guidato dal Magistero della Chiesa, il senso dei fedeli sa discernere e accogliere ciò che in queste rivelazioni costituisce un appello autentico di Cristo e dei suoi Santi alla Chiesa» (n. 67). [102]

Inculturazione e pietà popolare

91. La pietà popolare è naturalmente contrassegnata dal sentire storico e culturale. Ne è indice la varietà di espressioni che la costituiscono, fiorite e affermatesi nelle varie Chiese particolari nel corso del tempo, segno del radicarsi della fede nel cuore di singoli popoli e della sua introduzione nel mondo della quotidianità. Infatti, «la religiosità popolare è la prima e fondamentale forma di “inculturazione” della fede, che si deve continuamente lasciare orientare e guidare dalle indicazioni della Liturgia, ma che a sua volta feconda la fede a partire dal cuore».[103]  L’incontro tra il dinamismo innovatore del messaggio del Vangelo e le diverse componenti di una cultura trova pertanto una sua attestazione nella pietà popolare.[104]

92. Il processo di adattamento o di inculturazione di un pio esercizio non dovrebbe presentare particolari difficoltà per quanto attiene al linguaggio, alle espressioni musicali ed artistiche e all’assunzione di gesti e atteggiamenti corporali. I pii esercizi, infatti, da una parte non concernono aspetti essenziali della vita sacramentale, dall’altra sono, in molti casi, originariamente popolari, sorti cioè dal popolo e formulati con il suo linguaggio, ed impostati nella cornice della fede cattolica.

Tuttavia, il fatto che pii esercizi e pratiche di devozione siano espressivi del sentire del popolo non autorizza ad agire in tale materia con fare soggettivo e personalistico. Salva la competenza propria dell’Ordinario del luogo o dei Superiori Maggiori  – se trattasi di devozioni connesse con Ordini religiosi -, quando si tratta di pii esercizi che interessano tutta una nazione o una vasta regione di territorio conviene che sia la Conferenza dei Vescovi a pronunciarsi.

E’ necessaria infatti una grande attenzione e un profondo senso di discernimento per impedire che, attraverso le varie forme del linguaggio, si insinuino nei pii esercizi concetti contrari alla fede cristiana o si dia adito a espressioni cultuali viziate da sincretismo.

In particolare è necessario che il pio esercizio oggetto di un processo di adattamento o di inculturazione conservi la sua identità profonda e la sua fisionomia essenziale. Ciò richiede che se ne mantengano sufficientemente riconoscibili l’origine storica e le linee dottrinali e cultuali che lo caratterizzano.

Quanto all’assunzione di forme di pietà popolare nel processo di inculturazione della Liturgia, si rinvia all’Istruzione di questo Dicastero in proposito.[105]


 

PARTE SECONDA

ORIENTAMENTI PER
L’ARMONIZZAZIONE DELLA PIETÀ POPOLARE
CON LA LITURGIA

Premessa

93. Per aiutare a tradurre nella concreta azione pastorale quanto sopra esposto, vengono offerti alcuni orientamenti circa il necessario rapporto della pietà popolare con la Liturgia, in vista di una armonica e proficua azione pastorale. Nel menzionare gli esercizi e le pratiche di pietà maggiormente diffuse non si pretende di essere esaustivi né di abbracciare ogni singola manifestazione di  carattere locale.  Si trovano qua e là anche indicazioni riguardanti la pastorale liturgica, data l’affinità della materia in settori in cui le frontiere non sono rigorosamente delimitabili.

L’esposizione è articolata in cinque capitoli:

– il quarto, sull’Anno liturgico sotto il profilo dell’auspicabile armonizzazione delle sue celebrazioni con le manifestazioni della pietà popolare;

– il quinto, sulla venerazione per la santa Madre del Signore, che occupa un posto singolare sia nella sacra Liturgia, sia nella pietà popolare;

– il sesto, sul culto dei Santi e Beati, il quale trova anch’esso largo spazio nella Liturgia e nella devozione dei fedeli;

– il settimo, sul suffragio per i defunti, che ricorre frequentemente nelle varie espressioni della vita cultuale della Chiesa;

– l’ottavo, sui santuari e pellegrinaggi, luoghi significativi ed espressioni caratteristiche della pietà popolare, che hanno non poche implicazioni di ordine liturgico.

Pur facendo riferimento a situazioni molto diverse e a pii esercizi di varia natura e indole, il testo formula le sue proposte nel costante rispetto di alcuni presupposti fondamentali: la superiorità della Liturgia sulle altre espressioni cultuali;[106] la dignità e la legittimità della pietà popolare;[107] la necessità pastorale sia di evitare ogni forma di contrapposizione tra Liturgia e pietà popolare, sia di non confonderne le espressioni dando luogo a celebrazioni ibride.[108]

 

Capitolo IV

ANNO LITURGICO E PIETÀ POPOLARE

94. L’Anno liturgico è la struttura temporale entro la quale la Chiesa celebra l’intero mistero di Cristo: «dall’Incarnazione e dalla Natività fino all’Ascensione, al giorno di Pentecoste, all’attesa della beata speranza e della venuta del Signore».[109]

Nell’Anno liturgico «la celebrazione del mistero pasquale […] costituisce il momento privilegiato del culto cristiano nel suo sviluppo quotidiano, settimanale e annuale».[110] Ne consegue che nel rapporto tra Liturgia e pietà popolare deve essere ritenuto un punto fermo la priorità della celebrazione dell’Anno liturgico su ogni altra espressione e pratica di devozione. 

La domenica

95. Il «giorno del Signore», in quanto «festa primordiale» e «fondamento e nucleo di tutto l’Anno liturgico»,[111] non deve essere subordinato alle manifestazioni di pietà popolare. Non è pertanto il caso di insistere su pii esercizi per il cui svolgimento viene scelta la domenica come punto di riferimento cronologico.

Per il bene pastorale dei fedeli è lecito riprendere nelle domeniche “per annum” quelle celebrazioni del Signore, in onore della beata Vergine Maria o dei Santi che ricorrono in settimana e sono particolarmente sentite dalla pietà dei fedeli, purché nell’elenco delle precedenze, abbiano la preminenza sulla domenica stessa.[112]

Poiché, talvolta, tradizioni popolari e culturali rischiano di invadere la celebrazione della domenica, inquinandone lo spirito cristiano, «occorre in questi casi far chiarezza, con la catechesi e opportuni interventi pastorali, respingendo quanto è inconciliabile col Vangelo di Cristo. Non bisogna tuttavia dimenticare che spesso tali tradizioni – ciò vale analogamente per nuove proposte culturali della società civile – non mancano di valori che si coniugano senza difficoltà con le esigenze della fede. Spetta ai Pastori operare un discernimento che salvi i valori presenti nella cultura di un determinato contesto sociale e soprattutto nella religiosità popolare, facendo in modo che la celebrazione liturgica, specie quella delle domeniche e delle feste, non ne soffra, ma piuttosto ne sia avvantaggiata».[113]

Nel tempo di Avvento

96. L’Avvento è tempo di attesa, di conversione, di speranza: 

– attesa-memoria della prima, umile venuta del Salvatore nella nostra carne mortale; attesa-supplica dell’ultima, gloriosa venuta di Cristo, Signore della storia e Giudice universale;

– conversione, alla quale spesso la Liturgia di questo tempo invita con la voce dei profeti e soprattutto di Giovanni Battista: «Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino» (Mt 3, 2);

– speranza gioiosa che la salvezza già operata da Cristo (cf. Rm 8, 24-25) e le realtà di grazia già presenti nel mondo giungano alla loro maturazione e pienezza, per cui la promessa si tramuterà in possesso, la fede in visione, e «noi saremo simili a lui e lo vedremo così come egli è» (1 Gv 3, 2).

97. La pietà popolare è sensibile al tempo di Avvento soprattutto in quanto memoria della preparazione alla venuta del Messia. Nel popolo cristiano è saldamente radicata la coscienza della lunga attesa che precedette la nascita del Salvatore. I fedeli sanno che Dio sosteneva con profezie la speranza di Israele nella venuta del Messia.

Alla pietà popolare non sfugge l’evento straordinario, anzi essa lo rileva piena di stupore, per cui il Dio della gloria si è fatto bambino nel grembo di una donna vergine, umile e povera. I fedeli sono particolarmente sensibili alle difficoltà che la Vergine Maria dovette affrontare durante la gravidanza e si commuovono al pensiero che nell’albergo non vi fu un posto per Giuseppe e per Maria, che stava per dare alla luce il Bambino (cf. Lc 2, 7).

In riferimento all’Avvento sono sorte varie espressioni di pietà popolare che sostengono la fede del popolo e trasmettono, da una generazione all’altra, la coscienza di alcuni valori di questo tempo liturgico.

La corona di Avvento

98. La disposizione di quattro ceri su una corona di rami sempre verdi, in uso soprattutto nei paesi germanici e nell’America del Nord, è divenuta simbolo dell’Avvento nelle case dei cristiani.

La corona di Avvento, con il progressivo accendersi delle sue quattro luci, domenica dopo domenica, fino alla solennità del Natale, è memoria delle varie tappe della storia della salvezza prima di Cristo e simbolo della luce profetica che via via illuminava la notte dell’attesa fino al sorgere del Sole di giustizia (cf. Ml 3, 20; Lc 1, 78).

Le processioni di Avvento

99. Nel tempo di Avvento si celebrano, in diverse regioni, processioni di vario genere, che sono ora annuncio per le strade cittadine della prossima nascita del Salvatore (la “chiara stella” di alcune contrade italiane), ora rappresentazione del cammino di Giuseppe e di Maria verso Betlemme e della loro ricerca di un luogo ospitale per la nascita di Gesù (le “posadas” della tradizione ispanica e latino-americana).

Le “Tempora d’inverno”

100. Nell’emisfero boreale, nel tempo di Avvento, ricorrono le “tempora d’inverno”. Esse segnano un passaggio di stagione e un momento di tregua in alcuni settori dell’attività umana. La pietà popolare è molto attenta allo svolgimento del ciclo vitale della natura: mentre si celebrano le “tempora d’inverno”, il seme giace sotto la terra in attesa che la luce e il calore del sole, che proprio nel solstizio d’inverno riprende il suo cammino, lo faccia germogliare.

Là dove la pietà popolare abbia istituito espressioni celebrative del cambio di stagione, esse vanno conservate e valorizzate come momenti di supplica al Signore e di riflessione sul significato del lavoro umano, che è collaborazione all’opera creatrice di Dio, autorealizzazione della persona, servizio al bene comune, attuazione del progetto della redenzione.[114]

La Vergine Maria nell’Avvento

101. Nel tempo di Avvento la Liturgia celebra frequentemente e in modo esemplare la beata Vergine:[115] ricorda alcune donne dell’Antica Alleanza, che erano figura e profezia della sua missione; esalta l’atteggiamento di fede e di umiltà con cui Maria di Nazaret aderì prontamente e totalmente al progetto salvifico di Dio; mette in luce la sua presenza negli avvenimenti di grazia che precedettero la nascita del Salvatore. Anche la pietà popolare dedica, nel tempo di Avvento, una particolare attenzione a santa Maria; lo attestano inequivocabilmente i vari pii esercizi, soprattutto le novene dell’Immacolata e del Natale.

Tuttavia, la valorizzazione dell’Avvento «quale tempo particolarmente adatto per il culto della Madre del Signore»[116] non significa che questo tempo liturgico venga presentato come un “mese di Maria”.

Nei calendari liturgici dell’Oriente cristiano, il periodo di preparazione al mistero della manifestazione (Avvento) della salvezza divina (Teofania) nei misteri della Natività-Epifania del Figlio Unigenito di Dio Padre, appare segnatamente mariano. L’attenzione si concentra sulla preparazione alla venuta del Signore nel mistero della Deipara. Per l’Oriente, tutti i misteri mariani sono misteri cristologici, cioè riferiti al mistero della nostra salvezza in Cristo. Così nel rito copto durante questo periodo si cantano le Lodi di Maria nei Theotokia; nell’Oriente siriano il tempo è chiamato Subbara, ossia Annunciazione, per sottolineare  in tal modo la sua fisionomia mariana. Nel rito bizantino ci si prepara al Natale con una serie crescente di feste e di ritornelli mariani.

102. La solennità dell’Immacolata (8 dicembre), profondamente sentita dai fedeli, dà luogo a molte manifestazioni di pietà popolare, la cui precipua espressione è la novena dell’Immacolata. Non c’è dubbio che il contenuto della festa della Concezione pura e senza macchia di Maria, in quanto preparazione fontale alla nascita di Gesù, si armonizza bene con alcuni temi portanti dell’Avvento: anch’essa rinvia alla lunga attesa messianica e richiama profezie e simboli dell’Antico Testamento, usati pure dalla Liturgia dell’Avvento.

Dove si celebri la novena dell’Immacolata si dovranno mettere in luce i testi profetici, che partendo dal vaticinio di Genesi 3, 15 sfociano nel saluto di Gabriele alla “piena di grazia” (Lc 1, 28) e nell’annuncio della nascita del Salvatore (cf. Lc 1, 31-33).

Accompagnata da molteplici manifestazioni popolari, nel Continente Americano si celebra, all’approssimarsi del Natale, la festa di Nostra Signora di Guadalupe (12 dicembre), la quale ben favorisce la disposizione ad accogliere il Salvatore: Maria, «unita intimamente alla nascita della Chiesa in America, fu la Stella radiosa che illuminò l’annuncio di Cristo Salvatore ai figli di questi popoli».[117]

La novena del Natale

103. La novena del Natale è sorta per comunicare ai fedeli le ricchezze di una Liturgia alla quale essi non avevano facile accesso. La novena natalizia ha svolto effettivamente una funzione salutare e può continuare ancora a svolgerla. Tuttavia nel nostro tempo, in cui è stata resa più agevole la partecipazione del popolo alle celebrazioni liturgiche, sarà auspicabile che nei giorni 17-23 dicembre sia solennizzata la celebrazione dei Vespri con le “antifone maggiori” e i fedeli siano invitati a parteciparvi. Tale celebrazione, prima o dopo della quale potranno essere valorizzati alcuni elementi cari alla pietà popolare, costituirebbe un’eccellente “novena del Natale” pienamente liturgica e attenta alle esigenze della pietà popolare. All’interno della celebrazione dei Vespri si possono sviluppare alcuni elementi già previsti (es. omelia, uso dell’incenso, adattamento delle intercessioni).

Il presepio

104. Come è noto, oltre alle rappresentazioni del presepio betlemita, esistenti fin dall’antichità nelle chiese, a partire dal secolo XIII si è diffusa la consuetudine, influenzata senza dubbio dal presepe allestito a Greccio da san Francesco d’Assisi nel 1223, di costruire piccoli presepi nelle abitazioni domestiche. La loro preparazione (in cui saranno coinvolti particolarmente i bambini) diviene occasione perché i vari membri della famiglia si pongano in contatto con il mistero del Natale, e si raccolgano talora per un momento di preghiera o di lettura delle pagine bibliche riguardanti la nascita di Gesù.

La pietà popolare e lo spirito dell’Avvento

105. La pietà popolare, per la sua comprensione intuitiva del mistero cristiano, può contribuire efficacemente alla salvaguardia di alcuni valori dell’Avvento, minacciati da un costume in cui la preparazione del Natale si risolve in una “operazione commerciale” con mille vacue proposte provenienti da una società consumistica.

La pietà popolare, infatti, percepisce che non si può celebrare il Natale del Signore se non in un clima di sobrietà e di gioiosa semplicità e con un atteggiamento di solidarietà verso i poveri e gli emarginati; l’attesa della nascita del Salvatore la rende sensibile al valore della vita e al dovere di rispettarla e di proteggerla fin dal suo concepimento; essa intuisce pure che non si può celebrare coerentemente la nascita di colui «che salverà il suo popolo dai suoi peccati» (Mt 1, 21) senza compiere uno sforzo per eliminare da se stessi il male del peccato, vivendo nella vigile attesa di Colui che ritornerà alla fine dei tempi.

Nel tempo di Natale

106. Nel tempo di Natale la Chiesa celebra il mistero della manifestazione del Signore: la sua umile nascita a Betlemme, annunciata ai pastori, primizia dell’Israele che accoglie il Salvatore; l’epifania ai Magi, «giunti da Oriente» (Mt 2, 1), primizia dei gentili, che nel neonato Gesù riconoscono e adorano il Cristo Messia; la teofania presso il fiume Giordano, in cui Gesù è proclamato dal Padre «figlio prediletto» (Mt 3, 17) e inaugura pubblicamente il suo ministero messianico; il segno compiuto a Cana con il quale Gesù «manifestò la sua gloria e i suoi discepoli credettero in lui» (Gv 2, 11).

107. Nel tempo natalizio, oltre a queste celebrazioni che ne danno il senso primordiale, ne ricorrono altre che hanno stretto rapporto con il mistero della manifestazione del Signore: il martirio dei Santi Innocenti (28 dicembre), il cui sangue fu versato a causa dell’odio verso Gesù e del rifiuto della sua signoria da parte di Erode; la memoria del Nome di Gesù, il 3 gennaio; la festa della Santa Famiglia (domenica fra l’ottava), in cui viene celebrato il santo nucleo familiare nel quale «Gesù cresceva in sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini» (Lc 2, 52); la solennità del 1° gennaio, memoria intensa della maternità divina, verginale e salvifica di Maria; e, se pure fuori dai limiti del tempo natalizio, la festa della Presentazione del Signore (2 febbraio), celebrazione dell’incontro del Messia con il suo popolo, rappresentato da Simeone e Anna, e momento della profezia messianica di Simeone.

108. Gran parte del ricco e complesso mistero della manifestazione del Signore trova ampia eco ed espressioni proprie nella pietà popolare. Essa è particolarmente attenta agli avvenimenti dell’infanzia del Salvatore, nei quali si è manifestato il suo amore per noi. La pietà popolare infatti coglie intuitivamente: 

– il valore della “spiritualità del dono”, propria del Natale: «è nato per noi un bambino, un figlio ci è stato donato» (cf. Is 9, 5), dono che è espressione dell’infinito amore di Dio, che «ha tanto amato il mondo da donare il suo unico Figlio» (Gv 3, 16); 

– il messaggio di solidarietà che l’evento del Natale porta con sé: solidarietà con l’uomo peccatore, per cui, in Gesù, Dio si è fatto uomo «per noi uomini e per la nostra salvezza»;[118] solidarietà con i poveri, perché il Figlio di Dio «da ricco che era si e fatto povero» per arricchire noi «per mezzo della sua povertà» (2 Cor 8, 9); 

– il valore sacro della vita e l’evento mirabile che si compie in ogni parto di donna, poiché attraverso il parto di Maria il Verbo della vita è venuto tra gli uomini e si è fatto visibile (cf. 1 Gv 1, 2); 

– il valore della gioia e della pace messianica, a cui aspirano profondamente gli uomini di ogni tempo: gli Angeli annunciano ai pastori che è nato il Salvatore del mondo, il «Principe della pace» (Is 9, 5), e formulano l’augurio di «pace in terra agli uomini che Dio ama» (Lc 2, 14);

– il clima di semplicità e di povertà, di umiltà e di fiducia in Dio, che avvolge gli avvenimenti della nascita del bambino Gesù.

La pietà popolare, appunto perché intuisce i valori insiti nel mistero del Natale, è chiamata a cooperare alla salvaguardia della memoria della manifestazione del Signore, sì che la forte tradizione religiosa connessa con il Natale non divenga terreno per operazioni di consumismo e per infiltrazioni di neopaganesimo.

La Notte di Natale

109. Nello spazio di tempo che va dai I Vespri del Natale alla celebrazione eucaristica della mezzanotte, insieme alla tradizione dei canti natalizi, che sono tra i più potenti veicoli del messaggio di gioia e di pace del Natale, la pietà popolare propone alcune sue espressioni di preghiera, diverse da paese a paese, che è opportuno valorizzare e, se è il caso, armonizzare con le celebrazioni stesse della Liturgia. Tali sono ad esempio:

– lo svolgersi di “presepi viventi” e l’inaugurazione del presepio domestico, che può dare luogo a un momento di preghiera di tutta la famiglia: preghiera che comprenda la lettura del racconto lucano della nascita di Gesù, in cui risuonino i canti tipici del Natale e si levi la supplica e la lode, soprattutto dei bambini, protagonisti di questo incontro familiare;

– l’inaugurazione dell’albero di Natale. Essa si presta pure a istituire un momento simile di preghiera familiare. Infatti, a prescindere dalle sue origini storiche, l’albero di Natale è oggi un simbolo fortemente evocativo, assai diffuso negli ambienti cristiani; evoca sia l’albero della vita piantato al centro dell’Eden (cf. Gn 2, 9), sia l’albero della croce, ed assume quindi un significato cristologico: Cristo è il vero albero della vita, nato dalla nostra stirpe, dalla vergine terra santa Maria, albero sempre verde, fecondo di frutti. L’ornamentazione cristiana dell’albero, secondo gli evangelizzatori dei paesi nordici, consiste in mele e ostie sospese ai rami. Si possono aggiungere dei “doni”; tuttavia, tra i doni posti sotto l’albero di Natale non dovrà mancare il dono per i poveri: essi fanno parte di ogni famiglia cristiana; 

– la cena di Natale. La famiglia cristiana che ogni giorno, secondo la tradizione, benedice la mensa e ringrazia il Signore per il dono del cibo, compirà questo gesto con maggiore intensità ed attenzione nella cena di Natale, in cui si manifestano con tutta la loro forza la saldezza e la gioia dei vincoli familiari;

110. La Chiesa auspica che i fedeli partecipino la notte del 24 dicembre possibilmente all’Ufficio delle letture, come preparazione immediata alla celebrazione dell’Eucaristia di mezzanotte.[119] Ove ciò non avvenga, ispirandosi ad esso, potrà essere opportuno disporre una veglia fatta di canti, letture, elementi della pietà popolare.

111. Nella Messa di mezzanotte, di grande significato liturgico e di forte ascendente popolare potranno essere valorizzati:

– all’inizio della Messa, il canto dell’annuncio della nascita del Signore, nella formula del Martirologio Romano;

– la preghiera dei fedeli dovrà assumere un carattere veramente universale, espresso anche, ove ciò sia pertinente, attraverso il segno della pluralità delle lingue; e nella presentazione dei doni all’offertorio vi sarà sempre un concreto ricordo dei poveri;

– al termine della celebrazione potrà aver luogo il bacio dei fedeli all’immagine del Bambino Gesù e la collocazione di essa nel presepio allestito in chiesa o nelle adiacenze.

La festa della Santa Famiglia

112. La festa della Santa Famiglia di Gesù, Maria e Giuseppe (Domenica fra l’ottava del Natale) offre un ambito celebrativo adatto per lo svolgimento di alcuni riti o momenti di preghiera propri della famiglia cristiana.

Il ricordo di Giuseppe, di Maria e del fanciullo Gesù che si recano a Gerusalemme, come ogni osservante famiglia ebrea, per compiere i riti della Pasqua (cf. Lc 2, 41-42), incoraggerà l’accoglimento della proposta pastorale che, in quel giorno, tutta la famiglia riunita partecipi alla celebrazione dell’Eucaristia. E saranno pure significativi, in tale festività, la rinnovazione dell’affidamento della compagine familiare al patrocinio della santa Famiglia di Nazaret,[120] la benedizione dei figli, prevista nel Rituale,[121] e, ove se ne dia l’occasione, il rinnovo degli impegni assunti dagli sposi, ora genitori, nel giorno del matrimonio, nonché lo scambio delle promesse sponsali con cui i fidanzati formalizzano il progetto di costituire una nuova famiglia.[122]

Ma al di là del giorno della festa, i fedeli amano ricorrere alla Famiglia di Nazaret in molte circostanze della vita: volentieri si iscrivono all’Associazione della Santa Famiglia per configurare il proprio nucleo familiare sul modello della Famiglia nazaretana[123] e rivolgono ad essa frequenti giaculatorie con cui affidano se stessi al suo patrocinio e ne richiedono l’assistenza nell’ora della morte.[124]

La festa dei Santi Innocenti

113. Fin dal VI secolo, la Chiesa celebra il 28 dicembre la memoria dei bambini uccisi a causa di Gesù dal cieco furore di Erode (cf. Mt 2, 16-17). La tradizione liturgica li chiama i “Santi Innocenti” e li qualifica come martiri. Lungo i secoli nell’arte, nella poesia, nella pietà popolare sentimenti di tenerezza e di simpatia hanno avvolto la memoria di questo «tenero gregge di agnelli immolati»;[125] a tali sentimenti si è sempre accompagnato un moto di indignazione per la violenza con cui essi furono strappati dalle braccia delle loro madri e consegnati alla morte.

Ai nostri giorni i bambini subiscono ancora innumerevoli forme di violenza, che attentano alla loro vita, dignità, moralità e diritto all’educazione. È da tener presente in quel giorno l’innumerevole schiera di bambini non ancora nati e precocemente trucidati con la copertura delle leggi che permettono l’aborto, che è un crimine abominevole. Attenta ai problemi concreti, la pietà popolare, in non pochi luoghi, ha dato vita a manifestazioni cultuali e a forme di carità quali l’assistenza alle madri incinte, l’adozione di bambini, la promozione della loro istruzione.

Il 31 dicembre

114. Dalla pietà popolare provengono alcuni pii esercizi che caratterizzano il 31 dicembre. Nella maggior parte dei paesi dell’Occidente in tale giorno si celebra la fine dell’anno civile. La ricorrenza induce i fedeli a riflettere sul “mistero del tempo” che corre veloce e inesorabile. Ciò suscita nel loro animo un duplice sentimento: di pentimento e di rammarico per le colpe commesse e per le occasioni di grazia perdute lungo l’anno che volge al termine; di gratitudine per i benefici ricevuti da Dio.

Questo duplice atteggiamento ha dato origine rispettivamente a due pii esercizi: all’esposizione prolungata del Santissimo Sacramento, che offre spazio alle comunità religiose e ai fedeli per momenti di preghiera prevalentemente silenziosa; al canto del Te Deum, come espressione comunitaria di lode e di ringraziamento per i benefici ottenuti da Dio nel corso dell’anno che sta per finire.[126]

In alcuni luoghi, soprattutto in comunità monastiche e in associazioni laicali di forte impegno eucaristico, la notte del 31 dicembre ha luogo una veglia di preghiera che si conclude abitualmente con la celebrazione dell’Eucaristia. Tale veglia è da incoraggiare, e deve essere celebrata in armonia con i contenuti liturgici dell’Ottava del Natale e vissuta non solo come giustificata reazione alla dissipata spensieratezza con cui la società vive il momento del passaggio da un anno all’altro, ma anche come vigile offerta al Signore delle primizie del nuovo anno.

La solennità della santa Madre di Dio

115. Il 1° gennaio, Ottava del Natale, la Chiesa celebra la solennità della beata Vergine Maria, Madre di Dio. La maternità divina e verginale di Maria costituisce un singolare evento salvifico: per la Vergine fu premessa e causa della sua gloria straordinaria; per noi è sorgente di grazia e di salvezza, perché «per mezzo di lei abbiamo ricevuto l’Autore della vita».[127]

La solennità del 1° gennaio, eminentemente mariana, offre uno spazio particolarmente adatto per un incontro della pietà liturgica con la pietà popolare: la prima celebra quell’evento con i moduli che le sono propri; la seconda, se debitamente educata, non mancherà di dare vita a espressioni di lode e di felicitazione alla Vergine per la nascita del suo Figlio divino, e di approfondire il contenuto di tante formule di preghiera, a cominciare da quella tanto cara ai fedeli: «Santa Maria, Madre di Dio, prega per noi peccatori».

116. In Occidente il 1° gennaio è un giorno augurale: l’inizio dell’anno civile. I fedeli sono anch’essi coinvolti nel clima festoso del Capo d’anno e scambiano con tutti gli auguri di “buon anno”. Ma essi devono saper dare a tale consuetudine un senso cristiano e farne quasi un’espressione di pietà. I fedeli infatti sanno che l’“anno nuovo” è posto sotto la signoria di Cristo e perciò, scambiandosi gli auguri, lo pongono anch’essi, implicitamente o esplicitamente, sotto il dominio di Cristo, a cui appartengono i giorni e i secoli eterni (cf. Ap 1, 8; 22, 13).[128]

A questa consapevolezza si riallaccia la consuetudine molto diffusa di cantare, il 1° gennaio, l’inno Veni, creator Spiritus, perché lo Spirito del Signore diriga i pensieri e le azioni dei singoli fedeli e delle comunità cristiane durante il corso dell’anno.[129]

117. Tra gli auguri che uomini e donne si scambiano il 1° gennaio emerge quello della pace. L’“augurio della pace” ha profonde radici bibliche, cristologiche, natalizie; il “bene della pace” è sommamente invocato dagli uomini di ogni tempo, che pure attentano ad esso frequentemente, nel modo più violento e distruttore: la guerra.

La Sede Apostolica, partecipe delle aspirazioni profonde dei popoli, fin dal 1967, ha indetto per il 1° gennaio la celebrazione della “Giornata mondiale della pace”.

La pietà popolare non è rimasta insensibile a questa iniziativa della Sede Apostolica e, nella luce del neonato Principe della pace, fa di questo giorno un momento intenso di preghiera per la pace, di educazione alla pace e ai valori con essa indissolubilmente congiunti, quali la libertà, la solidarietà e la fratellanza, la dignità della persona umana, il rispetto della natura, il diritto al lavoro, e la sacralità della vita, di denuncia di situazioni ingiuste, che turbano le coscienze e minacciano la pace.

La solennità dell’Epifania del Signore

118. Attorno alla solennità dell’Epifania, di antichissima origine e di ricchissimo contenuto, sono sorte e si sono sviluppate molte tradizioni e genuine espressioni di pietà popolare. Tra esse si possono ricordare: 

– il solenne annuncio della Pasqua e delle principali feste dell’anno; il suo ripristino, in atto in diversi luoghi, va opportunamente favorito; esso infatti aiuta i fedeli a scoprire il collegamento tra l’Epifania e la Pasqua e l’orientamento di tutte le feste verso la massima solennità cristiana;

– lo scambio dei “doni dell’Epifania”; tale consuetudine affonda le sue radici nell’episodio evangelico dei doni offerti dai Magi al bambino Gesù (cf. Mt 2, 11) e, più radicalmente, nel dono fatto da Dio Padre all’umanità con la nascita tra noi dell’Emanuele (cf. Is 7, 14; 9, 6; Mt 1, 23). È auspicabile pertanto che lo scambio dei doni in occasione dell’Epifania mantenga una caratterizzazione religiosa, mostri cioè la sua motivazione ultima nel ricordo del racconto evangelico: ciò aiuterà a fare del dono un’espressione anche di pietà cristiana e a sottrarlo da elementi condizionanti di lusso, di sfarzo, di sperpero, estranei alle sue origini;

– la benedizione delle case, sulle cui porte vengono segnate la croce del Signore, la cifra dell’anno appena iniziato, le lettere iniziali dei tradizionali nomi dei santi Magi (c+m+b), spiegate anche come abbreviazione di “Christus mansionem benedicat”, scritte con gesso benedetto; tali gesti, compiuti da cortei di bambini accompagnati da adulti, esprimono l’invocazione della benedizione di Cristo per intercessione dei santi Magi e insieme sono occasione per raccogliere offerte da devolvere a scopi caritativi e missionari;

– le iniziative di solidarietà in favore di uomini e donne che, come i Magi, provengono da regioni lontane; nei loro confronti, siano essi cristiani o non, la pietà popolare assume un atteggiamento di accogliente comprensione e di fattiva solidarietà;

– l’aiuto all’evangelizzazione dei popoli; la forte caratterizzazione missionaria dell’Epifania è stata colta dalla pietà popolare, per cui, in quel giorno fioriscono iniziative in favore delle missioni, in particolare quelle legate all’“Opera missionaria della Santa Infanzia” istituita dalla Sede Apostolica;

– l’assegnazione dei Santi Patroni; in non poche comunità religiose e confraternite vige la consuetudine di assegnare ai singoli membri un Santo, sotto il cui patrocinio porre l’anno appena iniziato.

La festa del Battesimo del Signore

119. Strettamente collegati all’evento salvifico dell’Epifania del Signore sono i misteri del Battesimo di Gesù e della sua manifestazione alle nozze di Cana.

La festa del Battesimo del Signore chiude il Tempo natalizio. Essa, rivalutata solo in tempi recenti, non ha dato origine a particolari espressioni della pietà popolare. Tuttavia, affinché i fedeli siano sensibili a tutto ciò che riguarda il Battesimo e la memoria della loro nascita come figli di Dio, essa può costituire un momento opportuno per efficaci iniziative, quali: l’adozione del Rito dell’aspersione domenicale con l’acqua benedetta in tutte le messe che si celebrano con concorso di popolo; la concentrazione della predicazione omiletica e della catechesi sui temi e sui simboli battesimali.

La festa della Presentazione del Signore

120. Fino al 1969 l’antica festa del 2 febbraio, di origine orientale,[130] recava in Occidente il titolo di «purificazione della beata Vergine Maria» e chiudeva, nel quarantesimo giorno dopo il Natale, il ciclo natalizio.

Tale festa ha avuto sempre una forte caratterizzazione popolare. I fedeli infatti:

– partecipano volentieri alla processione commemorativa dell’ingresso di Gesù nel Tempio e del suo incontro anzitutto con Dio Padre, nella cui dimora entra per la prima volta, poi con Simeone ed Anna. Tale processione, che in Occidente aveva sostituito cortei pagani di impronta licenziosa ed era di indole penitenziale, successivamente fu caratterizzata dalla benedizione delle candele, portate accese nella processione in onore di Cristo «luce per illuminare le genti» (Lc 2, 32);

– sono sensibili al gesto compiuto dalla Vergine Maria, che presenta il suo Figlio al Tempio e si sottomette, secondo il precetto della Legge di Mosè (cf. Lv 12, 1-8), al rito della purificazione; nella pietà popolare l’episodio della purificazione era visto come manifestazione dell’umiltà della Vergine, per cui il 2 febbraio era spesso ritenuto festa di coloro che nella Chiesa compiono servizi umili.

121. La pietà popolare è sensibile all’evento, provvido e misterioso, della concezione e della nascita di una vita nuova. In particolare le madri cristiane avvertono il legame esistente, nonostante le notevoli differenze – la concezione e il parto di Maria sono fatti unici –, tra la maternità della Vergine, la purissima, madre del Capo del Corpo mistico, e la loro maternità: sono infatti madri anch’esse secondo il piano di Dio, avendo generato le future membra di quello stesso Corpo mistico. Da questa intuizione e da una certa mimesis del rito compiuto da Maria (cf. Lc 2, 22-24) era derivato il rito della purificazione della puerpera, di cui alcuni elementi riflettevano una visione negativa dei fatti connessi con il parto.

Nel rinnovato Rituale Romanum è prevista la benedizione di una madre sia prima del parto[131] sia dopo il parto,[132] quest’ultima solo nel caso che la puerpera non abbia potuto partecipare al battesimo del figlio.

È tuttavia ottima cosa che le madri e i congiunti, chiedendo tali benedizioni, si adeguino alle prospettive della preghiera della Chiesa: comunione di fede e di carità nella preghiera perché si compia felicemente il tempo dell’attesa (benedizione prima del parto) e per ringraziare Dio del dono ricevuto (benedizione dopo il parto).

122. In alcune Chiese locali la valorizzazione di elementi insiti nel racconto evangelico della festa della Presentazione del Signore (Lc 2, 22-40), quali l’obbedienza di Giuseppe e di Maria alla Legge del Signore, la povertà dei santi sposi, la condizione verginale della Madre di Gesù hanno suggerito di fare del 2 febbraio anche la festa di coloro che sono dedicati al servizio del Signore e dei fratelli nelle varie forme di vita consacrata.

123. La festa del 2 febbraio conserva un carattere popolare. È tuttavia necessario che sia pienamente rispondente al genuino senso della festa. Non sarebbe giusto che la pietà popolare, celebrando la Presentazione del Signore, ne trascurasse il precipuo oggetto cristologico, per soffermarsi quasi esclusivamente sugli aspetti mariologici; il fatto che essa debba «essere considerata […] come memoria congiunta del Figlio e della Madre»[133] non favorisce una simile possibile inversione di prospettiva; la candela, conservata nelle case, deve essere per i fedeli un segno di Cristo “luce del mondo”, e quindi motivo per una espressione di fede.

Nel Tempo di Quaresima

124. La Quaresima è tempo che precede e dispone alla celebrazione della Pasqua. Tempo di ascolto della Parola di Dio e di conversione, di preparazione e di memoria del Battesimo, di riconciliazione con Dio e con i fratelli, di ricorso più frequente alle «armi della penitenza cristiana»:[134] la preghiera, il digiuno, l’elemosina (cf. Mt 6, 1-6. 16-18).

Nell’ambito della pietà popolare non viene facilmente percepito il senso misterico della Quaresima e non ne sono colti alcuni grandi valori e temi, quali il rapporto tra il “sacramento dei quaranta giorni” e i sacramenti dell’iniziazione cristiana, come pure il mistero dell’”esodo” presente lungo tutto l’itinerario quaresimale. Secondo una costante della pietà popolare, portata a soffermarsi sui misteri dell’umanità di Cristo, nella Quaresima i fedeli concentrano la loro attenzione sulla Passione e Morte del Signore.

125. L’inizio dei quaranta giorni di penitenza, nel Rito romano, è qualificato dall’austero simbolo delle Ceneri, che contraddistingue la Liturgia del Mercoledì delle Ceneri. Appartenente all’antica ritualità con cui i peccatori convertiti si sottoponevano alla penitenza canonica, il gesto di coprirsi di cenere ha il senso del riconoscere la propria fragilità e mortalità, bisognosa di essere redenta dalla misericordia di Dio. Lontano dall’essere un gesto puramente esteriore, la Chiesa lo ha conservato come simbolo dell’atteggiamento del cuore penitente che ciascun battezzato è chiamato ad assumere nell’itinerario quaresimale. I fedeli, che accorrono numerosi per ricevere le Ceneri, saranno dunque aiutati a percepire il significato interiore implicato in questo gesto, che apre alla conversione e all’impegno del rinnovamento pasquale.

Nonostante la secolarizzazione della società contemporanea, il popolo cristiano avverte chiaramente che durante la Quaresima bisogna orientare gli animi verso le realtà che veramente contano; che si richiede impegno evangelico e coerenza di vita, tradotta in opere buone, in forme di rinuncia a ciò che è superfluo e voluttuario, in manifestazioni di solidarietà con i sofferenti e i bisognosi.

Anche i fedeli che frequentano scarsamente i sacramenti della Penitenza e dell’Eucaristia sanno, per lunga tradizione ecclesiale, che il tempo di Quaresima-Pasqua è in rapporto al precetto della Chiesa di confessare i propri peccati gravi almeno una volta all’anno e di ricevere la Santa Comunione almeno una volta all’anno, preferibilmente durante il tempo pasquale.[135]

126. Il divario esistente tra la concezione liturgica e la visione popolare della Quaresima non impedisce che il tempo dei “Quaranta giorni” costituisca dunque uno spazio efficace per una feconda interazione tra Liturgia e pietà popolare.

Un esempio di questa interazione sta nel fatto che la pietà popolare privilegia alcuni giorni, alcuni pii esercizi, alcune attività apostoliche e caritative che la stessa Liturgia quaresimale prevede e raccomanda. La pratica del digiuno, così caratteristica fin dall’antichità in questo tempo liturgico, è “esercizio” che libera volontariamente dai bisogni della vita terrena per riscoprire la necessità della vita che viene dal cielo: «Non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio» (cf. Dt 8,3; Mt 4,4; Lc 4,4; antifona alla comunione della I Domenica di Quaresima).

La venerazione a Cristo crocifisso

127. Il cammino quaresimale termina con l’inizio del Triduo pasquale, vale a dire con la celebrazione della Messa In Cena Domini. Nel Triduo pasquale il Venerdì Santo, dedicato a celebrare la Passione del Signore, è il giorno per eccellenza dell’«Adorazione della santa Croce».

Ma la pietà popolare ama anticipare la venerazione cultuale della Croce. Infatti, lungo l’intero arco della Quaresima il venerdì che, per antichissima tradizione cristiana, è giorno commemorativo della Passione di Cristo, i fedeli orientano volentieri la loro pietà verso il mistero della Croce.

Essi, contemplando il Salvatore crocifisso, afferrano più facilmente il significato del dolore immenso e ingiusto che Gesù, il Santo e l’Innocente, patì per la salvezza dell’uomo, e comprendono pure il valore del suo amore solidale e l’efficacia del suo sacrificio redentore.

128. Le espressioni di devozione a Cristo crocifisso, numerose e varie, acquistano particolare rilievo nelle chiese dedicate al mistero della Croce o nelle quali si venerano reliquie ritenute autentiche del lignum Crucis. Il “rinvenimento della Croce” infatti, avvenuto secondo la tradizione nella prima metà del IV secolo, con la susseguente diffusione nel mondo intero di veneratissime particelle, determinò un notevole incremento del culto alla Croce.

Nelle manifestazioni di devozione a Cristo crocifisso gli elementi consueti della pietà popolare come canti e preghiere, gesti  come l’ostensione, il bacio, la processione e la benedizione con la croce, si intrecciano in vario modo, dando luogo a pii esercizi, talora pregevoli per valore contenutistico e formale.

Tuttavia la pietà verso la Croce ha spesso bisogno di essere illuminata. Si deve cioè mostrare ai fedeli l’essenziale riferimento della Croce all’evento della Risurrezione: la Croce e il sepolcro vuoto, la Morte e la Risurrezione di Cristo sono inscindibili nella narrazione evangelica e nel disegno salvifico di Dio. Nella fede cristiana, la Croce è espressione del trionfo sul potere delle tenebre, e perciò la si presenta impreziosita di gemme ed è diventata segno di benedizione sia quando viene tracciata su di sé che su altre persone e oggetti.

129. Il testo evangelico, singolarmente particolareggiato nella narrazione dei vari episodi della Passione, e la tendenza alla specificazione e alla differenziazione propria della pietà popolare, hanno fatto sì che i fedeli rivolgessero l’attenzione anche ad aspetti singoli della Passione di Cristo e ne facessero quindi oggetto di devozioni particolari: all’«Ecce Homo», il Cristo vilipeso, «con la corona di spine e il mantello di porpora» (Gv 19, 5), che Pilato mostra al popolo; alle sante piaghe del Signore, soprattutto alla ferita del costato e al sangue vivificante da essa sgorgato (cf. Gv 19, 34); agli strumenti della Passione, quali la colonna della flagellazione, la scala del pretorio, la corona di spine, i chiodi, la lancia della trafittura; alla santa sindone o lenzuolo della deposizione.

Queste espressioni di pietà, promosse in alcuni casi da persone eminenti per santità, sono legittime. Tuttavia, per evitare un frazionamento eccessivo nella contemplazione del mistero della Croce, sarà conveniente sottolineare la considerazione complessiva dell’evento della Passione secondo la tradizione biblica e patristica.

La lettura della Passione del Signore

130. La Chiesa esorta i fedeli alla lettura frequente, individuale e comunitaria, della Parola di Dio. Ora non v’è dubbio che tra le pagine bibliche il racconto della Passione del Signore ha un particolare valore pastorale, per cui, ad esempio, l’Ordo unctionis infirmorum eorumque pastoralis curae suggerisce di leggere, nell’ora dell’agonia del cristiano, la narrazione della Passione del Signore per intero o alcune pericopi di essa.[136]

Nel tempo di Quaresima l’amore verso Cristo crocifisso dovrà condurre le comunità cristiane a prediligere, soprattutto il mercoledì e il venerdì, la lettura della Passione del Signore.

Tale lettura, di alto significato dottrinale, attira l’attenzione dei fedeli sia per il contenuto sia per l’impianto narrativo, e suscita in essi sentimenti di genuina pietà: pentimento delle colpe commesse, poiché i fedeli percepiscono che la Morte di Cristo è avvenuta per la remissione dei peccati di tutto il genere umano e quindi anche dei propri; compassione e solidarietà verso l’Innocente ingiustamente perseguitato; gratitudine per l’amore infinito che Gesù, il Fratello primogenito, ha dimostrato nella sua Passione verso tutti gli uomini, suoi fratelli; impegno a seguire gli esempi di mitezza, pazienza, misericordia, perdono delle offese, abbandono fiducioso nelle mani del Padre, che Gesù diede con grande abbondanza ed efficacia nella sua Passione.

Al di fuori della celebrazione liturgica la lettura della Passione potrà essere opportunamente “drammatizzata”, affidando a vari lettori i testi corrispondenti ai vari personaggi; come pure potrà essere intervallata da canti e da momenti di silenzio meditativo.

La «Via Crucis»

131. Tra i pii esercizi con cui i fedeli venerano la Passione del Signore pochi sono tanto amati quanto la Via Crucis. Attraverso il pio esercizio i fedeli ripercorrono con partecipe affetto il tratto ultimo del cammino percorso da Gesù durante la sua vita terrena: dal Monte degli Ulivi, dove nel «podere chiamato Getsemani» (Mc 14, 32) il Signore fu «in preda all’angoscia» (Lc 22, 44), fino al Monte Calvario dove fu crocifisso tra due malfattori (cf. Lc 23, 33), al giardino dove fu deposto in un sepolcro nuovo, scavato nella roccia (cf. Gv 19, 40-42).

Testimonianza dell’amore del popolo cristiano per il pio esercizio sono le innumerevoli Via Crucis erette nelle chiese, nei santuari, nei chiostri e anche all’aperto, in campagna o lungo la salita di una collina, alla quale le varie stazioni conferiscono una fisionomia suggestiva.

132. La Via Crucis è sintesi di varie devozioni sorte fin dall’alto Medioevo: il pellegrinaggio in Terra Santa, durante il quale i fedeli visitano devotamente i luoghi della Passione del Signore; la devozione alle “cadute di Cristo” sotto il peso della croce; la devozione ai “cammini dolorosi di Cristo”, che consiste nell’incedere processionale da una chiesa all’altra in memoria dei percorsi compiuti da Cristo durante la sua Passione; la devozione alle “stazioni di Cristo”, cioè ai momenti in cui Gesù si ferma lungo il cammino verso il Calvario perché costretto dai carnefici, o perché stremato dalla fatica, o perché, mosso dall’amore, cerca di stabilire un dialogo con gli uomini e le donne che assistono alla sua Passione.

Nella sua forma attuale, attestata già nella prima metà del secolo XVII, la Via Crucis, diffusa soprattutto da san Leonardo da Porto Maurizio († 1751), approvata dalla Sede Apostolica ed arricchita da indulgenze,[137] consta di quattordici stazioni.

133. La Via Crucis è una via tracciata dallo Spirito Santo, fuoco divino che ardeva nel petto di Cristo (cf. Lc 12, 49-50) e lo sospinse verso il Calvario; ed è una via amata dalla Chiesa, che ha conservato memoria viva delle parole e degli avvenimenti degli ultimi giorni del suo Sposo e Signore.

Nel pio esercizio della Via Crucis confluiscono pure varie espressioni caratteristiche della spiritualità cristiana: la concezione della vita come cammino o pellegrinaggio; come passaggio, attraverso il mistero della Croce, dall’esilio terreno alla patria celeste; il desiderio di conformarsi profondamente alla Passione di Cristo; le esigenze della sequela Christi, per cui il discepolo deve camminare dietro il Maestro, portando quotidianamente la propria croce (cf. Lc 9, 23).

Per tutto ciò la Via Crucis è un esercizio di pietà particolarmente adatto al tempo di Quaresima.

134. Per un fruttuoso svolgimento della Via Crucis potranno risultare utili le indicazioni seguenti:

– la forma tradizionale, con le sue quattordici stazioni, deve ritenersi la forma tipica del pio esercizio; tuttavia, in alcune occasioni, non è da escludere la sostituzione dell’una o dell’altra “stazione” con altre riflettenti episodi evangelici del cammino doloroso di Cristo, non considerati nella forma tradizionale;

– in ogni caso esistono forme alternative della Via Crucis, approvate dalla Sede Apostolica[138]  o pubblicamente usate dal Romano Pontefice:[139] esse sono da ritenersi forme genuine, cui far ricorso secondo l’opportunità;

– la Via Crucis è pio esercizio relativo alla Passione di Cristo; è opportuno tuttavia che esso si concluda in modo tale che i fedeli si aprano all’attesa, piena di fede e di speranza, della risurrezione; sull’esempio della sosta all’Anastasis al termine della Via Crucis a Gerusalemme, si può concludere il pio esercizio con la memoria della risurrezione del Signore.

135. I testi per la Via Crucis sono innumerevoli. Essi sono stati composti da pastori mossi da sincera stima per il pio esercizio, convinti della sua efficacia spirituale; talvolta hanno per autore fedeli laici, eminenti per santità di vita o per dottrina o per doti letterarie.

La scelta del testo, tenuto conto delle eventuali indicazioni dei Vescovi, dovrà essere fatta tenendo presenti soprattutto la condizione dei partecipanti al pio esercizio e il principio pastorale di contemperare saggiamente continuità e innovazione. In ogni caso saranno da preferire testi in cui risuoni, correttamente applicata, la parola biblica e che siano scritti in un linguaggio nobile e semplice.

Uno svolgimento sapiente della Via Crucis, in cui parola, silenzio, canto, incedere processionale e sostare riflessivo si alternino in modo equilibrato contribuisce al conseguimento dei frutti spirituali del pio esercizio.

La «Via Matris»

136. Associati nel progetto salvifico di Dio (cf. Lc 2, 34-35), Cristo crocifisso e la Vergine addolorata sono associati anche nella Liturgia e nella pietà popolare.

Come Cristo è l’“uomo dei dolori” (Is 53, 3), per mezzo del quale piacque a Dio «riconciliare a sé tutte le cose, rappacificando con il sangue della sua croce […] le cose che stanno sulla terra e quelle dei cieli» (Col 1, 20), così Maria è la “donna del dolore”, che Dio volle associata a suo Figlio come madre e partecipe della sua Passione (socia passionis).

Fin dai giorni dell’infanzia di Cristo, la vita della Vergine, coinvolta nel rifiuto di cui era oggetto suo Figlio, trascorse, tutta, sotto il segno della spada (cf. Lc 2, 35). Tuttavia la pietà del popolo cristiano ha individuato nella vita dolorosa della Madre sette episodi principali e li ha contraddistinti come i “sette dolori” della beata Vergine Maria

Così, sul modello della Via Crucis, è sorto il pio esercizio della Via Matris dolorosæ o semplicemente Via Matris, anch’esso approvato dalla Sede Apostolica.[140] Forme embrionali della Via Matris sono individuabili fin dal secolo XVI, ma nella sua forma attuale, essa non risale oltre il secolo XIX. L’intuizione fondamentale è quella di considerare l’intera vita della Vergine, dall’annuncio profetico di Simeone (cf. Lc 2, 34-35) fino alla morte e sepoltura del Figlio, come un cammino di fede e di dolore: cammino articolato appunto in sette “stazioni”, corrispondenti ai “sette dolori” della Madre del Signore.

137. Il pio esercizio della Via Matris si armonizza bene con alcune tematiche proprie dell’itinerario quaresimale. Infatti, essendo il dolore della Vergine causato dal rifiuto di Cristo da parte degli uomini, la Via Matris rinvia costantemente e necessariamente al mistero di Cristo servo sofferente del Signore (cf. Is 52, 13 — 53, 12), rifiutato dal suo popolo (cf. Gv 1, 11; Lc 2, 1-7; 2, 34-35; 4, 28-29; Mt 26, 47-56; At 12, 1-5). E rinvia ancora al mistero della Chiesa: le stazioni della Via Matris sono tappe di quel cammino di fede e di dolore, nel quale la Vergine ha preceduto la Chiesa e che questa dovrà percorrere fino alla fine dei secoli.

La Via Matris ha come massima espressione la “Pietà”, tema inesauribile dell’arte cristiana sin dal Medioevo.

Settimana Santa

138. «Nella Settimana Santa la Chiesa celebra i misteri della salvezza portati a compimento da Cristo negli ultimi giorni della sua vita, a cominciare dal suo ingresso messianico in Gerusalemme».[141]

Forte è il coinvolgimento del popolo nei riti della Settimana Santa. Alcuni di essi recano ancora le tracce della loro provenienza dall’ambito della pietà popolare. È accaduto tuttavia che, nel corso dei secoli, si sia prodotta, nei riti della Settimana Santa, una sorta di parallelismo celebrativo, per cui si hanno quasi due cicli con diversa impostazione: uno rigorosamente liturgico, l’altro caratterizzato da particolari pii esercizi, specialmente le processioni.

Tale divario dovrebbe essere orientato verso una corretta armonizzazione delle celebrazioni liturgiche e dei pii esercizi. Relativamente alla Settimana Santa, infatti, l’attenzione e l’amore verso le manifestazioni di pietà tradizionalmente care al popolo devono portare al necessario apprezzamento delle azioni liturgiche, sostenute certo dagli atti di pietà popolare.

Domenica delle Palme

Le palme e i rami di ulivo o di altri alberi

139. «La Settimana Santa ha inizio la Domenica delle Palme “della Passione del Signore” che unisce insieme il trionfo regale di Cristo e l’annuncio della Passione».[142]

La processione che commemora l’ingresso messianico di Gesù in Gerusalemme ha un carattere festoso e popolare. I fedeli amano conservare nelle loro abitazioni e talora nei luoghi di lavoro le palme o i rami di ulivo o di altri alberi che sono stati benedetti e portati in processione.

È necessario tuttavia che i fedeli siano istruiti sul significato della celebrazione, perché sia capito il suo senso. Sarà opportuno, ad esempio, ribadire che ciò che è veramente importante è la partecipazione alla processione e non procurarsi soltanto la palma o il ramoscello di ulivo; che questi non vanno conservati a guisa di un amuleto, o a scopo soltanto terapeutico o apotropaico, per tenere lontani cioè gli spiriti cattivi e stornare da case e campi i danni da essi causati, il che potrebbe essere una forma di superstizione.

Palma e ramoscello di ulivo vanno conservati innanzitutto come testimonianza della fede in Cristo, re messianico, e nella sua vittoria pasquale.

Triduo pasquale

140. Ogni anno, nel «sacratissimo triduo del crocifisso, del sepolto e del risorto»[143] o Triduo pasquale, che va dalla Messa vespertina del Giovedì nella Cena del Signore fino ai Vespri della Domenica di Risurrezione, la Chiesa celebra, «in intima comunione con Cristo suo Sposo»,[144] i grandi misteri dell’umana redenzione.

Giovedì Santo

La visita al luogo della reposizione

141. La pietà popolare è particolarmente sensibile all’adorazione del santissimo Sacramento, che segue la celebrazione della Messa nella Cena del Signore.[145] Per un processo storico, non ancora del tutto chiarito nelle sue varie fasi, il luogo della reposizione è stato considerato quale “santo sepolcro”; i fedeli vi accorrevano per venerare Gesù che dopo la deposizione dalla Croce fu collocato nella tomba, dove rimase per circa Quaranta ore.

È necessario che i fedeli siano illuminati sul senso della reposizione: compiuta con austera solennità e ordinata essenzialmente alla conservazione del Corpo del Signore per la comunione dei fedeli nell’Azione liturgica del Venerdì Santo e per il Viatico degli infermi,[146] è un invito all’adorazione, silenziosa e prolungata, del mirabile Sacramento istituito in questo giorno.

Pertanto, in riferimento al luogo della reposizione, si eviti il termine di “sepolcro”, e nel suo allestimento, non venga conferito ad esso l’aspetto di un luogo di sepoltura; infatti il tabernacolo non deve avere la forma di un sepolcro  o di un’urna funeraria: il Sacramento venga custodito in un tabernacolo chiuso, senza farne l’esposizione con l’ostensorio. [147]

Dopo la mezzanotte del Giovedì Santo, l’adorazione si compie senza solennità, essendo già iniziato il giorno della Passione del Signore.[148]

Venerdì Santo

La processione del Venerdì Santo

142. Al Venerdì Santo la Chiesa celebra la Morte salvifica di Cristo. Nell’Azione liturgica pomeridiana essa medita la Passione del suo Signore, intercede per la salvezza del mondo, adora la Croce e commemora la propria origine dal costato aperto del Salvatore (cf. Gv 19, 34).[149]

Tra le manifestazioni di pietà popolare del Venerdì Santo, oltre la Via Crucis, spicca la processione del “Cristo morto”. Essa ripropone, nei moduli propri della pietà popolare, il piccolo corteo di amici e discepoli che, dopo aver deposto dalla Croce il corpo di Gesù, lo portarono al luogo in cui era la “tomba scavata nella roccia, nella quale nessuno era stato ancora deposto” (Lc 23, 53).

La processione del “Cristo morto” si svolge generalmente in un clima di austerità, di silenzio e di preghiera e con la partecipazione di numerosi fedeli, i quali percepiscono non pochi significati del mistero della sepoltura di Gesù.

143. È necessario tuttavia che tale manifestazione di pietà popolare né per la scelta dell’ora, né per le modalità di convocazione dei fedeli, appaia agli occhi di questi come un surrogato delle celebrazioni liturgiche del Venerdì Santo.

Pertanto nella progettazione pastorale del Venerdì Santo dovrà essere dato il primo posto e il massimo rilievo alla solenne Azione liturgica e si dovrà illustrare ai fedeli che nessun altro pio esercizio deve sostituire oggettivamente nel suo apprezzamento questa celebrazione.

Infine è da evitare l’inserimento della processione del “Cristo morto” nell’ambito della solenne Azione liturgica del Venerdì Santo, perché ciò costituirebbe un distorto ibridismo celebrativo.

Rappresentazione della Passione di Cristo

144. In molti paesi, durante la Settimana Santa, soprattutto il Venerdì, hanno luogo rappresentazioni della Passione di Cristo. Si tratta spesso di vere “sacre rappresentazioni”, che a buon diritto possono essere considerate un pio esercizio. Le sacre rappresentazioni, infatti, affondano le loro radici nella stessa Liturgia. Alcune di esse, nate per così dire nel coro dei monaci, attraverso un processo di progressiva drammatizzazione, sono passate al sagrato della chiesa.

In molti luoghi la preparazione e l’esecuzione della rappresentazione della Passione di Cristo è affidata a confraternite, i cui membri hanno assunto particolari impegni di vita cristiana. In tali rappresentazioni attori e spettatori sono coinvolti in un movimento di fede e di pietà genuine. È vivamente auspicabile che le sacre rappresentazioni della Passione del Signore non si discostino da questa pura linea di espressione sincera e gratuita di pietà, per assumere i caratteri propri delle manifestazioni folcloristiche, che richiamano non tanto lo spirito religioso quanto l’interesse dei turisti.

In riferimento alle sacre rappresentazioni va illustrata ai fedeli la profonda differenza che intercorre tra la “rappresentazione”, che è mimesi e “l’azione liturgica”, che è anamnesi, presenza misterica dell’evento salvifico della Passione.

Sono da rigettare le pratiche penitenziali che portano a farsi crocifiggere con chiodi.

Il ricordo della Vergine addolorata

145. Per la sua importanza dottrinale e pastorale, si raccomanda di non trascurare «la memoria dei dolori della beata Vergine Maria».[150] La pietà popolare, seguendo il racconto evangelico, ha rilevato l’associazione della Madre alla Passione salvifica del Figlio (cf. Gv 19, 25-27; Lc 2, 34s) e ha dato vita a vari pii esercizi, tra cui sono da ricordare:

– il Planctus Mariæ, intensa espressione di dolore, talora avvalorata da alti pregi letterari e musicali, in cui la Vergine piange non solo la morte del Figlio, innocente e santo, il sommo suo bene, ma anche lo smarrimento del suo popolo e il peccato dell’umanità;

– l’Ora della Desolata, nella quale i fedeli, con espressioni di commossa devozione, “fanno compagnia” alla Madre del Signore, rimasta sola, immersa in un profondo dolore, dopo la morte del suo unico Figlio; essi, contemplando la Vergine con il Figlio sul grembo, – la Pietà –, comprendono che in Maria si concentra il dolore dell’universo per la morte di Cristo; in lei essi vedono la personificazione di tutte le madri che, lungo la storia, hanno pianto la morte di un figlio. Tale pio esercizio, che in alcuni luoghi dell’America Latina è chiamato El pésame, non dovrà limitarsi tuttavia ad esprimere il sentimento umano davanti a una madre desolata, ma nella fede della risurrezione, saprà aiutare a comprendere la grandezza dell’amore redentore di Cristo e la partecipazione ad esso della sua Madre.

Sabato Santo

146. «Il Sabato Santo la Chiesa sosta presso il sepolcro del Signore, meditando la sua Passione e Morte, la discesa agli inferi ed aspettando nella preghiera e nel digiuno la sua Risurrezione».[151]

La pietà popolare non deve rimanere estranea al carattere peculiare del Sabato Santo; pertanto le consuetudini e le tradizioni festive collegate con questo giorno, in cui un tempo veniva anticipata la celebrazione pasquale, si devono riservare per la notte e il giorno di Pasqua.

L’«Ora della Madre»

147. In Maria, secondo l’insegnamento della tradizione, è come radunato tutto il corpo della Chiesa: ella è la «credentium collectio universa».[152] Perciò la Vergine Maria che sosta presso il sepolcro del Figlio, come la rappresenta la tradizione ecclesiale, è icona della Vergine Chiesa che veglia presso la tomba del suo Sposo, in attesa di celebrarne la Risurrezione.

A questa intuizione del rapporto tra Maria e la Chiesa si ispira il pio esercizio dell’Ora della Madre: mentre il corpo del Figlio riposa nel sepolcro e la sua anima è scesa negli inferi per annunciare ai suoi antenati l’imminente liberazione dalla regione dell’ombra, la Vergine, anticipando e impersonando la Chiesa, attende piena di fede la vittoria del Figlio sulla morte.

Domenica di Pasqua

148. Anche nella Domenica di Pasqua, massima solennità dell’anno liturgico, hanno luogo non poche manifestazioni di pietà popolare: esse sono tutte espressioni cultuali che esaltano la condizione nuova e la gloria del Cristo risorto, nonché le energie divine che scaturiscono dalla sua vittoria sul peccato e sulla morte.

L’incontro del Risorto con la Madre

149. La pietà popolare ha intuito che l’associazione del Figlio alla Madre è costante: nell’ora del dolore e della morte, nell’ora del gaudio e della risurrezione.

L’affermazione liturgica, secondo cui Dio ha riempito di gioia la Vergine nella risurrezione del Figlio,[153] è stata, per così dire, tradotta e quasi rappresentata dalla pietà popolare nel pio esercizio dell’Incontro della Madre con il Figlio risorto: la mattina di Pasqua due cortei, l’uno recante l’immagine della Madre addolorata, l’altro quella del Cristo risorto, si incontrano per significare che la Vergine fu la prima e piena partecipe del mistero della risurrezione del Figlio.

Per questo pio esercizio vale l’osservazione fatta per la processione del “Cristo morto”: il suo svolgimento non deve assumere aspetti di maggiore rilevanza delle stesse celebrazioni liturgiche della domenica di Pasqua né dare luogo ad inappropriate commistioni.[154]

La benedizione della mensa familiare

150. Un senso di novità percorre l’intera Liturgia pasquale: nuova è la natura, poiché nell’emisfero boreale la Pasqua coincide con il risveglio primaverile; nuovi il fuoco e l’acqua; nuovi i cuori dei cristiani, rinnovati dal sacramento della Penitenza e, come è auspicabile dagli stessi sacramenti dell’Iniziazione cristiana; nuova, per così dire, l’Eucaristia: sono segni e realtà-segno della nuova condizione di vita inaugurata da Cristo con la sua risurrezione.

Tra i pii esercizi che si collegano all’evento della Pasqua vi sono la tradizionale benedizione delle uova, simbolo della vita, e la benedizione del desco familiare; quest’ultima, che in molte famiglie cristiane è quotidiana consuetudine da incoraggiare,[155] acquista particolare significato nel giorno di Pasqua: con l’acqua benedetta nella Veglia pasquale, che lodevolmente i fedeli recano nelle loro abitazioni, il capofamiglia o un altro membro della comunità domestica benedice la mensa festiva.

Il saluto pasquale alla Madre del Risorto

151. In alcuni luoghi, al termine della Veglia pasquale o dopo i II Vespri della Domenica di Pasqua, si compie un breve pio esercizio: si benedicono dei fiori, che saranno distribuiti ai fedeli in segno di gioia pasquale, e si rende un omaggio all’immagine dell’Addolorata, che talora viene incoronata, mentre si canta il Regina caeli. I fedeli, che si erano associati al dolore della Vergine per la Passione del Figlio, vogliono così rallegrarsi con lei per l’evento della risurrezione.

Tale pio esercizio, che non deve essere frammisto all’azione liturgica, è consono ai contenuti del Mistero pasquale e costituisce una ulteriore prova di come la pietà popolare percepisca l’associazione della Madre all’opera salvifica del Figlio.

Nel Tempo Pasquale

La benedizione annuale delle famiglie nelle loro case

152. Durante il tempo pasquale  – o in altri periodi dell’anno – si svolge l’annuale benedizione delle famiglie, visitate nelle loro case. Raccomandata alla cura pastorale dei parroci e dei loro collaboratori, questa consuetudine molto sentita dai fedeli è una preziosa occasione per far risonare nelle famiglie cristiane il ricordo della costante presenza benedicente di Dio, l’invito a vivere in conformità al Vangelo, l’esortazione a genitori e figli di custodire e promuovere il mistero del loro essere “chiesa domestica”.[156]

La «Via lucis»

153. In tempi recenti, in varie regioni, si è venuto diffondendo un pio esercizio denominato Via lucis. In esso, a guisa di quanto avviene nella Via Crucis, i fedeli, percorrendo un cammino, considerano le varie apparizioni in cui Gesù – dalla Risurrezione all’Ascensione, in prospettiva della Parusia – manifestò la sua gloria ai discepoli in attesa dello Spirito promesso (cf. Gv 14, 26; 16, 13-15; Lc 24, 49), ne confortò la fede, portò a compimento gli insegnamenti sul Regno, definì ulteriormente la struttura sacramentale e gerarchica della Chiesa.

Attraverso il pio esercizio della Via lucis, i fedeli ricordano l’evento centrale della fede – la Risurrezione di Cristo – e la loro condizione di discepoli che nel Battesimo, sacramento pasquale, sono passati dalle tenebre del peccato alla luce della grazia (cf. Col 1, 13; Ef 5, 8).

Per secoli la Via Crucis ha mediato la partecipazione dei fedeli al primo momento dell’evento pasquale – la Passione – e ha contribuito a fissarne i contenuti nella coscienza del popolo. Analogamente, nel nostro tempo, la Via lucis, a condizione che si svolga con fedeltà al testo evangelico, può mediare efficacemente la comprensione vitale dei fedeli del secondo momento della Pasqua del Signore, la Risurrezione.

La Via lucis può divenire altresì un’ottima pedagogia della fede, perché, come si dice, «per crucem ad lucem». Infatti con la metafora del cammino, la Via lucis conduce dalla constatazione della realtà del dolore, che nel disegno di Dio non costituisce l’approdo della vita, alla speranza del raggiungimento della vera meta dell’uomo: la liberazione, la gioia, la pace, che sono valori essenzialmente pasquali.

La Via lucis, infine, in una società che spesso reca l’impronta della “cultura della morte”, con le sue espressioni di angoscia e di annientamento, è uno stimolo per instaurare una “cultura della vita”, una cultura cioè aperta alle attese della speranza e alle certezze della fede.

La devozione alla divina misericordia

154. Connessa con l’ottava di Pasqua, in tempi recenti e a seguito dei messaggi della religiosa Faustina Kowalska, canonizzata il 30 aprile 2000, si è progressivamente diffusa una particolare devozione alla misericordia divina elargita da Cristo morto e risorto, fonte dello Spirito che perdona il peccato e restituisce la gioia di essere salvati. Poiché la Liturgia della “Domenica II di Pasqua o della divina misericordia” – come viene ora chiamata[157] – costituisce l’alveo naturale in cui esprimere l’accoglienza della misericordia del Redentore dell’uomo, si educhino i fedeli a comprendere tale devozione alla luce delle celebrazioni liturgiche di questi giorni di Pasqua. Infatti, «il Cristo pasquale è l’incarnazione definitiva della misericordia, il suo segno vivente: storico-salvifico e insieme escatologico. Nel medesimo spirito, la Liturgia del tempo pasquale pone sulle nostre labbra le parole del salmo: “Canterò in eterno le misericordie del Signore” (Sal 89 [88], 2)».[158]

La novena di Pentecoste

155. La Scrittura attesta che nei nove giorni intercorrenti tra l’Ascensione e la Pentecoste, gli apostoli «erano assidui e concordi nella preghiera, insieme con alcune donne e con Maria, la Madre di Gesù, e con i fratelli di lui» (At 1, 14), in attesa di essere «rivestiti di potenza dall’alto» (Lc 24, 49). Dalla riflessione orante su questo evento salvifico è sorto il pio esercizio della novena di Pentecoste, molto diffuso nel popolo cristiano.

In realtà nel Messale e nella Liturgia delle Ore, soprattutto nei Vespri, tale “novena” è già presente: testi biblici ed eucologici richiamano, in vario modo, l’attesa del Paraclito. Pertanto, quando è possibile, la novena della Pentecoste sia fatta consistere nella celebrazione solennizzata dei Vespri. Ove invece questa soluzione non sia attuabile, si faccia in modo che la novena di Pentecoste rispecchi i temi liturgici dei giorni che vanno dall’Ascensione alla Vigilia di Pentecoste.

In alcuni luoghi viene celebrata in questi giorni la settimana di preghiera per l’unità dei cristiani.[159]

Pentecoste

La domenica di Pentecoste

156. Il tempo pasquale si conclude, al 50° giorno, con la domenica di Pentecoste, commemorativa dell’effusione dello Spirito Santo sugli apostoli (cf. At 2, 1-4), dei primordi della Chiesa e dell’inizio della sua missione ad ogni lingua, popolo e nazione. Significativa importanza ha assunto, specie nella chiesa cattedrale ma anche nelle parrocchie, la celebrazione protratta della Messa della Vigilia, che riveste il carattere di intensa e perseverante orazione dell’intera comunità cristiana, sull’esempio degli apostoli riuniti in preghiera unanime con la Madre del Signore.[160]

Esortando alla preghiera e al coinvolgimento nella missione, il mistero della Pentecoste rischiara la pietà popolare: anch’essa «è una dimostrazione continua della presenza dello Spirito Santo nella Chiesa. Egli accende nei cuori la fede, la speranza e l’amore, virtù eccelse che danno valore alla pietà cristiana. Lo stesso Spirito nobilita le numerose e svariate forme di trasmettere il messaggio cristiano secondo la cultura e le consuetudini di ogni luogo in tutti i tempi».[161] 

Con formule note, che provengono dalla celebrazione della Pentecoste (Veni, creator Spiritus, Veni, Sancte Spiritus)[162] o con brevi suppliche (Emitte Spiritum tuum et creabuntur…), i fedeli sono soliti invocare lo Spirito soprattutto all’inizio di un’attività o di un lavoro, come in particolari situazioni di smarrimento. Anche il Rosario, nel terzo mistero glorioso, invita a meditare l’effusione dello Spirito Santo. I fedeli poi sanno di aver ricevuto, particolarmente nella Confermazione, lo Spirito di sapienza e di consiglio che li guida nella loro esistenza, lo Spirito di fortezza e di luce che li aiuta a prendere le decisioni importanti e a sostenere le prove della vita. Sanno che il loro corpo, dal giorno del Battesimo, è tempio dello Spirito Santo, e dunque va rispettato e onorato, anche nella morte, e che nell’ultimo giorno la potenza dello Spirito lo farà risorgere.

Mentre apre alla comunione con Dio nella preghiera, lo Spirito Santo spinge verso il prossimo con sentimenti di incontro, riconciliazione, testimonianza, desiderio di giustizia e di pace, rinnovamento della mentalità, vero progresso sociale, slancio missionario.[163] In questo spirito, la solennità di Pentecoste è celebrata in alcune comunità come «giornata della sofferenza per le missioni».[164]

Nel Tempo durante l’anno

La solennità della santissima Trinità

157. La domenica dopo Pentecoste la Chiesa celebra la solennità della Santissima Trinità. Nel tardo Medioevo, la crescente devozione dei fedeli verso il mistero di Dio Uno e Trino, la quale fin dall’epoca carolingia aveva avuto un posto rilevante nella pietà privata e aveva dato origine a espressioni di pietà liturgica, indusse Giovanni XXII ad estendere, nel 1334, la festa della Trinità a tutta la Chiesa latina. Questo avvenimento ebbe, a sua volta, un influsso determinante nella nascita e nello sviluppo di alcuni pii esercizi.

Relativamente alla pietà popolare verso l’augusta Trinità, «il mistero centrale della fede e della vita cristiana»,[165] non è qui tanto il caso di ricordare questo o quel pio esercizio, quanto di sottolineare che ogni forma genuina di pietà cristiana deve avere il necessario riferimento al solo vero Dio Uno e Trino, «il Padre onnipotente e il suo Figlio unigenito e lo Spirito Santo».[166] Tale è il mistero di Dio, quale ci è stato rivelato in Cristo e per mezzo di lui. Tale è il suo manifestarsi nella storia della salvezza. Essa infatti non è altro che «la storia del rivelarsi del Dio vero e unico: Padre, Figlio e Spirito Santo, il quale riconcilia e unisce a sé coloro che sono separati dal peccato».[167]

Effettivamente sono numerosi i pii esercizi che hanno un’impronta e una dimensione trinitaria. La maggior parte di essi incomincia con il segno della croce e «nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo», la stessa formula con cui i discepoli di Gesù sono battezzati (cf. Mt 28, 19) e iniziano una vita di intimità con Dio, quali figli del Padre, fratelli del Figlio incarnato, tempio dello Spirito. Altri pii esercizi, adottando formule iniziali simili a quella dell’attuale Liturgia delle Ore, si aprono rendendo «Gloria al Padre, al Figlio e allo Spirito Santo». Altri ancora si concludono con la benedizione impartita nel nome delle tre Persone divine. E non sono pochi i pii esercizi le cui preghiere, seguendo lo schema tipico della preghiera liturgica, sono rivolte «al Padre per Cristo nello Spirito» e presentano formule dossologiche ispirate ai testi liturgici.

158. Come è stato detto nella Prima Parte del presente Direttorio, la vita cultuale è dialogo di Dio con l’uomo per Cristo nello Spirito Santo.[168] Perciò è necessario che l’orientamento trinitario sia un elemento costante anche nella pietà popolare. Ai fedeli deve risultare manifesto che i pii esercizi in onore della beata Vergine, degli Angeli e dei Santi hanno come termine ultimo il Padre, dal quale tutto procede e al quale tutto conduce; il Figlio, incarnato morto risorto, unico mediatore (cf. 1 Tm 2, 5) senza il quale è impossibile accedere al Padre (cf. Gv 14, 6); lo Spirito, sola sorgente di grazia e di santificazione. E’ importante evitare il pericolo di nutrire l’idea di una “divinità” che faccia astrazione delle Divine Persone.

159. Tra i pii esercizi rivolti direttamente al Dio Trino ed Uno è da ricordare, accanto alla recita della piccola dossologia (Gloria al Padre e al Figlio e allo Spirito Santo…) e della grande dossologia (Gloria a Dio nell’alto dei cieli…), il Trisagio biblico (Santo, Santo, Santo) e liturgico (Santo Dio, Santo Forte, Santo Immortale, abbi pietà di noi), molto diffuso in Oriente ed anche in alcuni Paesi, Ordini e Congregazioni dell’Occidente.

Il Trisagio liturgico, che si ispira ad altri canti liturgici basati sul Trisagio biblico – come il Santo nella celebrazione dell’Eucaristia, nell’inno Te Deum, negli improperia del rito dell’adorazione della Croce il Venerdì Santo, derivati a loro volta da Isaia 6, 3 e da Apocalisse 4, 8 – è un pio esercizio in cui gli oranti, in comunione con le potenze angeliche, glorificano ripetutamente Dio Santo, Forte, e Immortale con espressioni di lode tratte dalla divina Scrittura e dalla Liturgia.

La solennità del Corpo e Sangue del Signore

160. Il giovedì che segue la solennità della santissima Trinità la Chiesa celebra la solennità del sacratissimo Corpo e Sangue del Signore. La festa, estesa nel 1264 da papa Urbano IV a tutta la Chiesa latina, da una parte costituì una risposta di fede e di culto a dottrine ereticali sul mistero della presenza reale di Cristo nell’Eucaristia, dall’altra fu il coronamento di un movimento di ardente devozione verso l’augusto Sacramento dell’altare.

La pietà popolare, dunque, favorì il processo istitutivo della festa del Corpus Domini; a sua volta, questa fu causa e motivo del sorgere di nuove forme di pietà eucaristica nel popolo di Dio.

Per secoli, la celebrazione del Corpus Domini è stata il principale punto di convergenza della pietà popolare verso l’Eucaristia. Nei secoli XVI-XVII, la fede, ravvivata dal bisogno di reagire alle negazioni del movimento protestante, e la cultura – arte, letteratura, folklore – hanno concorso a rendere vive e significative molte espressioni della pietà popolare verso il mistero dell’Eucaristia.

161. La devozione eucaristica, così radicata nel popolo cristiano, deve tuttavia essere educata a cogliere due realtà di fondo:

– che supremo punto di riferimento della pietà eucaristica è la Pasqua del Signore; la Pasqua infatti, secondo la visione dei Padri, è la festa dell’Eucaristia, come, d’altra parte, l’Eucaristia è anzitutto celebrazione della Pasqua, ossia della Passione, Morte e Risurrezione di Gesù;

– che ogni forma di devozione eucaristica ha un intrinseco riferimento al Sacrifico eucaristico o perché dispone alla sua celebrazione o perché prolunga gli orientamenti cultuali ed esistenziali da essa suscitati.

Perciò il Rituale Romano ammonisce: «I fedeli, quando venerano Cristo presente nel Sacramento, ricordino che questa presenza deriva dal Sacrificio e tende alla comunione sacramentale e spirituale».[169]

162.     La processione nella solennità del Corpo e Sangue di Cristo è, per così dire, la “forma tipo” delle processioni eucaristiche. Essa infatti prolunga la celebrazione dell’Eucaristia: subito dopo la Messa, l’Ostia, che in essa è stata consacrata, viene portata fuori dall’aula ecclesiale perché il popolo cristiano «renda pubblica testimonianza di fede e di venerazione verso il santissimo Sacramento».[170]

I fedeli comprendono e amano i valori insiti nella processione del Corpus Domini: essi si sentono “popolo di Dio” che cammina con il suo Signore proclamando la fede in lui, divenuto veramente il “Dio-con-noi”.

È necessario tuttavia che nelle processioni eucaristiche siano osservate le norme che ne regolano lo svolgimento,[171] in particolare quelle che ne garantiscono la dignità e la riverenza dovuta al santissimo Sacramento;[172] ed è pure necessario che gli elementi tipici della pietà popolare, come l’addobbo delle vie e delle finestre, l’omaggio dei fiori, gli altari dove verrà collocato il Santissimo nelle soste del percorso, i canti e le preghiere, «portino tutti a manifestare la loro fede in Cristo, unicamente intenti alla lode del Signore»,[173] e alieni da forme di competizione.

163. Le processioni eucaristiche si concludono ordinariamente con la benedizione del santissimo Sacramento. Nel caso specifico della processione del Corpus Domini, la benedizione costituisce la conclusione solenne dell’intera celebrazione: al posto della consueta benedizione sacerdotale viene impartita la benedizione con il santissimo Sacramento.

È importante che i fedeli comprendano che la benedizione con il santissimo Sacramento non è un forma di pietà eucaristica a sé stante, ma è il momento conclusivo di un incontro cultuale sufficientemente prolungato. Perciò la norma liturgica vieta «l’esposizione fatta unicamente per impartire la benedizione».[174]

L’adorazione eucaristica

164. L’adorazione del santissimo Sacramento è una espressione particolarmente diffusa di culto all’Eucaristia, a cui la Chiesa vivamente esorta i Pastori e i fedeli.

La sua forma primigenia si può far risalire all’adorazione che, il Giovedì Santo, segue la celebrazione della Messa In cena Domini e la reposizione delle sacre Specie. Essa è altamente espressiva del legame esistente tra la celebrazione del memoriale del sacrificio del Signore e la sua presenza permanente nelle Specie consacrate. La conservazione delle sacre Specie, motivata soprattutto dalla necessità di poter disporre di esse in ogni momento per amministrare il Viatico agli infermi, fece sorgere nei fedeli la lodevole consuetudine di raccogliersi davanti al tabernacolo per adorare Cristo presente nel Sacramento.[175]

Infatti, «la fede nella presenza reale del Signore conduce naturalmente alla manifestazione esterna e pubblica di quella fede medesima. (…) La pietà, dunque, che spinge i fedeli a prostrarsi presso la santa Eucaristia, li attrae a partecipare più profondamente al mistero pasquale e a rispondere con gratitudine al dono di colui che con la sua umanità infonde incessantemente la vita divina nelle membra del suo Corpo. Trattenendosi presso Cristo Signore, essi godono della sua intima familiarità e dinanzi a lui aprono il loro cuore per loro stessi e per tutti i loro cari e pregano per la pace e la salvezza del mondo. Offrendo tutta la loro vita con Cristo al Padre nello Spirito Santo, attingono da quel mirabile scambio un aumento di fede, di speranza e di carità. Alimentano quindi così le giuste disposizioni per celebrare, con la devozione conveniente, il memoriale del Signore e ricevere frequentemente quel Pane che ci è dato dal Padre».[176]

165. L’adorazione al santissimo Sacramento, in cui convergono forme liturgiche ed espressioni di pietà popolare di cui non è facile distinguere nettamente i confini, può rivestire diverse modalità:[177]

– la semplice visita al santissimo Sacramento riposto nel tabernacolo: breve incontro con Cristo suggerito dalla fede nella sua presenza e caratterizzato dall’orazione silenziosa;

– l’adorazione dinanzi al santissimo Sacramento esposto, secondo le norme liturgiche, nell’ostensorio o nella pisside, in forma prolungata o breve;[178]

– la cosiddetta Adorazione perpetua e quella delle Quaranta Ore, che investono un’intera comunità religiosa, o un’associazione eucaristica, o una comunità parrocchiale, e forniscono l’occasione per numerose espressioni di pietà eucaristica.[179]

Per questi momenti di adorazione i fedeli dovranno essere aiutati a servirsi della Sacra Scrittura quale impareggiabile libro di preghiera, a utilizzare canti e preci idonee, a familiarizzarsi con alcune strutture semplici della Liturgia delle Ore, a seguire il ritmo dell’Anno liturgico, a sostare in preghiera silenziosa. In tal modo essi comprenderanno progressivamente che durante l’adorazione del Santissimo Sacramento non si devono compiere altre pratiche devozionali in onore della Vergine Maria e dei Santi.[180] Tuttavia, per lo stretto vincolo che unisce Maria a Cristo, la recita del Rosario potrebbe aiutare a dare alla preghiera un profondo orientamento cristologico, meditando in esso i misteri dell’Incarnazione e della Redenzione.[181]

Il Cuore sacratissimo di Cristo

166. Il venerdì che segue la seconda domenica dopo Pentecoste la Chiesa celebra la solennità del Sacratissimo Cuore di Gesù. Oltre alla celebrazione liturgica, molte altre espressioni di pietà hanno come oggetto il Cuore di Cristo. Non v’è dubbio infatti che la devozione al Cuore del Salvatore è stata ed è tuttora una delle espressioni più diffuse e più amate della pietà ecclesiale.

Intesa alla luce della divina Scrittura, l’espressione “Cuore di Cristo” designa il mistero stesso di Cristo, la totalità del suo essere, la sua persona considerata nel suo nucleo più intimo ed essenziale: Figlio di Dio, sapienza increata; carità infinita, principio di salvezza e di santificazione per l’intera umanità. Il “Cuore di Cristo” è Cristo, Verbo incarnato e salvatore, intrinsecamente proteso, nello Spirito, con infinito amore divino-umano verso il Padre e verso gli uomini suoi fratelli.

167. Come hanno spesso ricordato i Romani Pontefici, la devozione al Cuore di Cristo ha un solido fondamento nella Scrittura.[182]

Gesù, che è uno con il Padre (cf. Gv 10, 30), invita i suoi discepoli a vivere in intima comunione con lui, ad assumere la sua persona e la sua parola come norma di condotta e rivela se stesso come maestro «mite e umile di cuore» (Mt 11, 29). Si può dire, in un certo senso che la devozione al Cuore di Cristo è la traduzione in termini cultuali dello sguardo che, secondo la parola profetica ed evangelica, tutte le generazioni cristiane volgeranno a colui che è stato trafitto (cf. Gv 19, 37; Zc 12, 10), cioè al costato di Cristo, trafitto dalla lancia, dal quale scaturì sangue ed acqua (cf. Gv 19, 34), simbolo del «mirabile sacramento di tutta la Chiesa».[183]

Il testo giovanneo che narra l’ostensione delle mani e del costato di Cristo ai discepoli (cf. Gv 20, 20) e l’invito da lui rivolto a Tommaso di stendere la sua mano e di metterla nel suo costato (cf. Gv 20, 27) ha avuto anch’esso un notevole influsso nell’origine e nello sviluppo della pietà ecclesiale verso il Sacro Cuore.

168. Quei testi e altri che presentano il Cristo quale Agnello pasquale, vittorioso se pur immolato (cf. Ap 5, 6), furono oggetto di assidua meditazione da parte dei Santi Padri, che ne svelarono le ricchezze dottrinali e talora invitarono i fedeli a penetrare nel mistero di Cristo per la porta aperta nel suo fianco. Così sant’Agostino: «L’ingresso è accessibile: Cristo è la porta. Anche per te si aprì quando il suo fianco fu aperto dalla lancia. Ricorda che cosa ne uscì; quindi scegli per dove tu possa entrare. Dal fianco del Signore che pendeva e moriva sulla croce uscì sangue ed acqua, quando fu aperto dalla lancia. Nell’acqua è la tua purificazione, nel sangue la tua redenzione».[184]

169. Il Medioevo è stato un’epoca particolarmente feconda per lo sviluppo della devozione al Cuore del Salvatore. Uomini insigni per santità e dottrina, come san Bernardo († 1153), san Bonaventura († 1274), e mistici come santa Lutgarda († 1246), santa Matilde di Magdeburgo († 1282), le sante sorelle Matilde († 1299) e Gertrude († 1302) del monastero di Helfta, Ludolfo di Sassonia († 1378), santa Caterina da Siena († 1380) approfondirono il mistero del Cuore di Cristo, in cui videro la “casa di rifugio” ove ripararsi, la sede della misericordia, il luogo per l’incontro con lui, la sorgente dell’infinito amore del Signore, la fonte dalla quale sgorga l’acqua dello Spirito, la vera terra promessa e il vero paradiso.

170. Nell’epoca moderna il culto al Cuore del Salvatore conobbe nuovi sviluppi. In un tempo in cui il giansenismo proclamava i rigori della giustizia divina, la devozione al Cuore di Cristo costituì un efficace antidoto per suscitare nei fedeli l’amore al Signore e la fiducia nella sua infinita misericordia, di cui il Cuore è pegno e simbolo. San Francesco di Sales († 1622), che assunse come norma di vita e di apostolato l’atteggiamento fondamentale del Cuore di Cristo, cioè l’umiltà, la mansuetudine (cf. Mt 11, 29), l’amore tenero e misericordioso; santa Margherita Maria Alacoque († 1690), a cui il Signore mostrò ripetutamente le ricchezze del suo Cuore; san Giovanni Eudes († 1680), promotore del culto liturgico al Sacro Cuore; san Claudio la Colombière († 1682), san Giovanni Bosco († 1888) e altri santi e sante sono stati insigni apostoli della devozione al Sacro Cuore.

171. Le forme di devozione al Cuore del Salvatore sono molto numerose; alcune sono state esplicitamente approvate e frequentemente raccomandate dalla Sede Apostolica. Tra esse sono da ricordare:

– la consacrazione personale, che, secondo Pio XI, «fra tutte le pratiche riferentisi al culto del Sacro Cuore è senza dubbio la principale»;[185]

– la consacrazione della famiglia, mediante la quale il nucleo familiare, già partecipe in virtù del sacramento del matrimonio del mistero di unità e di amore fra Cristo e la Chiesa, viene dedicato al Signore, perché egli regni nel cuore di ognuno dei suoi membri;[186]

– le Litanie del Cuore di Gesù, approvate nel 1891 per tutta la Chiesa, di contenuto segnatamente biblico e arricchite di indulgenze;

– l’atto di riparazione, formula di preghiera con cui il fedele, memore dell’infinita bontà di Cristo, intende implorare misericordia e riparare le offese recate in tanti modi al suo Cuore dolcissimo;[187]

– la pratica dei nove primi venerdì del mese, che trae origine dalla “grande promessa” fatta da Gesù a santa Margherita Maria Alacoque. In un’epoca in cui la comunione sacramentale era molto rara presso i fedeli, la pratica dei nove primi venerdì del mese contribuì significativamente al ripristino della frequenza ai sacramenti della Penitenza e dell’Eucaristia. Nel nostro tempo la devozione dei primi venerdì del mese, se praticata in modo pastoralmente corretto, può recare ancora indubbi frutti spirituali. È necessario tuttavia che i fedeli siano convenientemente istruiti: sul fatto che non si deve riporre in tale pratica una fiducia che rasenta la vana credulità, la quale, in ordine alla salvezza, annulla le insopprimibili esigenze della fede operante e l’impegno di condurre una vita conforme al Vangelo; sul valore assolutamente predominante della domenica, la «festa primordiale»,[188] che deve essere caratterizzata dalla piena partecipazione dei fedeli alla celebrazione eucaristica.

172. La devozione al Sacro Cuore costituisce una grande espressione storica della pietà della Chiesa per Gesù Cristo, suo Sposo e Signore; essa richiede un atteggiamento di fondo fatto di conversione e riparazione, di amore e gratitudine, di impegno apostolico e di consacrazione nei confronti di Cristo e della sua opera salvifica. Perciò la Sede Apostolica e i Vescovi la raccomandano, ne promuovono il rinnovamento: nelle espressioni linguistiche ed iconografiche; nella presa di coscienza delle sue radici bibliche e del suo collegamento con le massime verità della fede; nell’affermazione del primato dell’amore a Dio e al prossimo, come contenuto essenziale della devozione stessa.

173. La pietà popolare tende ad identificare una devozione con la sua rappresentazione iconografica. Ciò è un fatto normale, che ha senza dubbio aspetti positivi, ma può anche dar luogo ad alcuni inconvenienti: un tipo iconografico, non più rispondente al gusto dei fedeli, può condurre ad un minor apprezzamento dell’oggetto della devozione, indipendentemente dal suo fondamento teologico e dai suoi contenuti storico-salvifici.

Così è avvenuto per la devozione al Sacro Cuore: certe immagini di tipo oleografico, talvolta sdolcinate, inadeguate ad esprimere il robusto contenuto teologico, non favoriscono l’approccio dei fedeli al mistero del Cuore del Salvatore.

Nel nostro tempo è visto con favore l’orientamento a rappresentare il Sacro Cuore rapportandosi al momento della Crocifissione, in cui si manifesta in sommo grado l’amore di Cristo. Il Sacro Cuore è Cristo crocifisso, con il costato aperto dalla lancia dal quale scaturiscono sangue ed acqua (cf. Gv 19, 34).

Il Cuore immacolato di Maria

174. All’indomani della solennità del Sacratissimo Cuore di Gesù, la Chiesa celebra la memoria del Cuore immacolato di Maria. La contiguità delle due celebrazioni è già in se stessa un segno liturgico della loro stretta connessione: il mysterium del Cuore del Salvatore si proietta e si riverbera nel Cuore della Madre, che è anche socia e discepola. Come la solennità del Sacro Cuore celebra i misteri salvifici di Cristo in modo sintetico e riconducendoli alla loro sorgente – il Cuore, appunto –, così la memoria del Cuore immacolato di Maria è celebrazione complessiva dell’associazione “cordiale” della Madre all’opera salvifica del Figlio: dall’incarnazione, alla morte e risurrezione,  al dono dello Spirito.

La devozione al Cuore immacolato di Maria si è molto diffusa a seguito delle apparizioni della Vergine a Fatima, nel 1917. Nel 25° anniversario di esse, nel 1942, Pio XII consacrava la Chiesa e il genere umano al Cuore immacolato di Maria, e nel 1944 la festa del Cuore immacolato di Maria veniva estesa a tutta la Chiesa.

Le espressioni della pietà popolare verso il Cuore di Maria ricalcano, pur salvando l’invalicabile distanza tra il Figlio, vero Dio, e la Madre, soltanto creatura, quelle rese al Cuore di Cristo: la consacrazione dei singoli fedeli, delle famiglie, di comunità religiose, di nazioni;[189] la riparazione, compiuta attraverso la preghiera, la mortificazione, le opere di misericordia; la pratica dei Cinque primi sabati del mese.

Per quanto concerne la devozione della comunione sacramentale in Cinque primi sabati consecutivi, valgono le osservazioni fatte a proposito dei Nove primi venerdì:[190] eliminata ogni sopravvalutazione del segno temporale e collocata correttamente la comunione nel contesto celebrativo dell’Eucaristia, la pia pratica deve essere attuata come occasione propizia per vivere intensamente, con atteggiamento ispirato alla Vergine, il Mistero pasquale che si celebra nell’Eucaristia.

Il Sangue preziosissimo di Cristo

175. Nella rivelazione biblica, sia nella fase figurale dell’Antico Testamento sia in quella di compimento e di perfezione del Nuovo, il sangue appare intimamente connesso con la vita e, per antitesi, con la morte, con l’esodo e la pasqua, con il sacerdozio e i sacrifici cultuali, con la redenzione e l’alleanza.

Le figure veterotestamentarie relative al sangue e al suo valore salvifico si sono compiute in modo perfetto in Cristo, soprattutto nella sua Pasqua di morte e di risurrezione. Perciò il mistero del Sangue di Cristo è al centro della fede e della salvezza.

Al mistero del Sangue salvifico richiamano o ad esso rinviano:

– l’evento dell’incarnazione del Verbo (cf. Gv 1, 14) e il rito dell’inserimento del neonato Gesù nel popolo dell’Antica Alleanza attraverso la circoncisione (cf. Lc 2, 21);

– la figura biblica dell’Agnello, ricca di aspetti e di implicazioni: «Agnello di Dio, che toglie il peccato del mondo» (Gv 1, 29. 36), in cui confluisce l’immagine del «Servo sofferente» di Isaia 53, che porta su di sé le sofferenze e il peccato dell’umanità (cf. Is 53, 4-5); «Agnello pasquale» (cf. Es 12, 1; Gv 12, 36), simbolo della redenzione di Israele (cf. At 8, 31-35; 1 Cor 5, 7; 1 Pt 1, 18-20);

– il “calice della passione”, di cui parla Gesù, con allusione alla sua imminente morte redentrice, chiedendo ai figli di Zebedeo: «Potete bere il calice che io sto per bere?» (Mt 20, 22; cf. Mc 10, 38) e il calice dell’agonia dell’orto degli ulivi (cf. Lc 22, 42-43), accompagnata da sudore di sangue (cf. Lc 22, 44);

– il calice eucaristico che, nel segno del vino, contiene il Sangue della nuova ed eterna Alleanza, versato per la remissione dei peccati, ed è memoriale della Pasqua del Signore (cf. 1 Cor 11, 25) e bevanda di salvezza secondo la parola del Maestro: «chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno» (Gv 6, 54);

– l’evento della morte, perché con il sangue versato sulla croce, Cristo pacificò il cielo e la terra (cf. Col 1, 20);

– il colpo di lancia che trafisse l’Agnello immolato, dal cui costato aperto sgorgarono sangue ed acqua (cf. Gv 19, 34), documento dell’avvenuta redenzione, indicazione della vita sacramentale della Chiesa – acqua e sangue, Battesimo ed Eucaristia –, simbolo della Chiesa nata dal Cristo dormiente sulla croce.[191]

176. Al mistero del Sangue si riallacciano in modo particolare i titoli cristologici di Redentore: Cristo, infatti, con il suo sangue innocente e prezioso ci ha riscattato dall’antica schiavitù (cf. 1 Pt 1, 19) e «ci purifica da ogni peccato» (1 Gv 1, 7); di Sacerdote sommo «dei beni futuri», poiché Cristo «non con sangue di capri e di vitelli, ma con il proprio sangue entrò una volta per sempre nel santuario, procurandoci una redenzione eterna» (Eb 9, 11-12); di Testimone fedele (cf. Ap 1, 5), vindice del sangue dei martiri (cf. Ap 6, 10) che «furono immolati a causa della parola di Dio e della testimonianza che gli avevano resa» (Ap 6, 9); di Re, il quale, Dio, “regna dal legno”, ornato con la porpora del proprio sangue; di Sposo e di Agnello di Dio, nel cui sangue i membri della comunità ecclesiale – la Sposa – hanno lavato le loro vesti (cf. Ap 7, 14; Ef 5, 25-27).

177. La straordinaria importanza del Sangue salvifico ha fatto sì che la sua memoria occupi un luogo centrale ed essenziale nella celebrazione del mistero del culto: anzitutto nel centro stesso dell’assemblea eucaristica, in cui la Chiesa innalza a Dio Padre, in rendimento di grazie, il «calice della benedizione» (1 Cor 10, 16; cf. 115-116, 13) e lo porge ai fedeli come sacramento di reale «comunione con il sangue di Cristo» (1 Cor 10, 16); e poi, nel corso dell’Anno liturgico. La Chiesa infatti commemora il mistero del Sangue non solo nella solennità del Corpo e Sangue del Signore (Giovedì dopo la solennità della santissima Trinità), ma anche in numerose altre celebrazioni, sì che la memoria cultuale del Sangue del nostro riscatto (cf. 1 Pt 1, 18) pervade l’intero arco dell’Anno. Così, ad esempio, nel Tempo di Natale, all’Ora del Vespro, la Chiesa, rivolgendosi a Cristo, canta: «Nos quoque, qui sancto tuo/ redempti sumus sanguine,/ ob diem natalis tui/ hymnum novum concinimus».[192] Ma soprattutto nel Triduo pasquale, il valore e l’efficacia redentrice del Sangue di Cristo sono oggetto di costante e adorante memoria. Il Venerdì Santo, durante l’adorazione della Croce, risuona il canto: «Mite corpus perforatur, sanguis unde profluit;/ terra, pontus, astra, mundus quo lavantur flumine!»[193]; e nel giorno stesso di Pasqua: «Cuius corpus sanctissimum/ in ara crucis torridum,/ sed et cruorem roseum/ gustando, Deo vivimus».[194]

In alcuni luoghi e in Calendari particolari, la festa del Preziosissimo Sangue di Cristo è ancora celebrata il 1° luglio: in essa si ricordano i titoli del Redentore.

178. Dal culto liturgico la venerazione del Sangue di Cristo è passata alla pietà popolare, in cui essa ha un largo spazio e numerose espressioni. Tra queste sono da ricordare:

– la Corona del Sangue prezioso di Cristo, nella quale attraverso letture bibliche e preghiere, sono oggetto di pia meditazione “sette effusioni di sangue” di Cristo, esplicitamente o implicitamente ricordate nei Vangeli: il sangue versato nella circoncisione, nell’orto degli ulivi, nella flagellazione, nell’incoronazione di spine, nella salita al Monte Calvario, nella crocifissione, nel colpo inferto dalla lancia;

– le Litanie del Sangue di Cristo: il formulario attuale, approvato da papa Giovanni XXIII il 24 febbraio 1960,[195] si snoda su una trama in cui la linea storico-salvifica è ben visibile e i riferimenti a passi biblici sono numerosi;

– l’Ora di adorazione al Sangue prezioso di Cristo, che assume una grande varietà di forme, ma si prefigge un unico scopo: la lode e l’adorazione del Sangue di Cristo presente nell’Eucaristia, il ringraziamento per i benefici della redenzione, l’intercessione per ottenere misericordia e perdono, l’offerta del Sangue prezioso per il bene della Chiesa;

– la Via Sanguinis: un pio esercizio di recente istituzione che, per motivi antropologici e culturali, ha avuto origine in Africa, ove oggi è particolarmente diffuso tra le comunità cristiane. Nella Via Sanguinis i fedeli, trasferendosi da un luogo all’altro come avviene nella Via Crucis, rivivono i vari avvenimenti in cui il Signore Gesù effuse il suo Sangue per la nostra salvezza.

179. La venerazione del Sangue del Signore, versato per la nostra salvezza, e la consapevolezza del suo valore immenso hanno favorito la diffusione di rappresentazioni iconografiche, accolte dalla Chiesa. In esse si distinguono essenzialmente due tipi: quello che fa riferimento alla coppa eucaristica, contenente il Sangue della nuova ed eterna Alleanza, e quello che pone al centro della rappresentazione Gesù crocifisso, dalle cui mani, piedi e costato sgorga il Sangue salvifico. Talora il Sangue inonda copioso la terra, come torrente di grazia che lava i peccati; talora accanto alla croce sono raffigurati cinque Angeli, che reggono ciascuno un calice in cui raccolgono il Sangue che sgorga dalle cinque piaghe; questo ufficio a volte è compiuto da una figura femminile, raffigurante la Chiesa Sposa dell’Agnello.

L’Assunzione della beata Vergine Maria

180. Nello svolgimento del Tempo ordinario spicca, per i suoi molteplici significati teologici, la solennità dell’Assunzione della beata Vergine Maria (15 agosto). Essa è memoria antica della Madre del Signore, cifra e sintesi di molte verità della fede. Infatti la Vergine assunta al cielo:

– appare come «il frutto più eccelso della redenzione»,[196] testimonianza suprema dell’ampiezza e dell’efficacia dell’opera salvifica di Cristo (significato soteriologico); 

– costituisce il pegno della futura partecipazione di tutti i membri del Corpo mistico, alla gloria pasquale del Risorto (aspetto cristologico);

– è per tutti gli uomini «il consolante documento dell’avverarsi della speranza finale: ché tale piena glorificazione è il destino di quanti Cristo ha fatto fratelli, avendo con loro “in comune il sangue e la carne” (Eb 2, 14; cf. Gal 4, 4)»[197] (aspetto antropologico);

– è l’icona escatologica di ciò che la Chiesa «tutta, desidera e spera di essere»[198] (aspetto ecclesiologico);

– è la garanzia della fedeltà del Signore alla sua promessa: egli riserva una ricompensa munifica alla sua umile Serva per la sua adesione fedele al progetto divino, cioè un destino di pienezza e di beatitudine, di glorificazione dell’anima immacolata e del corpo verginale, di perfetta configurazione al Figlio risorto (aspetto mariologico).[199]

181. Nella pietà popolare la festa mariana del 15 agosto è molto sentita. In molti luoghi essa è ritenuta la festa per antonomasia della Vergine: il “giorno di santa Maria”, così come l’Immacolata per la Spagna e per l’America Latina.

Nei paesi germanici è diffusa la consuetudine di benedire erbe aromatiche il 15 agosto. Tale benedizione, accolta un tempo nel Rituale Romanum,[200] costituisce un chiaro esempio di genuina evangelizzazione di riti e credenze pre-cristiane: a Dio, per la cui parola «la terra produsse germogli, erbe che producono seme […] e alberi che fanno ciascuno frutto con il seme, secondo la propria specie» (Gn 1, 12), bisognava rivolgersi per ottenere ciò che i pagani intendevano conseguire con i loro riti magici: arginare i danni causati dalle erbe venefiche, potenziare l’efficacia delle erbe curative.

A questa visione si riallaccia in parte l’uso antico di applicare alla santa Vergine, richiamandosi alla Scrittura, simboli e appellativi tolti dal mondo vegetale, quali vite, spiga, cedro e giglio, e di veder in essa un fiore olezzante per le sue virtù e più ancora il «virgulto germogliato dalla radice di Iesse» (Is 11, 1) che avrebbe generato il frutto benedetto Gesù.

Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani

182. Cosciente della preghiera di Gesù «come tu, Padre, sei me e io in te, siano anch’essi in noi una cosa sola, perché il mondo creda che tu mi hai mandato» (Gv 17, 21), la Chiesa invoca in ogni Eucaristia il dono dell’unità e della pace.[201] Lo stesso Messale Romano – tra le Messe per varie necessità – contiene tre formulari di Messa “per l’unità dei cristiani”. Tale intenzione è richiamata pure nelle intercessioni della Liturgia delle Ore.[202]  

Per la diversa sensibilità dei «fratelli da noi separati»,[203] anche le espressioni della pietà popolare devono tener presente il criterio ecumenico.[204] In effetti, «la conversione del cuore e la santità della vita, insieme con le preghiere private e pubbliche per l’unità dei cristiani, si devono ritenere come l’anima di tutto il movimento ecumenico e si possono giustamente chiamare ecumenismo spirituale».[205] Uno speciale luogo di incontro dei cattolici con cristiani appartenenti ad altre Chiese e Comunità ecclesiali, è costituito dunque dalla preghiera in comune per impetrare la grazia dell’unità e per presentare a Dio le necessità e le preoccupazioni comuni o per rendere grazie a Dio e implorare il suo aiuto.  «La preghiera comune è particolarmente raccomandata durante la “Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani” o nel periodo che intercorre tra l’Ascensione e Pentecoste».[206] La preghiera per l’unità dei cristiani è arricchita da indulgenze.[207]


 

Capitolo V

LA VENERAZIONE
PER LA SANTA MADRE DEL SIGNORE

Alcuni principi

183. La pietà popolare verso la beata Vergine, varia nelle sue espressioni e profonda nelle sue motivazioni, è un fatto ecclesiale rilevante e universale. Essa sgorga dalla fede e dall’amore del popolo di Dio verso Cristo, Redentore del genere umano, e dalla percezione della missione salvifica che Dio ha affidato a Maria di Nazaret, per cui la Vergine non è solo la Madre del Signore e del Salvatore ma anche, sul piano della grazia, la Madre di tutti gli uomini.

Infatti «i fedeli comprendono facilmente il legame vitale che unisce il Figlio alla Madre. Sanno che il Figlio è Dio e che lei, la Madre, è anche loro madre. Intuiscono la santità immacolata della Vergine e, pur venerandola quale regina gloriosa in cielo, sono tuttavia sicuri che essa, piena di misericordia, intercede in loro favore e quindi implorano con fiducia il suo patrocinio. I più poveri la sentono particolarmente vicina. Sanno che essa fu povera come loro, che soffrì molto, che fu paziente e mite. Sentono compassione per il suo dolore nella crocifissione e morte del Figlio, gioiscono con lei per la risurrezione di Gesù. Celebrano con gioia le sue feste, partecipano volentieri alle processioni, si recano in pellegrinaggio ai santuari, amano cantare in suo onore, le offrono doni votivi. Non tollerano che qualcuno la offenda e istintivamente diffidano di chi non la onora».[208]

La Chiesa stessa esorta tutti i suoi figli – sacri ministri, religiosi, fedeli laici – a nutrire la loro pietà personale e comunitaria anche con pii esercizi, che essa approva e raccomanda.[209] Il culto liturgico, infatti, nonostante la sua importanza oggettiva e l’insostituibile valore, l’efficacia esemplare e il carattere normativo, non esaurisce tutte le possibilità espressive della venerazione del popolo di Dio verso la santa Madre del Signore.[210]

184. I rapporti tra Liturgia e pietà popolare mariana devono essere regolati alla luce dei principi e delle norme più volte enunciati in questo documento.[211] In ogni caso, nei confronti della pietà mariana del popolo di Dio, la Liturgia deve apparire quale “forma esemplare”,[212] fonte di ispirazione, costante punto di riferimento e meta ultima.

185. Conviene tuttavia ricordare qui sinteticamente alcune istanze che il Magistero della Chiesa ha espresso in rapporto ai pii esercizi mariani. Esse sono da tenere presenti nel momento in cui ci si accinge alla composizione di nuovi pii esercizi o alla revisione di quelli già esistenti[213] o, semplicemente, alla loro messa in atto cultuale. L’attenzione dei Pastori verso i pii esercizi mariani è dovuta alla loro rilevanza; essi infatti, da una parte, sono frutto ed espressione della pietà mariana di un popolo o di una comunità di fedeli, dall’altra, sono a loro volta causa e fattore non secondario della “fisionomia mariana” dei fedeli, dello “stile” cioè che assume la pietà dei fedeli verso la beata Vergine.

186. L’istanza fondamentale del Magistero nei confronti dei pii esercizi è che essi siano riconducibili all’«alveo dell’unico culto che a buon diritto è chiamato cristiano perché da Cristo trae origine di efficacia, in Cristo trova compiuta espressione e per mezzo di Cristo nello Spirito, conduce al Padre».[214] Ciò significa che i pii esercizi mariani, se pur non tutti allo stesso modo e nella stessa misura, devono:

– esprimere la nota trinitaria, che distingue e qualifica il culto al Dio della rivelazione neotestamentaria, il Padre, il Figlio e lo Spirito; la componente cristologica, che mette in luce l’unica e necessaria mediazione di Cristo; la dimensione pneumatologica, poiché dallo Spirito proviene e nello Spirito è compiuta ogni genuina espressione di pietà; il carattere ecclesiale, per cui i battezzati, costituendo il popolo santo di Dio, pregano riuniti nel nome del Signore (cf. Mt 18, 20) e nello spazio vitale della Comunione dei Santi;[215]

– ricorrere costantemente alla divina Scrittura, intesa nell’alveo della sacra Tradizione; non trascurare, pur nella completa professione della fede della Chiesa, le esigenze del movimento ecumenico; considerare gli aspetti antropologici delle espressioni cultuali, in modo che riflettano una valida concezione dell’uomo e rispondano alle sue esigenze; evidenziare la tensione escatologica, essenziale al messaggio evangelico; esplicitare l’impegno missionario e il dovere di testimonianza, che incombono ai discepoli del Signore.[216]

I tempi dei pii esercizi mariani

La celebrazione della festa

187. I pii esercizi mariani si ricollegano quasi tutti a una festa liturgica presente nel Calendario generale del Rito Romano o nei Calendari particolari delle diocesi o delle famiglie religiose.

Talvolta il pio esercizio precede l’istituzione della festa (è il caso del santo Rosario), talvolta la festa è molto anteriore al pio esercizio (è il caso dell’Angelus Domini). Questo fatto evidenzia il rapporto esistente tra Liturgia e pii esercizi e come questi ultimi trovino il loro momento culminante nella celebrazione della festa. In quanto liturgica, la festa si rapporta alla storia della salvezza e celebra un aspetto dell’associazione della Vergine Maria al mistero di Cristo. Essa, pertanto, deve essere celebrata secondo le norme della Liturgia e nel rispetto della gerarchia tra “atti liturgici” e “pii esercizi” connessi.

Ma una festa della beata Vergine, in quanto manifestazione popolare porta con sé valori antropologici che non devono essere trascurati.[217]

Il sabato

188. Tra i giorni dedicati alla beata Vergine spicca il sabato, assurto al grado di memoria di santa Maria.[218] Questa memoria risale certamente all’epoca carolingia (secolo IX), ma non ci sono noti i motivi che indussero a scegliere il sabato quale giorno di santa Maria.[219] In seguito ne furono date numerose spiegazioni,[220] le quali tuttavia non soddisfano pienamente i cultori della storia della pietà.

Oggi, a prescindere dalle sue oscure origini storiche, si mettono in risalto giustamente alcuni valori di questa memoria ai quali «è più sensibile la spiritualità contemporanea: l’essere cioè ricordo dell’atteggiamento materno e discepolare della “beata Vergine che ‘nel grande sabato’ quando Cristo giaceva nel sepolcro, forte unicamente della fede e della speranza, sola fra tutti i discepoli, attese vigile la Risurrezione del Signore”; preludio e introduzione alla celebrazione della domenica, festa primordiale, memoria settimanale della Risurrezione di Cristo; segno, con la sua cadenza settimanale, che la “Vergine è costantemente presente ed operante nella vita della Chiesa”».[221]

Anche la pietà popolare è sensibile alla valorizzazione del sabato quale giorno di santa Maria. Non è infrequente il caso di comunità religiose e di associazioni di fedeli i cui statuti prescrivono di rendere ogni sabato particolari ossequi alla Madre del Signore, talora con pii esercizi composti appositamente per quel giorno.[222]

Tridui, settenari, novene mariane

189. Appunto perché momento culminante, la festa di solito è preceduta e preparata da un triduo, un settenario o una novena. Questi “tempi e modi della pietà popolare” si devono svolgere in armonia coi “tempi e modi della Liturgia”.

Tridui, settenari, novene possono costituire occasione propizia non solo per dare vita a pii esercizi in onore della beata Vergine, ma anche per offrire ai fedeli una visione adeguata sul posto che ella occupa nel mistero di Cristo e della Chiesa e sulla funzione che in esso svolge.

I pii esercizi infatti non possono restare estranei alle progressive acquisizioni della ricerca biblica e teologica sulla Madre del Salvatore, anzi devono divenire, senza che ne sia alterata la natura, mezzo catechetico per la testimonianza e la diffusione di esse.

Tridui, settenari, novene prepareranno veramente la celebrazione della festa, se i fedeli saranno stimolati ad accostarsi ai sacramenti della Penitenza e dell’Eucaristia e a rinnovare il loro impegno cristiano sull’esempio di Maria, la prima e più perfetta discepola di Cristo.

In alcune regioni, il giorno 13 di ogni mese, a ricordo delle apparizioni della Vergine a Fatima, i fedeli si incontrano per momenti di preghiera mariana.

I «mesi mariani»

190. Relativamente alla pratica di un “mese mariano”, diffusa in varie Chiese sia dell’Oriente sia dell’Occidente,[223] si possono richiamare alcuni orientamenti essenziali.[224]

In Occidente i mesi dedicati alla Vergine, sorti in un’epoca in cui si faceva scarso riferimento alla Liturgia come a forma normativa del culto cristiano, si sono sviluppati parallelamente al culto liturgico. Ciò ha posto e pone tuttora alcuni problemi di indole liturgico-pastorale che meritano un’accurata valutazione.

191. Limitatamente alla consuetudine occidentale di celebrare un “mese mariano” in maggio (in novembre, in alcuni paesi dell’emisfero australe), sarà opportuno tenere conto delle esigenze della Liturgia, delle attese dei fedeli, della loro maturazione nella fede, e studiare la problematica posta dai “mesi mariani” nell’ambito della “pastorale d’insieme” della Chiesa locale, evitando situazioni di contrasto pastorale che disorientano i fedeli, come accadrebbe, ad esempio, se si spingesse per abolire il “mese di maggio”.

In molti casi la soluzione più opportuna sarà quella di armonizzare i contenuti del “mese mariano” con il concomitante tempo dell’Anno liturgico. Così, ad esempio, durante il mese di maggio, che in gran parte coincide con i cinquanta giorni della Pasqua, i pii esercizi dovranno mettere in luce la partecipazione della Vergine al mistero pasquale (cf. Gv, 19, 25-27) e all’evento pentecostale (cf. At 1, 14), che inaugura il cammino della Chiesa: un cammino che essa, divenuta partecipe della novità del Risorto, percorre sotto la guida dello Spirito. E poiché i “cinquanta giorni” sono il tempo proprio per la celebrazione e la mistagogia dei sacramenti dell’iniziazione cristiana, i pii esercizi del mese di maggio potranno utilmente dar rilievo alla funzione che la Vergine, glorificata in cielo, svolge sulla terra, “qui e ora”, nella celebrazione dei sacramenti del Battesimo, della Confermazione e dell’Eucaristia.[225]

In ogni caso dovrà essere diligentemente seguita la direttiva della Costituzione Sacrosanctum Concilium sulla necessità che «l’animo dei fedeli sia indirizzato prima di tutto verso le feste del Signore, nelle quali, durante il corso dell’anno, si celebrano i misteri della salvezza»[226], ai quali, certo, è stata associata la beata Vergine Maria.

Un’opportuna catechesi convincerà i fedeli che la domenica, memoria ebdomadaria della Pasqua, è «il giorno di festa primordiale». Infine, tenendo presente che nella Liturgia Romana le quattro settimane di Avvento costituiscono un tempo mariano armonicamente inserito nell’Anno liturgico, si dovranno aiutare i fedeli a valorizzare convenientemente i numerosi riferimenti alla Madre del Signore offerti da questo intero periodo.

Alcuni pii esercizi raccomandati dal Magistero

192. Non è il caso di dare qui un elenco di tutti i pii esercizi mariani raccomandati dal Magistero. Se ne ricordano tuttavia alcuni meritevoli di particolare attenzione, per offrire qualche indicazione relativa al loro svolgimento e suggerire eventualmente qualche emendamento.

Ascolto orante della Parola di Dio

193. L’indicazione conciliare di promuovere la «sacra celebrazione della parola di Dio» in alcuni momenti significativi dell’Anno liturgico[227] può trovare valida applicazione anche nelle manifestazioni cultuali verso la Madre del Verbo incarnato. Ciò corrisponde perfettamente ad un indirizzo generale della pietà cristiana[228] e rispecchia il convincimento che è già un eccellente ossequio alla Vergine agire come lei nei confronti della Parola di Dio (cf. Lc 2, 19. 51). Come nelle celebrazioni liturgiche, così nei pii esercizi, i fedeli devono ascoltare con fede la Parola, accoglierla con amore e custodirla nel cuore; meditarla nell’animo e diffonderla con le labbra; metterla fedelmente in pratica e ad essa conformare tutta la vita.[229]

194. «Le celebrazioni della Parola, per le possibilità tematiche e strutturali che consentono, offrono molteplici elementi per incontri cultuali che siano contemporaneamente espressione di genuina pietà e momento adatto per sviluppare una catechesi sistematica sulla Vergine. Ma l’esperienza insegna che le celebrazioni della Parola non devono avere un carattere prevalentemente intellettuale o esclusivamente didattico; devono invece dare spazio – nei canti, nei testi di preghiera, nei modi di partecipazione dei fedeli – ai moduli espressivi, semplici e familiari, della pietà popolare, che parlano con immediatezza al cuore dell’uomo».[230]

L’«Angelus Domini»

195. L’Angelus Domini è la preghiera tradizionale con cui i fedeli tre volte al giorno, cioè all’aurora, a mezzogiorno, al tramonto,  commemorano l’annuncio dell’angelo Gabriele a Maria. L’Angelus è quindi ricordo dell’evento salvifico per cui, secondo il disegno del Padre, il Verbo, per opera dello Spirito Santo, si fece uomo nel grembo della Vergine Maria.

La recita dell’Angelus è profondamente radicata nella pietà del popolo cristiano ed è confortata dall’esempio dei Romani Pontefici. In alcuni ambienti le mutate condizioni dei tempi non favoriscono la recita dell’Angelus, ma in molti altri gli impedimenti sono minori, per cui nulla si deve lasciare di intentato perché si mantenga viva e si diffonda la devota consuetudine, suggerendo almeno la semplice recita di tre Ave Maria. La preghiera dell’Angelus infatti per «la struttura semplice, il carattere biblico […], il ritmo quasi liturgico, che santifica momenti diversi della giornata, l’apertura al mistero pasquale […], a distanza di secoli, conserva inalterato il suo valore e intatta la sua freschezza».[231]

«Anzi è auspicabile che, in alcune occasioni, soprattutto nelle comunità religiose, nei santuari dedicati alla beata Vergine, durante lo svolgimento di alcuni convegni, l’Angelus Domini […] venga solennizzato, ad esempio, con il canto delle Ave Maria, con la proclamazione del vangelo dell’Annunciazione»[232] e il suono delle campane.

Il «Regina cæli»

196. Nel tempo pasquale, per disposizione di papa Benedetto XIV (20 aprile 1742), al posto dell’Angelus Domini si recita la celebre antifona Regina cæli. Essa, risalente probabilmente al secolo X-XI,[233] congiunge felicemente il mistero dell’incarnazione del Verbo (Cristo, che hai portato nel grembo) con l’evento pasquale (è risorto, come aveva promesso), mentre l’”invito alla gioia” (Rallegrati), che la comunità ecclesiale rivolge alla Madre per la risurrezione del Figlio, si ricollega e dipende dall’”invito alla gioia” («Rallegrati, piena di grazia»: Lc 1, 28), che Gabriele rivolse all’umile Serva del Signore, chiamata ad essere la madre del Messia salvatore.

A guisa di quanto è stato suggerito per l’Angelus, sarà conveniente talvolta solennizzare il Regina cæli oltre che con il canto dell’antifona, con la proclamazione del vangelo della Risurrezione.

Il Rosario

197. Il Rosario o Salterio della Vergine è una delle più eccellenti preghiere alla Madre del Signore.[234] Perciò «i Sommi Pontefici hanno esortato ripetutamente i fedeli alla recita frequente del santo Rosario, preghiera di impronta biblica, incentrata sulla contemplazione degli eventi salvifici della vita di Cristo, cui fu strettamente associata la Vergine Madre. E sono anche numerose le testimonianze di Pastori e di uomini di santa vita sul valore e sull’efficacia di tale preghiera».[235]

Il Rosario è una preghiera essenzialmente contemplativa, la cui recita «esige un ritmo tranquillo e quasi un indugio pensoso, che favoriscano all’orante la meditazione dei misteri della vita del Signore».[236] E’ espressamente raccomandato nella formazione e nella vita spirituale dei chierici e dei religiosi.[237]

198. La Chiesa mostra la sua stima per la preghiera del santo Rosario proponendo un rito per la Benedizione delle corone del Rosario.[238] Tale rito rileva il carattere comunitario della preghiera rosariana; in esso la benedizione delle corone si accompagna alla benedizione di coloro che meditano i misteri della vita, morte e risurrezione del Signore, perché «possano stabilire una perfetta sintonia tra preghiera e vita».[239]

Peraltro la benedizione delle corone del Rosario potrebbe essere lodevolmente compiuta come suggerisce il Benedizionale, «con la partecipazione del popolo», in occasione dei pellegrinaggi ai santuari mariani, della celebrazione delle feste della beata Vergine, in particolare di quella del Rosario, della chiusura del mese di ottobre.[240]

199. Vengono qui dati alcuni suggerimenti che, salvaguardando, la natura propria del Rosario, possono renderne più proficua la recita.

In alcune occasioni la recita del Rosario potrà assumere un tono celebrativo: «mediante la proclamazione dei passi biblici relativi a ciascun mistero, l’esecuzione in canto di alcune parti, una saggia distribuzione dei vari ruoli, la solennizzazione dei momenti di apertura e di chiusura della preghiera».[241]

200. Per coloro che recitano una terza parte del Rosario, la consuetudine assegna a determinati giorni della settimana i vari misteri: gaudiosi (lunedì e giovedì), dolorosi (martedì e venerdì), gloriosi (mercoledì, sabato, domenica).

Questa distribuzione, se rigidamente osservata, può talvolta dar luogo a un contrasto tra il contenuto dei misteri e il contenuto liturgico del giorno: si pensi alla recitazione dei misteri dolorosi in un Natale che cada di venerdì. In questi casi si può ritenere che «la caratterizzazione liturgica di un determinato giorno prevalga sulla sua collocazione nella settimana; come pure che non sia estraneo alla natura del Rosario compiere, in particolari giorni dell’Anno liturgico, appropriate sostituzioni di misteri, che consentano di armonizzare ulteriormente il pio esercizio con il momento liturgico».[242] Così, ad esempio, agiscono correttamente i fedeli che il 6 gennaio, solennità dell’Epifania, recitano i misteri gaudiosi e quale “quinto mistero” contemplano l’adorazione dei Magi anziché il ritrovamento di Gesù dodicenne nel tempio di Gerusalemme. Ovviamente queste sostituzioni vanno operate con ponderazione, con aderenza alla Sacra Scrittura e con proprietà liturgica.

201. Per favorire la contemplazione e perché la mente concordi con la voce[243] è stato più volte suggerito dai Pastori e dagli studiosi di ripristinare l’uso della clausola, un’antica struttura rosariana peraltro mai completamente scomparsa.

La clausola, che si armonizza bene con l’indole ripetitiva e meditativa del Rosario, consiste in una proposizione relativa che segue il nome di Gesù e richiama il mistero enunciato. Una clausola corretta, fissa per ogni decina, breve nell’enunciato, aderente alla Scrittura e alla Liturgia, può costituire un valido aiuto per una recita meditativa del santo Rosario

202. «Nell’illustrare ai fedeli il valore e la bellezza della corona del Rosario si evitino espressioni che pongano in ombra altre eccellenti forme di preghiera o non tengano sufficiente conto dell’esistenza di altre corone mariane, esse pure approvate dalla Chiesa»[244], oppure che possano ingenerare un senso di colpa in chi non lo recita abitualmente: «Il Rosario è preghiera eccellente, nei riguardi della quale però il fedele deve sentirsi serenamente libero, sollecitato a recitarlo, in composta tranquillità, dalla sua intrinseca bellezza».[245]

Le Litanie della Vergine

203. Tra le forme di preghiera alla Vergine raccomandate dal Magistero vi sono le Litanie. Esse consistono essenzialmente in una prolungata serie di invocazioni rivolte alla Vergine, le quali, succedendosi l’una all’altra con ritmo uniforme, creano un flusso orante caratterizzato da una insistente lode-supplica. Le invocazioni, infatti, generalmente molto brevi, constano di due parti: la prima di lode (“Virgo clemens”), la seconda di supplica (“ora pro nobis”).

Due formulari litanici sono inseriti nei libri liturgici del Rito Romano: le Litanie lauretane, verso le quali i Romani Pontefici hanno professato ripetutamente la loro stima;[246] le Litanie per il rito di incoronazione di una immagine della beata Vergine Maria,[247] che, in alcune occasioni, possono costituire un’efficace alternativa al formulario lauretano.[248]

Una proliferazione di formulari litanici non sarebbe utile dal punto di vista pastorale;[249] come, d’altra parte, una limitazione rigorosa mostrerebbe di non tenere sufficientemente conto delle ricchezza di alcune Chiese locali o famiglie religiose. Perciò la Congregazione per il Culto Divino ha esortato a «prendere in considerazione alcuni formulari antichi o nuovi in uso presso Chiese locali o Istituti religiosi, notevoli per il rigore strutturale e la bellezza delle invocazioni».[250] Un’esortazione che, ovviamente, riguarda soprattutto ambiti locali o comunitari ben definiti.

In seguito alla prescrizione di papa Leone XIII di concludere, nel mese di ottobre, la recita del Rosario con il canto delle Litanie lauretane, si creò presso molti fedeli l’errata persuasione che le Litanie fossero una sorta di appendice del Rosario. In realtà le Litanie sono un atto cultuale a sé stante: esse possono costituire l’elemento portante di un omaggio alla Vergine, essere un canto processionale, far parte di una celebrazione della Parola di Dio o di altre strutture cultuali.

La consacrazione – affidamento a Maria

204. Percorrendo la storia della pietà si incontrano varie esperienze, personali e collettive, di “consacrazione consegna – affidamento alla Vergine” (oblatio, servitus, commendatio, dedicatio). Esse si riflettono nei manuali di preghiera e negli statuti di associazioni mariane, nei quali troviamo formule di “consacrazione” e preghiere in vista o in ricordo di essa.

Nei confronti della pia pratica della “consacrazione a Maria” non sono rare le espressioni di apprezzamento dei Romani Pontefici e sono note le formule da essi pubblicamente recitate.[251]

Un ben conosciuto maestro della spiritualità sottesa a tale pratica è san Luigi Maria Grignion de Montfort, «il quale proponeva ai cristiani la consacrazione a Cristo per le mani di Maria, come mezzo efficace per vivere fedelmente gli impegni battesimali».[252]

Alla luce del testamento di Cristo (cf. Gv 19,25-27), l’atto di “consacrazione” è infatti riconoscimento consapevole del posto singolare che occupa Maria di Nazaret nel mistero di Cristo e della Chiesa, del valore esemplare e universale della sua testimonianza evangelica, della fiducia nella sua intercessione e nell’efficacia del suo patrocinio, della molteplice funzione materna che essa svolge, quale vera madre nell’ordine della grazia,[253] in favore di tutti e di ciascuno dei suoi figli.

Si osserva tuttavia che il termine “consacrazione” è usato con una certa larghezza e improprietà: «si dice, per esempio, “consacrare i bambini alla Madonna”, quando in realtà si intende solo porre i piccoli sotto la protezione della Vergine e chiedere per essi la sua materna benedizione».[254] Si comprende anche il suggerimento proveniente da più parti di utilizzare al posto di “consacrazione” altri termini, quali “affidamento” o “donazione”. Infatti, nel nostro tempo, i progressi compiuti dalla teologia liturgica e la conseguente esigenza di un uso rigoroso dei termini suggeriscono di riservare il termine consacrazione all’offerta di se stessi che ha come termine Dio, come caratteristiche la totalità e la perpetuità, come garanzia l’intervento della Chiesa, come fondamento i sacramenti del Battesimo e della Confermazione.

In ogni caso, relativamente a tale pratica è necessario istruire i fedeli sulla sua natura. Essa, pur presentando le caratteristiche di dono totale e perenne: è solo analogica nei confronti della “consacrazione a Dio”; deve essere frutto non di un’emozione passeggera, ma di una decisione personale, libera, maturata nell’ambito di una visione esatta del dinamismo della grazia; deve essere espressa in modo corretto, in una linea, per così dire, liturgica: al Padre per Cristo nello Spirito Santo, implorando l’intercessione gloriosa di Maria, alla quale ci si affida totalmente, per osservare con fedeltà gli impegni battesimali e vivere in atteggiamento filiale nei suoi confronti; deve essere compiuta al di fuori della celebrazione del Sacrificio eucaristico, trattandosi di un gesto di devozione non assimilabile alla Liturgia: l’affidamento a Maria infatti si distingue sostanzialmente da altre forme di consacrazione liturgica.

Lo scapolare del Carmine e altri scapolari

205. Nella storia della pietà mariana si incontra la “devozione” a vari scapolari, tra cui spicca quello della beata Vergine del Monte Carmelo. La sua diffusione è veramente universale e anche ad essa si applicano senza dubbio le parole conciliari sulle pratiche e i pii esercizi «raccomandati lungo i secoli dal Magistero».[255]

Lo scapolare carmelitano è una forma ridotta dell’abito religioso dell’Ordine dei Frati della beata Vergine del Monte Carmelo: divenuto una devozione molto diffusa, anche al di là di un legame con la vita e la spiritualità della famiglia carmelitana, lo scapolare conserva con questa una sorta di sintonia.

Lo scapolare è segno esteriore del particolare rapporto, filiale e confidente, che si stabilisce tra la Vergine, Madre e Regina del Carmelo, e i devoti che si affidano a lei in totale dedizione e ricorrono pieni di fiducia alla sua materna intercessione; ricorda il primato della vita spirituale e la necessità dell’orazione.

Lo scapolare è imposto con un particolare rito della Chiesa, in cui si dichiara che esso «richiama il proposito battesimale di rivestirci di Cristo, con l’aiuto della Vergine Madre, sollecita della nostra conformazione al Verbo fatto uomo, a lode della Trinità, perché portando la veste nuziale, giungiamo alla patria del cielo».[256]

La consegna dello scapolare del Carmelo, come quella di altri scapolari, «va ricondotta alla serietà delle sue origini: non deve essere un atto più o meno improvvisato, ma il momento conclusivo di un’accurata preparazione in cui il fedele è reso consapevole della natura e degli scopi dell’associazione a cui aderisce e degli impegni di vita che assume».[257]

Le medaglie mariane

206. I fedeli amano anche portare su di sé, quasi sempre appese al collo, medaglie con l’immagine della beata Vergine Maria. Esse sono testimonianza di fede, segno di venerazione verso la santa Madre del Signore, espressione di fiducia nella sua materna protezione.

La Chiesa benedice questi oggetti di pietà mariana, ricordando che essi «servono a richiamare l’amore di Dio e ad accrescere la fiducia nella beata Vergine»,[258] ma ammonisce i fedeli a non dimenticare che la devozione alla Madre di Gesù esige soprattutto «una coerente testimonianza di vita».[259]

Tra le medaglie mariane spicca, per la sua straordinaria diffusione, la cosiddetta “medaglia miracolosa”. Essa ebbe origine dalle apparizioni della Vergine Maria, nel 1830, ad un’umile novizia delle Figlie della Carità, la futura santa Caterina Labouré. La medaglia, coniata secondo le indicazioni fornite dalla Vergine alla Santa, per il suo ricco simbolismo, è stata chiamata “microcosmo mariano”: richiama infatti il mistero della Redenzione, l’amore del Cuore di Cristo e del Cuore addolorato di Maria, la funzione mediatrice della Vergine, il mistero della Chiesa, il rapporto tra terra e cielo, vita temporale e vita eterna.

Un nuovo impulso alla diffusione della “medaglia miracolosa” è stato dato da san Massimiliano Maria Kolbe († 1941) e dai movimenti che da lui hanno avuto origine o a lui si ispirano. Nel 1917, infatti, egli adottò la “medaglia miracolosa” quale segno distintivo della Pia Unione della Milizia dell’Immacolata da lui fondata a Roma, quando era giovane religioso dei Frati Minori Conventuali.

La “medaglia miracolosa”, come le altre medaglie della Vergine e altri oggetti di culto, non è un talismano né deve condurre alla vana credulità.[260] La promessa della Vergine, secondo cui «le persone che la porteranno riceveranno grandi grazie», esige dai fedeli una adesione umile e tenace al messaggio cristiano, una preghiera perseverante e fiduciosa, una coerente condotta di vita.        

L’inno «Akathistos»

207. Venerabile inno alla Madre di Dio, detto Akathistos – ossia cantato stando in piedi -, rappresenta una tra le più alte e celebri espressioni di pietà mariana della tradizione bizantina. Capolavoro di letteratura e di teologia, racchiude in forma orante quanto la Chiesa dei primi secoli ha creduto su Maria con consenso universale. Le fonti ispiratrici dell’inno sono le sacre Scritture, la dottrina definita nei Concili ecumenici di Nicea (325), di Efeso (431) e di Calcedonia (451), la riflessione dei Padri orientali del IV e del V secolo. Solennemente celebrato nell’anno liturgico orientale il quinto sabato di Quaresima, l’Akathistos è inoltre cantato in molte altre occasioni e raccomandato alla pietà del clero, dei monaci e dei fedeli.

In anni recenti questo inno si è molto diffuso anche presso comunità e fedeli di rito latino.[261] Hanno contribuito a farlo conoscere maggiormente alcune solenni celebrazioni mariane, avvenute a Roma alla presenza del Santo Padre e con significativa risonanza ecclesiale[262]. Quest’inno antichissimo,[263] che costituisce il frutto maturo della tradizione più antica della Chiesa indivisa in onore di Maria, è appello e invocazione per l’unità dei cristiani sotto la guida della Madre del Signore: «Tanta ricchezza di lodi, accumulata dalle diverse forme della grande tradizione della Chiesa, potrebbe aiutarci a far sì che questa torni a respirare pienamente con i suoi “due polmoni”: l’Oriente e l’Occidente».[264]


 

Capitolo VI

LA VENERAZIONE PER I SANTI E I BEATI

Alcuni principi

208. Radicato nella Sacra Scrittura (cf. At 7, 54-60; Ap 6, 9-11; 7, 9-17) e attestato con certezza fin dalla prima metà del secolo II,[265] il culto dei Santi, anzitutto dei martiri, è un fatto ecclesiale antichissimo. La Chiesa infatti, sia in Oriente sia in Occidente, ha sempre venerato i Santi  e quando, soprattutto nell’epoca in cui è nato il protestantesimo, sono state mosse obiezioni contro alcuni aspetti tradizionali di tale venerazione, essa l’ha strenuamente difesa, e ne ha illustrato i fondamenti teologici nonché la connessione con la dottrina della fede; ha disciplinato la prassi cultuale nelle espressioni sia liturgiche sia popolari e ha sottolineato il valore esemplare della testimonianza di questi insigni discepoli e discepole del Signore in ordine a una genuina vita cristiana,

209. La Costituzione Sacrosanctum Concilium, nel capitolo dedicato all’Anno liturgico, illustra efficacemente il fatto ecclesiale e il significato della venerazione dei Santi e Beati: «La Chiesa ha inserito nel corso dell’anno anche la memoria dei Martiri e degli altri Santi che, giunti alla perfezione con l’aiuto della multiforme grazia di Dio, e già in possesso della salvezza eterna, in cielo cantano a Dio la lode perfetta e intercedono per noi. Nel loro giorno natalizio infatti la Chiesa proclama il mistero pasquale realizzato nei Santi che hanno sofferto con Cristo e con lui sono glorificati; propone ai fedeli i loro esempi che attraggono tutti al Padre per mezzo di Cristo; e implora per i loro meriti i benefici di Dio».[266]

210. Una corretta intelligenza della dottrina della Chiesa sui Santi è possibile solo nell’ambito più vasto degli articoli di fede riguardanti:

– la «Chiesa una, santa, cattolica e apostolica»,[267] santa cioè per la presenza in essa di «Gesù Cristo, il quale con il Padre e lo Spirito Santo è proclamato “il solo santo”»;[268] per l’incessante azione dello Spirito di santità;[269] perché dotata di mezzi di santificazione. La Chiesa dunque, pur comprendendo nel suo seno i peccatori, è «già sulla terra adornata di una vera santità, anche se imperfetta»;[270] essa è il «popolo santo di Dio»,[271] i cui membri, secondo la testimonianza delle Scritture, sono chiamati “santi” (cf. At 9,13; 1 Cor 6,1; 16,1).

– La «comunione dei santi»,[272] per cui la Chiesa del cielo, quella che attende la purificazione finale «nello stato chiamato Purgatorio»[273] e quella pellegrina sulla terra comunicano «nella stessa carità di Dio e del prossimo»;[274] infatti, tutti quelli che sono di Cristo, avendo il suo Spirito, formano una sola Chiesa e sono uniti in lui.

– La dottrina dell’unica mediazione di Cristo (cf. 1 Tm 2,5), che tuttavia non esclude altre mediazioni subordinate, le quali si esercitano peraltro all’interno dell’onnicomprensiva mediazione di Cristo.[275]

211. La dottrina della Chiesa e la sua Liturgia propongono i Santi e i Beati, che contemplano già «chiaramente Dio uno e trino»,[276] quali:

– testimoni storici della vocazione universale alla santità; essi, frutto eminente della redenzione di Cristo, sono prova e documento che Dio, in tutti i tempi e presso tutti i popoli, nelle più svariate condizioni socio-culturali e nei vari stati di vita, chiama i suoi figli a raggiungere la perfetta statura di Cristo (cf. Ef 4,13; Col 1,28);

– discepoli insigni del Signore e quindi modelli di vita evangelica;[277] nei processi di canonizzazione la Chiesa riconosce l’eroicità delle loro virtù e quindi li propone alla nostra imitazione;

– cittadini della Gerusalemme celeste, che cantano senza fine la gloria e la misericordia di Dio; in essi infatti si è già compiuto il passaggio pasquale da questo mondo al Padre;

– intercessori ed amici dei fedeli ancora pellegrini sulla terra, perché i Santi, pur immersi nella beatitudine di Dio, conoscono gli affanni dei loro fratelli e sorelle e accompagnano il loro cammino con la preghiera e il patrocinio;

– patroni di Chiese locali, di cui spesso furono fondatori (sant’Eusebio di Vercelli) o Pastori illustri (sant’Ambrogio di Milano); di nazioni: apostoli della loro conversione alla fede cristiana (san Tommaso e san Bartolomeo, per l’India) o espressione della loro identità nazionale (san Patrizio, per l’Irlanda); di corporazioni e professioni (sant’Omobono, per i sarti); in circostanze particolari – nell’ora del parto (sant’Anna, san Raimondo Nonato), della morte (san Giuseppe) – e per ottenere specifiche grazie (santa Lucia per la conservazione della vista), eccetera.

Tutto ciò la Chiesa confessa allorché, riconoscente a Dio Padre, proclama: «Nella vita dei Santi ci offri un esempio, nell’intercessione un aiuto, nella comunione di grazia un vincolo di amore fraterno».[278]

212. Occorre infine ribadire che scopo ultimo della venerazione dei Santi è la gloria di Dio e la santificazione dell’uomo attraverso una vita pienamente conforme alla volontà divina e l’imitazione delle virtù di coloro che furono eminenti discepoli del Signore.

Perciò nella catechesi e in altri momenti della trasmissione della dottrina si dovrà insegnare ai fedeli che: il nostro rapporto con i Santi deve essere concepito alla luce della fede, non deve oscurare «il culto latreutico, dato a Dio Padre mediante Cristo nello Spirito, ma, anzi lo intensifica»; «il culto autentico dei Santi non consiste tanto nella molteplicità degli atti esteriori quanto piuttosto nell’intensità del nostro amore attivo», che si traduce in impegno di vita cristiana.[279]

I Santi Angeli

213. Con il chiaro e sobrio linguaggio della catechesi, la Chiesa insegna che «l’esistenza degli esseri spirituali, incorporei, che la Sacra Scrittura chiama abitualmente Angeli, è una verità di fede. La testimonianza della Scrittura è tanto chiara quanto l’unanimità della Tradizione».[280]

Secondo la Scrittura gli Angeli sono messaggeri di Dio, «potenti esecutori dei suoi comandi, pronti alla voce della sua parola» (Sal 103, 20), posti al servizio del suo disegno salvifico, «inviati per servire coloro che devono ereditare la salvezza» (Eb 1, 14).

214. I fedeli non ignorano i numerosi episodi dell’Antica e della Nuova Alleanza in cui intervengono i santi Angeli. Sanno che gli Angeli chiudono le porte del paradiso terrestre (cf. Gn 3, 24), salvano Agar e il suo bambino Ismaele (cf. Gn 21, 17), trattengono la mano di Abramo che sta per sacrificare Isacco (cf. Gn 22, 11), annunciano nascite prodigiose (cf. Gdc 13, 3-7), custodiscono i passi del giusto (cf. Sal 91, 11), lodano incessantemente il Signore (cf. Is 6, 1-4) e presentano a Dio le preghiere dei Santi (cf. Ap 8, 3-4). Ricordano pure l’intervento di un Angelo in favore del profeta Elia, fuggiasco e stremato (cf. 1Re 19, 4-8), di Azaria e dei suoi compagni gettati nella fornace (cf. Dn 3, 49-50), di Daniele chiuso nella fossa dei leoni (cf. Dn 6, 23); ad essi è familiare la storia di Tobia, in cui Raffaele, «uno dei sette Angeli che sono sempre pronti ad entrare alla presenza della maestà del Signore» (Tb 12, 15), compie molteplici servizi in favore di Tobi, di suo figlio Tobia e di Sara, la moglie di questi.

I fedeli sanno pure che non sono pochi gli episodi della vita di Gesù in cui gli Angeli svolgono un particolare ruolo: l’Angelo Gabriele annuncia a Maria che concepirà e darà alla luce il Figlio dell’Altissimo (cf. Lc 1, 26-38) e, similmente, un Angelo svela a Giuseppe l’origine soprannaturale della maternità della Vergine (cf. Mt 1, 18-25); gli Angeli recano ai pastori di Betlemme la lieta notizia della nascita del Salvatore (cf. Lc 2, 8-14); l’«Angelo del Signore» protegge la vita del Bambino Gesù minacciata da Erode (cf. Mt 2, 13-20); gli Angeli assistono Gesù nel deserto (cf. Mt 4, 11) e lo confortano nell’agonia (cf. Lc 22, 43), annunciano alle donne recatesi alla tomba di Cristo che egli «è risorto» (cf. Mc 16, 1-8) e intervengono ancora nell’ascensione per rivelarne ai discepoli il senso e per annunciare che «Gesù… tornerà un giorno allo stesso modo in cui l’avete visto andare in cielo» (At 1, 11).

Ai fedeli non sfugge l’importanza dell’ammonimento di Gesù di non disprezzare uno solo dei piccoli che credono in lui, «perché i loro Angeli nel cielo vedono sempre la faccia del Padre» (Mt 18, 10), e della consolante parola secondo cui «c’è gioia davanti agli Angeli di Dio per un solo peccatore che si converte» (Lc 15, 10). Essi, infine, sanno che «il Figlio dell’uomo verrà nella sua gloria con tutti i suoi Angeli» (Mt 25, 31) per giudicare i vivi e i morti e dare compimento alla storia.

215. La Chiesa, che nei suoi primordi fu custodita e difesa dal ministero degli Angeli (cf. At 5, 17-20; 12, 6-11) e costantemente ne sperimenta «l’aiuto misterioso e potente»,[281] venera questi spiriti celesti e fiduciosa ne sollecita l’intercessione.

Nel corso dell’anno liturgico la Chiesa commemora la partecipazione degli Angeli agli eventi della salvezza,[282] e ne celebra la memoria in alcuni giorni particolari: il 29 settembre quella degli Arcangeli Michele, Gabriele e Raffaele, il 2 ottobre quella degli Angeli Custodi; ad essi dedica una Messa votiva, il cui prefazio proclama che «la gloria di Dio risplende negli Angeli»;[283] nella celebrazione dei divini misteri si associa al canto degli Angeli per proclamare la gloria del Dio tre volte santo (cf. Is 6, 3)[284] e invoca la loro assistenza perché l’offerta eucaristica «sia portata sull’altare del cielo, davanti alla […] maestà divina»;[285] alla loro presenza celebra l’ufficio di lode (cf. Sal 137, 1);[286]al ministero degli Angeli affida le preghiere dei fedeli (cf. Ap 5, 8; 8, 3), il dolore dei penitenti,[287] la difesa degli innocenti contro gli assalti del Maligno;[288] implora Dio perché mandi, al termine della giornata, i suoi Angeli a custodire gli oranti nella pace;[289] prega perché gli spiriti celesti vengano in soccorso degli agonizzanti[290] e, nel rito delle esequie, supplica perché gli Angeli accompagnino in paradiso l’anima del defunto[291] e custodiscano il suo sepolcro.

216. Lungo i secoli i fedeli hanno tradotto in espressioni di pietà i convincimenti della fede riguardo al ministero degli Angeli: li hanno assunti come patroni di città e protettori di corporazioni; in loro onore hanno innalzato celebri santuari come Mont-Saint-Michel in Normandia, san Michele della Chiusa in Piemonte e san Michele al Gargano in Puglia, e stabilito giorni festivi; hanno composto inni e pii esercizi.

In particolare la pietà popolare ha sviluppato la devozione all’Angelo Custode. Già san Basilio Magno († 379) insegnava che «ogni fedele ha al proprio fianco un Angelo come protettore e pastore, per condurlo alla vita».[292] Questa antica dottrina andò via via consolidandosi nei suoi fondamenti biblici e patristici, e diede origine a varie espressioni di pietà, fino a trovare in san Bernardo di Chiaravalle († 1153) un grande maestro e un apostolo insigne della devozione agli Angeli Custodi. Per lui essi sono dimostrazione «che il cielo non trascura nulla che ci possa giovare», per cui ci mette «a fianco quegli spiriti celesti perché ci proteggano, ci istruiscano e ci guidino».[293]

La devozione agli Angeli Custodi dà luogo anche a uno stile di vita caratterizzato da:

– devota gratitudine a Dio, che ha posto al servizio degli uomini spiriti di così grande santità e dignità;

– atteggiamento di compostezza e pietà, suscitato dalla consapevolezza di essere costantemente alla presenza dei santi Angeli;

– serena fiducia nell’affrontare situazioni anche difficili, perché il Signore guida e assiste il fedele nella via della giustizia anche attraverso il ministero degli Angeli.

Tra le preghiere all’Angelo Custode è particolarmente diffusa l’orazione Angele Dei,[294] che presso molte famiglie fa parte delle preghiere del mattino e della sera e che, in molti luoghi, accompagna pure la recita dell’Angelus Domini.

217. La pietà popolare verso i santi Angeli, legittima e salutare, può tuttavia dare luogo a deviazioni, ad esempio:

– se, come talvolta accade, subentra nell’animo dei fedeli una concezione erronea per cui ritengono il mondo e la vita come sottoposti a tensioni demiurgiche, alla lotta incessante tra spiriti buoni  e spiriti cattivi, tra gli Angeli e i demoni, nella quale l’uomo viene travolto da potenze a lui superiori, nei confronti delle quali egli non può fare nulla; questa concezione, in quanto deresponsabilizza il fedele, non corrisponde alla genuina visione evangelica della lotta contro il Maligno, che esige dal discepolo di Cristo impegno morale, opzione per il Vangelo, umiltà e preghiera;

– se le vicende quotidiane della vita vengono lette in modo schematico e semplicistico, quasi infantile, attribuendo al Maligno anche le minime contraddizioni, e per contro, all’Angelo Custode successi e realizzazioni, le quali poco o nulla hanno a che vedere con il progresso dell’uomo nel suo cammino verso il raggiungimento della maturità di Cristo. E’ da riprovare anche l’uso di dare agli Angeli nomi particolari, eccetto Michele, Gabriele e Raffaele che sono contenuti nella Scrittura.

San Giuseppe

218. Iddio nella sua provvidente sapienza, per attuare il piano della salvezza, assegnò a Giuseppe di Nazaret, «uomo giusto» (cf. Mt 1, 19), sposo della Vergine Maria (cf. ibid.; Lc 1, 27), una missione di particolare importanza: introdurre legalmente Gesù nella stirpe di Davide da cui, secondo la promessa (cf. 2 Sam 7, 5-16; 1Cr 17, 11-14), doveva nascere il Messia Salvatore, e fungere da padre e da custode nei suoi confronti.

In virtù di questa missione san Giuseppe intervenne attivamente nei misteri dell’infanzia del Salvatore: ebbe da Dio la rivelazione dell’origine divina della maternità di Maria (cf. Mt 1, 20-21) e fu testimone privilegiato della nascita di Gesù a Betlemme (cf. Lc 2, 6-7), dell’adorazione dei pastori (cf. Lc 2, 15-16) e dell’omaggio dei Magi venuti dall’Oriente (cf. Mt 2, 11); compì il suo dovere religioso nei confronti del Bambino, introducendolo con la circoncisione nell’alleanza di Abramo (cf. Lc 2, 21) e imponendogli il nome di Gesù (cf. Mt 1, 21); secondo le prescrizioni della Legge, presentò il Bambino al Tempio, lo riscattò con l’offerta dei poveri (cf. Lc 2, 22-24; Es 13, 2.12-13) e, pieno di stupore, ascoltò il cantico profetico di Simeone (cf. Lc 2, 25-33); protesse la Madre e il Figlio dalla persecuzione di Erode riparando in Egitto (cf. Mt 2, 13-23); si recava ogni anno a Gerusalemme con la Madre e il Bambino per la festa di Pasqua e partecipò, sgomento, alla vicenda dello smarrimento di Gesù, dodicenne, nel Tempio (cf. Lc 2, 43-50); visse nella casa di Nazaret, esercitando la sua autorità paterna nei confronti di Gesù, che gli era sottomesso (cf. Lc 2, 51), istruendolo nella Legge e nell’esercizio del mestiere di falegname.

219. Lungo i secoli, soprattutto i recenti, la riflessione ecclesiale ha messo in luce le virtù di san Giuseppe, tra le quali rifulgono: la fede, che in lui si tradusse in adesione piena e coraggiosa al progetto salvifico di Dio; l’obbedienza solerte e silenziosa alle manifestazioni della sua volontà; l’amore e l’osservanza fedele della Legge, la pietà sincera, la fortezza nelle prove; l’ amore verginale verso Maria, il doveroso esercizio della paternità, il nascondimento operoso.

220. La pietà popolare comprende la validità e l’universalità del patrocinio di san Giuseppe, «alla cui premurosa custodia Dio ha voluto affidare gli inizi della nostra redenzione»[295] e i «suoi tesori più preziosi».[296] Al patrocinio di san Giuseppe si affidano: l’intera Chiesa, che il Beato Pio IX volle posta sotto la speciale protezione del santo Patriarca;[297] coloro che si consacrano a Dio scegliendo il celibato per il Regno dei cieli (cf. Mt 19, 12): essi «in san Giuseppe hanno […] un tipo e un difensore della integrità verginale»;[298] gli operai e gli artigiani, dei quali l’umile carpentiere di Nazaret è ritenuto singolare modello;[299] i moribondi, perché secondo una pia credenza, san Giuseppe fu assistito, nell’ora del suo transito, da Gesù e da Maria.[300]

221. La Liturgia, celebrando i misteri della vita del Salvatore, soprattutto quelli della nascita e dell’infanzia, commemora spesso la figura e il ruolo di san Giuseppe: nel tempo di Avvento;[301] nel tempo di Natale, in particolare nella festa della Santa Famiglia; nella solennità del 19 marzo; nella memoria del 1° maggio.

Il nome di san Giuseppe ricorre nel Communicantes del Canone Romano e nelle Litanie dei Santi.[302] Nella Raccomandazione dei moribondi è suggerita l’invocazione del santo Patriarca[303] e, nella stessa circostanza, la comunità prega perché l’anima del moribondo, partita da questo mondo, trovi dimora «nella pace della santa Gerusalemme con la Vergine Maria, Madre di Dio, con san Giuseppe, con tutti gli Angeli e i Santi».[304]

222. Anche nella pietà popolare la venerazione di san Giuseppe occupa largo spazio: in numerose espressioni di genuino folklore; nella consuetudine, stabilitasi almeno fino dal secolo XVII, di dedicare il mercoledì al culto di san Giuseppe, consuetudine alla quale si richiamano alcuni pii esercizi come i Sette mercoledì in onore di lui; nelle pie invocazioni che fioriscono sulle labbra dei fedeli;[305] in formule di preghiera, quale quella composta da papa Leone XIII, Ad te, beate Ioseph, che non pochi fedeli recitano quotidianamente;[306] nelle Litanie di san Giuseppe, approvate da S. Pio X;[307] nel pio esercizio della corona delle Sette angosce e sette allegrezze di san Giuseppe.

223. Il fatto che la solennità di san Giuseppe (19 marzo) cada in Quaresima, in cui la Chiesa è tutta intesa alla preparazione battesimale e alla memoria della Passione del Signore, determina qualche difficoltà di armonizzazione tra Liturgia e pietà popolare. Pertanto, le tradizionali pratiche del “mese di san Giuseppe” saranno sintonizzate con il tempo liturgico dell’Anno. Il rinnovamento liturgico, infatti, ha approfondito nei fedeli la coscienza del significato del periodo quaresimale. Operati i dovuti accomodamenti nelle espressioni della pietà popolare, è peraltro da favorire e diffondere la devozione a san Giuseppe, avendone costantemente presente l’«insigne esempio […], che supera i singoli stati di vita e si propone all’intera comunità cristiana, quali che siano in essa la condizione e i compiti di ciascun fedele».[308]

San Giovanni Battista

224. Sul confine tra l’Antico e il Nuovo Testamento si staglia la figura di Giovanni, figlio di Zaccaria ed Elisabetta, ambedue «giusti davanti a Dio» (Lc 1, 6), uno dei più grandi personaggi della storia della salvezza. Rinchiuso ancora nel grembo della madre, Giovanni riconobbe il Salvatore, anch’egli nascosto nel grembo della Vergine Maria (cf. Lc 1, 39-45); la sua nascita fu segnata da grandi prodigi (cf. Lc 1, 57-66); crebbe nel deserto, conducendo una vita austera e penitente (cf. Lc 1, 80; Mt 3, 4); «profeta dell’Altissimo»(Lc 1, 76), su di lui scese la parola di Dio (cf. Lc 3, 2); «percorse tutta la regione del Giordano, predicando un battesimo di conversione per il perdono dei peccati» (Lc 3, 3);  come nuovo Elia, umile e forte, preparò al Signore un popolo ben disposto (cf. Lc 1, 17); secondo il progetto di Dio, battezzò, nelle acque del Giordano, lo stesso Salvatore del mondo (cf. Mt 3, 13-16); ai suoi discepoli indicò Gesù come l’«Agnello di Dio» (Gv 1, 29), come il «Figlio di Dio» (Gv 1, 34), come lo Sposo della nuova comunità messianica (cf. Gv 3, 28-30); per la eroica testimonianza resa alla verità (cf. Gv 5, 33), fu imprigionato da Erode e da lui fatto decapitare (cf Mc 6, 14-29), divenendo così precursore del Signore nella morte violenta, come lo era stato nella nascita prodigiosa e nella predicazione profetica. Di lui Gesù tessè un grandioso elogio, proclamando che «tra i nati di donna non c’è nessuno più grande di Giovanni» (Lc 7, 28).

225. Fin dall’antichità il culto di san Giovanni è presente nel mondo cristiano, dove presto ha assunto anche connotazioni popolari. Oltre alla celebrazione nel giorno della morte (29 agosto), come normalmente per tutti i Santi, solo di san Giovanni Battista, come di Cristo e della santa Vergine, si celebra solennemente la nascita (24 giugno).

Per la parte che Giovanni ebbe nel battesimo di Gesù, a lui sono dedicati molti battisteri e la sua figura di battezzatore è presso molti fonti battesimali; per la sua dura prigionia e per la morte violenta, è patrono di coloro che gemono nel carcere, condannati a morte o a dura pena per la fede.

Con ogni probabilità la data della nascita di san Giovanni (24 giugno) fu fissata in dipendenza da quelle del concepimento di Cristo (25 marzo) e della sua nascita (25 dicembre): secondo il segno dato dall’angelo Gabriele, quando Maria concepì il Salvatore, la madre del Precursore era già al sesto mese di gravidanza (cf. Lc 1, 26. 36). In ogni caso la solennità del 24 giugno è legata al ciclo solare, nell’emisfero nord. Essa si celebra infatti quando il sole, volgendosi verso il sud dello zodiaco, comincia a calare: fatto che diventa simbolo della figura di Giovanni che, riferendosi a Cristo, dichiarò: «Egli deve crescere e io invece diminuire» (Gv 3, 30).

La missione di Giovanni, venuto per rendere testimonianza alla luce (cf. Gv 1, 7), ha dato origine o ha dato un senso cristiano ai falò che si accendono la notte del 23 giugno: la Chiesa li benedice implorando che i fedeli, oltrepassata la tenebra del mondo, giungano a Dio, «luce indefettibile».[309]

Il culto tributato a Santi e Beati

226. Il reciproco influsso tra Liturgia e pietà popolare diviene notevole e particolarmente intenso nelle manifestazioni di culto tributate ai Santi e ai Beati. Sembra pertanto opportuno ricordare in modo sintetico le principali forme di venerazione che la Chiesa rende ai Santi nella Liturgia: esse infatti devono illuminare e guidare le espressioni della pietà popolare.

La celebrazione dei Santi

227. La celebrazione di una festa in onore di un Santo – quanto si riferisce ai Santi si applica, servatis servandis, anche ai Beati – è senza dubbio un’espressione eminente del culto che la comunità ecclesiale gli rende: implica in molti casi la celebrazione stessa dell’Eucaristia. La determinazione del “giorno della festa” è un fatto cultuale rilevante, talvolta complesso, perché ad essa concorrono fattori storici, liturgici e culturali di non facile armonizzazione.

Nella Chiesa di Roma e in altre Chiese locali la celebrazione della memoria dei martiri nell’anniversario del giorno della loro passione, cioè della loro massima assimilazione a Cristo e della loro nascita al cielo,[310] e, successivamente, la celebrazione del conditor Ecclesiae, dei Vescovi che l’avevano retta e di altri insigni confessori della fede nonché della ricorrenza annuale della dedicazione della chiesa cattedrale, condusse progressivamente alla formazione di calendari locali, dove venivano registrati il luogo e la data della morte dei singoli Santi o di gruppi di essi.

Dai calendari particolari derivarono presto i martirologi generali, quali il Martirologio siriaco (sec. V), il Martyrologium Hieronymianum (sec. VI), quello di san Beda (sec. VIII), di Lione (sec. IX), di Usardo (sec. IX), di Adone (sec. IX).

Il 14 gennaio 1584, Gregorio XIII promulgò l’edizione tipica del Martyrologium Romanum, destinata all’uso liturgico. Giovanni Paolo II ne ha promulgato la prima edizione tipica dopo il Concilio Vaticano II,[311] la quale, richiamandosi alla tradizione romana e incorporando i dati dei vari martirologi storici, raccoglie i nomi di molti Santi e Beati, e costituisce una testimonianza straordinariamente ricca della multiforme santità che lo Spirito del Signore suscita nella Chiesa di tutti i tempi e di tutti i luoghi.

228. Intimamente connessa con la storia del Martirologio è quella del Calendario Romano, che indica il giorno e il grado delle celebrazioni in onore dei Santi.

Attualmente il Calendario Romano Generale[312] registra solo, secondo la norma data dal Concilio Vaticano II, le memorie dei «Santi di importanza veramente universale»,[313] lasciando ai calendari particolari, che siano nazionali, regionali, diocesani, delle famiglie religiose, la segnalazione delle memorie degli altri Santi.

È conveniente ricordare qui la ragione della riduzione del numero delle celebrazioni dei Santi e tenerla nel debito conto nella prassi pastorale: essa è stata operata perché «le feste dei Santi non abbiano a prevalere sulle feste che commemorano i misteri della salvezza».[314] Nel corso dei secoli, infatti, «la moltiplicazione delle feste, delle vigilie e delle ottave, e anche la complicazione progressiva delle diverse parti dell’anno liturgico» avevano «spesso portato i fedeli a devozioni particolari, così da dare l’impressione di scostarsi alquanto dai misteri fondamentali della redenzione divina».[315]

229. Dalla riflessione sui fatti che hanno determinato l’origine, lo sviluppo e le varie revisioni del Calendario Romano Generale derivano alcune indicazioni di sicura utilità pastorale:

– è necessario istruire i fedeli sul legame esistente tra le feste dei Santi e la celebrazione del mistero di Cristo. Infatti le feste dei Santi, ricondotte alla loro intima ragione di essere, mettono in luce realizzazioni concrete del disegno salvifico di Dio e «proclamano le meraviglie di Cristo nei suoi servi»;[316] le feste delle membra, i Santi, sono in definitiva feste del Capo, Cristo;

– è conveniente abituare i fedeli a discernere il valore e il significato delle feste di quei Santi e di quelle Sante che hanno avuto una missione particolare nella storia della salvezza e un rapporto singolare con il Signore Gesù, quali san Giovanni Battista (24 giugno), san Giuseppe (19 marzo), i santi Pietro e Paolo (29 giugno), gli altri Apostoli e i santi Evangelisti, sante Maria di Magdala (22 luglio) e Marta di Betania (29 luglio),  santo Stefano (26 dicembre);

– è opportuno che i fedeli siano esortati a prediligere le feste dei Santi che hanno svolto un ruolo di grazia nei confronti della Chiesa particolare, come i Patroni o quelli che per primi hanno annunciato all’antica comunità la Buona Novella;

– è utile infine che ai fedeli venga convenientemente illustrato il criterio di “universalità” dei Santi iscritti nel Calendario Generale, come il significato del grado della loro celebrazione  liturgica: solennità, festa e memoria (obbligatoria o facoltativa).

Il giorno della festa

230. Il giorno della festa del Santo riveste una grande importanza dal punto di vista sia della Liturgia sia della pietà popolare. In un medesimo breve spazio di tempo, numerose espressioni cultuali ora liturgiche ora popolari concorrono, non senza il rischio di qualche conflittualità, a configurare il “giorno del Santo”.

Le eventuali conflittualità devono essere risolte alla luce delle norme del Messale Romano e del Calendario Romano Generale sul grado della celebrazione del Santo o del Beato, stabilito secondo il suo rapporto con la comunità cristiana (Patrono principale del luogo, Titolo della chiesa, Fondatore di una famiglia religiosa o suo Patrono principale); sulle condizioni da rispettare riguardo all’eventuale trasferimento della festa alla domenica, sulla celebrazione delle feste dei Santi in alcuni tempi particolari dell’Anno liturgico.[317]

Tali norme devono essere osservate non solo come forma di ossequio all’autorità liturgica della Sede Apostolica, ma soprattutto come espressione di rispetto verso il mistero di Cristo e di coerenza con lo spirito della Liturgia.

In particolare è necessario evitare che le ragioni che hanno determinato lo spostamento della data di alcune feste di Santi o di Beati – ad esempio, dalla Quaresima al Tempo ordinario – vengano vanificate nella prassi pastorale: celebrare in ambito liturgico la festa di un Santo secondo la nuova data e continuare a celebrarla, nell’ambito della pietà popolare, secondo la data precedente, non solo incrina gravemente l’armonia tra Liturgia e pietà popolare, ma, dando luogo a un duplicato, genera confusione e disorientamento.

231. È necessario che la festa del Santo sia accuratamente preparata e celebrata dal punto di vista liturgico e pastorale.

Ciò comporta anzitutto una corretta presentazione della finalità pastorale del culto ai Santi, vale a dire la glorificazione di Dio, «mirabile nei suoi Santi»,[318] e l’impegno di condurre una vita modellata sull’insegnamento e l’esempio di Cristo, del cui Corpo mistico i Santi sono membra eminenti.

E richiede altresì una corretta presentazione della figura del Santo. Secondo un sano indirizzo della nostra epoca, tale presentazione si soffermerà non tanto sugli elementi leggendari che talora avvolgono la vita del Santo né sul suo potere taumaturgico, quanto sul valore della sua personalità cristiana, sulla grandezza della sua santità e l’efficacia della testimonianza evangelica, sul carisma personale con cui arricchì la vita della Chiesa.

232. Il “giorno del Santo” ha anche una grande valenza antropologica: è giorno di festa. E la festa – è noto – risponde a una necessità vitale dell’uomo, affonda le sue radici nell’aspirazione alla trascendenza. Attraverso manifestazioni di gioia e di giubilo la festa è affermazione del valore della vita e della creazione. In quanto interruzione della monotonia del quotidiano, delle forme convenzionali, dell’asservimento alla necessità del guadagno, la festa è espressione di libertà integra, di tensione verso la felicità piena, di esaltazione della pura gratuità. In quanto testimonianza culturale, essa mette in luce il genio peculiare di un popolo, i suoi valori caratteristici, le espressioni più genuine del suo folklore. In quanto momento di socializzazione, la festa è occasione di dilatazione dei rapporti familiari e di apertura a nuove relazioni comunitarie.

233. Ma non sono pochi gli elementi che insidiano la genuinità della “festa del Santo” dal punto di vista sia religioso sia antropologico.

Dal punto di vista religioso, la “festa del Santo” o la “festa patronale” di una parrocchia, dove essa è svuotata del contenuto specificamente cristiano che ne era all’origine – l’onore reso a Cristo in uno dei suoi membri –, appare trasformata in una manifestazione meramente sociale o folkloristica e, nel migliore dei casi, in un’occasione favorevole di incontro e di dialogo tra i membri di una stessa comunità.

Dal punto di vista antropologico, si noti che non di rado accade che gruppi o singoli individui, credendo di “far festa”, in realtà, per i comportamenti che assumono, si allontanano dal suo genuino significato. La festa infatti è partecipazione dell’uomo alla signoria di Dio sulla creazione e al suo “riposo” attivo, non ozio sterile; è manifestazione di gioia semplice e comunicabile, non sete smisurata di piacere egoistico; è espressione di vera libertà, non ricerca di forme di divertimento ambiguo, che creano nuove e sottili forme di schiavitù. Con sicurezza si può affermare: la trasgressione della norma etica non solo contraddice la legge del Signore, ma reca una ferita al tessuto antropologico della festa.

Nella celebrazione dell’Eucaristia

234. Il giorno della festa di un Santo o di un Beato non è tuttavia l’unica forma in cui essi sono presenti nella Liturgia. La celebrazione dell’Eucaristia costituisce un momento singolare di comunione con i Santi del cielo.

Nella Liturgia della Parola le letture dell’Antico Testamento ci presentano spesso le figure dei grandi patriarchi, dei profeti e di altre persone insigni per le loro virtù e per l’amore alla legge del Signore. Le letture poi del Nuovo Testamento hanno frequentemente per protagonisti gli Apostoli e altri Santi e Sante che godettero della familiarità e amicizia del Signore. Inoltre la vita di alcuni Santi rispecchia talmente alcune pagine del Vangelo che la sola proclamazione di esse richiama la loro figura.

Il rapporto costante tra Sacra Scrittura e agiografia cristiana ha dato luogo, nell’ambito stesso della celebrazione eucaristica, alla formazione di un insieme di Comuni, in cui sono organicamente proposte le pagine bibliche che illuminano la vita dei Santi. In riferimento a questo stretto rapporto è stato osservato che la Sacra Scrittura orienta e segna il cammino dei Santi verso la pienezza della carità e questi, a loro volta, sono esegesi vivente della Parola.

Nella Liturgia eucaristica i Santi sono menzionati in momenti vari. Nell’offerta del sacrificio si ricordano «i doni di Abele, il giusto, il sacrificio di Abramo, nostro padre nella fede, e l’oblazione pura e santa di Melchisedech».[319] E la stessa prece eucaristica diventa momento e spazio per esprimere la nostra comunione con i Santi, per venerarne la memoria e per chiedere la loro intercessione, poiché «in comunione con tutta la Chiesa, ricordiamo e veneriamo anzitutto la gloriosa e sempre vergine Maria, Madre del nostro Dio e Signore Gesù Cristo, san Giuseppe, suo sposo, i santi Apostoli e martiri: Pietro e Paolo, Andrea […] e tutti i Santi; per i loro meriti e le loro preghiere donaci sempre aiuto e protezione».[320]

Nelle Litanie dei Santi

235. Con il canto delle Litanie dei Santi, struttura liturgica agile, semplice, popolare, attestata in Roma fin dagli inizi del secolo VII,[321] la Chiesa invoca i Santi in alcune grandi celebrazioni sacramentali e in altri momenti in cui si fa più fervida la sua implorazione: nella Veglia pasquale, prima di benedire il fonte battesimale; nella celebrazione del battesimo; nel conferimento dell’ordine sacro dell’episcopato, del presbiterato e del diaconato; nel rito della consacrazione delle vergini e nella professione religiosa; nella dedicazione della chiesa e dell’altare; nelle rogazioni, nelle messe stazionali e nelle processioni penitenziali; quando vuole allontanare il Maligno negli esorcismi e quando affida i moribondi alla misericordia di Dio.

Le Litanie dei Santi, in cui appaiono elementi provenienti dalla tradizione liturgica insieme con altri di origine popolare, sono espressione della fiducia della Chiesa nell’intercessione dei Santi e della sua esperienza nella comunione di vita tra la Chiesa della Gerusalemme celeste e la Chiesa ancora pellegrina nella città terrena. I nomi dei Beati, che sono iscritti nei Calendari liturgici di diocesi e Istituti religiosi, possono essere invocati nelle Litanie dei Santi[322]. Ovviamente non sono da inserire nelle Litanie i nomi di personaggi che non hanno il riconoscimento del culto.

Le reliquie dei Santi

236. Il Concilio Vaticano II  ricorda che «la Chiesa, secondo la tradizione, venera i Santi e tiene in onore le loro reliquie autentiche e le loro immagini».[323] L’espressione “reliquie dei Santi” indica anzitutto i corpi – o parti notevoli di essi – di quanti, vivendo ormai nella patria celeste, furono su questa terra, per la santità eroica della vita, membra insigni del Corpo mistico di Cristo e tempio vivo dello Spirito Santo (cf. 1 Cor 3, 16; 6, 19; 2 Cor 6, 16).[324] Poi, oggetti che appartennero ai Santi, come suppellettili, vesti, e manoscritti, e oggetti che sono stati messi a contatto con i loro corpi o i loro sepolcri, quali olï, panni di lino (brandea), ed anche con immagini venerate.

237. Il rinnovato Messale Romano ribadisce la validità dell’«uso di collocare sotto l’altare da dedicare le reliquie dei Santi, anche se non martiri».[325] Poste sotto l’altare, le reliquie indicano che il sacrificio delle membra trae origine e significato dal sacrificio del Capo,[326] e sono espressione simbolica della comunione nell’unico sacrificio di Cristo di tutta la Chiesa, chiamata a testimoniare, anche con il sangue, la propria fedeltà al suo Sposo e Signore.

A questa espressione cultuale, eminentemente liturgica, se ne aggiungono molte altre di indole popolare. I fedeli infatti amano le reliquie. Ma una pastorale illuminata sulla venerazione dovuta ad esse non trascurerà di:

– assicurarsi della loro autenticità; là, dove essa sia dubbia, le reliquie dovranno, con la dovuta prudenza, essere ritirate dalla venerazione dei fedeli;[327]

– impedire l’eccessivo frazionamento delle reliquie, non consono alla dignità del corpo umano; le norme liturgiche, infatti, avvertono che le reliquie devono essere «di grandezza tale da lasciare intendere che si tratta di parti del corpo umano»;[328]

– ammonire i fedeli a non lasciarsi prendere dalla mania di collezionare reliquie; ciò nel passato ha avuto talvolta conseguenze deprecabili;

– vigilare perché sia evitata ogni frode, ogni forma di mercimonio,[329] e ogni degenerazione superstiziosa.

Le varie forme di devozione popolare alle reliquie dei Santi, quali sono il bacio delle reliquie, l’ornamento con luci e fiori, la benedizione impartita con esse, il portarle in processione, non esclusa la consuetudine di recarle presso gli infermi per confortarli e avvalorarne la richiesta di guarigione, devono essere compiute con grande dignità e per un genuino impulso di fede. Si eviterà in ogni caso di esporre le reliquie dei Santi sulla mensa dell’altare: essa è riservata al Corpo e al Sangue del Re dei martiri.[330]

Le sante immagini

238. Fu in particolare il Concilio Niceno II, «seguendo la dottrina divinamente ispirata dei nostri Santi Padri e la tradizione della Chiesa cattolica»,  a difendere con vigore la venerazione delle sante immagini: «noi definiamo con ogni rigore e cura che, a somiglianza della raffigurazione della croce preziosa e vivificante, così le venerande e sante immagini, sia dipinte che in mosaico o in qualsiasi altro materiale adatto, debbono essere esposte nelle sante chiese di Dio, sulle sacre suppellettili, sui sacri paramenti, sulle pareti e sulle tavole, nelle case e nelle vie; siano esse l’immagine del Signore Dio e Salvatore nostro Gesù Cristo, o quella dell’immacolata Signora nostra, la santa Madre di Dio, dei santi Angeli, di tutti i Santi e giusti».[331]

I Santi Padri ravvisarono nel mistero di Cristo Verbo incarnato, «immagine del Dio invisibile» (Col 1,15), il fondamento del culto reso alle sante immagini: «è stata l’incarnazione del Figlio di Dio ad inaugurare una nuova “economia” delle immagini».[332]

239. La venerazione delle immagini, che siano dipinti, statue, bassorilievi o altre raffigurazioni, oltre che un significativo fatto liturgico, è un elemento rilevante della pietà popolare: i fedeli pregano dinanzi ad esse, sia nelle chiese sia nelle proprie abitazioni. Le ornano con fiori, luci, gemme; le salutano con varie forme di religioso ossequio, le portano in processione, appendono presso di esse ex-voto in segno di riconoscenza; le collocano in nicchie o in edicole erette nei campi e lungo le vie.

La venerazione delle immagini tuttavia, se non è sorretta da una illuminata concezione teologica, può dare luogo a deviazioni. È necessario pertanto che venga illustrata ai fedeli la dottrina della Chiesa, sancita nei concili ecumenici[333] e nel Catechismo della Chiesa Cattolica, sul culto alle sante immagini.[334]

240. Secondo l’insegnamento della Chiesa, le immagini sacre sono:

– trascrizione iconografica del messaggio evangelico, in cui immagine e parola rivelata si illuminano a vicenda; la tradizione ecclesiale esige infatti che l’immagine «si accordi con la lettera del messaggio evangelico»;[335]

– santi segni, i quali, come tutti i segni liturgici, hanno Cristo come ultimo referente; le immagini dei Santi infatti «significano Cristo che in loro è glorificato»;[336]

– memoria dei fratelli Santi, «che continuano a partecipare alla storia della salvezza del mondo e ai quali noi siamo uniti, soprattutto nella celebrazione sacramentale»;[337]

– aiuto nella preghiera: la contemplazione infatti delle sante immagini facilita la supplica e sprona a rendere gloria a Dio per le meraviglie di grazia operate nei suoi Santi;

– stimolo all’imitazione, perché «quanto più frequentemente l’occhio si posa su quelle immagini, tanto più si ravviva e cresce, in chi le contempla, il ricordo e il desiderio di coloro che vi sono raffigurati»;[338] il fedele tende a imprimere nel cuore ciò che contempla con gli occhi:  un’«immagine vera dell’uomo nuovo», trasformato in Cristo per l’azione dello Spirito e per la fedeltà alla propria vocazione;

– forma di catechesi, perché «attraverso la storia dei misteri della nostra redenzione, espressa con i dipinti e altri modi, il popolo viene istruito e confermato nella fede, ricevendo i mezzi per ricordare e meditare assiduamente gli articoli di fede».[339]

241. È necessario soprattutto che i fedeli avvertano la relatività del culto cristiano delle immagini. L’immagine, infatti, non è venerata per se stessa, ma per chi vi è rappresentato. Perciò alle immagini «si deve attribuire il dovuto onore e la venerazione, non certo perché si crede che vi sia in esse qualche divinità o potere che giustifichi questo culto o perché si debba chiedere qualche cosa a queste immagini o riporre fiducia in loro, come un tempo facevano i pagani, che riponevano la loro speranza negli idoli, ma perché l’onore loro attribuito si riferisce ai prototipi che esse rappresentano».[340]

242. Alla luce di questi insegnamenti i fedeli eviteranno di cadere in un errore che talora si riscontra: quello di istituire paragoni tra le sante immagini. Il fatto che alcune immagini siano oggetto di una particolare venerazione, fino al punto da divenire il simbolo dell’identità religiosa e culturale di un popolo, di una città o di un gruppo, va spiegato alla luce dell’evento di grazia che è all’origine del culto reso ad esse e dei fattori storico-sociali che hanno concorso a stabilirlo: comprensibilmente il popolo fa frequente e grata memoria di quell’evento; quindi rafforza la sua fede, glorifica Iddio, salvaguarda la propria identità culturale, eleva con fiducia incessanti suppliche, che il Signore, secondo la sua parola (cf. Mt 7,7; Lc 11,9; Mc 11,24), è pronto ad esaudire; così aumenta l’amore, si dilata la speranza e cresce la vita spirituale del popolo cristiano.

243. Le sante immagini, per la loro stessa natura, appartengono sia alla sfera dei santi segni sia alla sfera dell’arte. Esse, «non di rado capolavori d’arte soffusi di intensa religiosità, sembrano il riflesso di quella bellezza che da Dio proviene e a Dio conduce».[341] Tuttavia la funzione dell’immagine sacra non è in primo luogo quella di procurare un godimento estetico ma di introdurre al Mistero. Talvolta, l’aspetto estetico prende il sopravvento, facendo sì che l’immagine diventi più un “tema” artistico che portatrice di un messaggio spirituale.

In Occidente la produzione iconografica, molto varia nella tipologia, non è regolata, come in Oriente, da sacri canoni vigenti da secoli. Ciò non significa che la Chiesa latina abbia trascurato di vigilare sulla produzione iconografica: essa ha proibito più volte di esporre nelle chiese immagini contrarie alla fede, indecorose o tali da indurre i fedeli in errore, o che siano espressione di un astrattismo disincarnato e disumanizzante; certe immagini, infatti, sono esempi di un umanesimo antropocentrico più che di autentica spiritualità. E’ anche da riprovare la tendenza a eliminare le immagini dai luoghi sacri, con grave detrimento per la pietà dei fedeli.

La pietà popolare ama le immagini, che recano le tracce della propria cultura; le rappresentazioni realistiche, i personaggi facilmente individuabili, le rappresentazioni in cui si riconoscono momenti della vita dell’uomo: la nascita, la sofferenza, le nozze, il lavoro, la morte. Tuttavia si deve evitare che l’arte religiosa popolare scada nella pura oleografia: c’è correlazione tra iconografia e arte per la Liturgia e arte cristiana secondo le epoche culturali.

244. Per il loro significato cultuale, la Chiesa benedice le immagini dei Santi, soprattutto quelle destinate alla pubblica venerazione,[342] e chiede che, illuminati dall’esempio dei Santi, «procediamo sulle orme del Signore, fino a che si formi in noi l’uomo perfetto nella misura piena della statura di Cristo».[343]Così pure la Chiesa ha emanato alcune norme sulla collocazione delle immagini negli edifici e spazi sacri, che devono essere diligentemente osservate;[344] sull’altare  non si devono collocare statue né immagini di Santi; neppure le reliquie, esposte alla venerazione dei fedeli, si devono deporre sulla mensa dell’altare.[345] E’ compito dell’Ordinario vigilare che non siano esposte alla venerazione immagini che non siano degne o inducano in errore o a pratiche superstiziose.

Le processioni

245. Nella processione, espressione cultuale di carattere universale e di molteplice valenza religiosa e sociale, il rapporto tra Liturgia e pietà popolare acquista particolare rilievo. La Chiesa, ispirandosi a modelli biblici (cf. Es 14,8-31; 2 Sam 6, 12-19; 1 Cor 15, 25-16, 3), ha istituito alcune processioni liturgiche, le quali presentano una variegata tipologia:

– alcune sono evocative di avvenimenti salvifici riguardanti Cristo stesso; tra queste: la processione del 2 febbraio commemorativa della presentazione del Signore al Tempio (cf. Lc 2, 22-38); della Domenica delle Palme, che evoca l’ingresso messianico di Gesù in Gerusalemme (cf. Mt 21, 1-10; Mc 11, 1-11; Lc 19, 28-38; Gv 12, 12-16); della Veglia pasquale, memoria liturgica del “passaggio” di Cristo dal buio del sepolcro alla gloria della Risurrezione, sintesi e superamento di tutti gli esodi compiuti dall’antico Israele e premessa necessaria dei “passaggi” sacramentali che compie il discepolo di Cristo, soprattutto nel rito battesimale e nella celebrazione delle esequie;

– altre sono votive, quali la processione eucaristica nella solennità del Corpo e Sangue del Signore: il santissimo Sacramento passando in mezzo alla città degli uomini suscita nei fedeli espressioni di grato amore, esige da essi fede-adorazione ed è sorgente di benedizione e di grazia (cf. At 10, 38);[346] la processione delle rogazioni, la cui data è stabilita attualmente per ogni paese dalla rispettiva Conferenza dei Vescovi, che sono pubblica implorazione della benedizione di Dio sui campi e sul lavoro dell’uomo, ed hanno anche un carattere penitenziale; la processione al cimitero il 2 novembre, Commemorazione dei fedeli defunti;

– altre ancora sono richieste dal compimento stesso di alcune azioni liturgiche; tali sono: le processioni in occasione delle stazioni quaresimali, nelle quali la comunità cultuale si reca dal luogo fissato per la collecta alla chiesa della statio; la processione per ricevere nella chiesa parrocchiale il crisma e gli oli santi benedetti il Giovedì Santo nella Messa crismale; la processione per l’adorazione della Croce nell’Azione liturgica del Venerdì Santo; la processione dei Vespri battesimali nel giorno di Pasqua, durante la quale «mentre si cantano i salmi, si va al fonte»;[347] le “processioni” che nella celebrazione dell’Eucaristia ne accompagnano alcuni momenti, quali l’ingresso del celebrante e dei ministri, la proclamazione del Vangelo, la presentazione dei doni, la comunione al Corpo e Sangue del Signore; la processione per portare il Viatico agli infermi, nei luoghi in cui essa vige ancora; il corteo funebre che accompagna il corpo del defunto dalla casa alla chiesa e da questa al cimitero; la processione in occasione di traslazioni di reliquie.

246. La pietà popolare, soprattutto a partire dal Medioevo, ha dato largo spazio alle processioni votive, che nell’età barocca hanno raggiunto l’apogeo: per onorare i Santi patroni di una città o contrada o corporazione ne vengono portate processionalmente le reliquie o una statua o una effigie per le vie della città.

Nelle forme genuine le processioni sono manifestazioni di fede del popolo, aventi spesso connotati culturali capaci di risvegliare il sentimento religioso dei fedeli. Ma sotto il profilo della fede cristiana le “processioni votive dei Santi”, come altri pii esercizi, sono esposte ad alcuni rischi e pericoli: il prevalere delle devozioni sui sacramenti, che vengono relegati in un secondo posto, e delle manifestazioni esterne sulle disposizioni interiori; il ritenere la processione come momento culminante della festa; il configurarsi del cristianesimo agli occhi dei fedeli non sufficientemente istruiti soltanto come una “religione dei Santi”; la degenerazione della processione stessa per cui, da testimonianza di fede, essa diventa mero spettacolo o parata puramente folkloristica.

247. Perché la processione conservi in ogni caso il suo carattere di manifestazione di fede è necessario che i fedeli siano istruiti sulla sua natura sotto il profilo teologico, liturgico, antropologico.

Dal punto di vista teologico si dovrà mettere in luce che la processione è un segno della condizione della Chiesa, popolo di Dio in cammino che, con Cristo e dietro a Cristo, consapevole di non avere in questo mondo una stabile dimora (cf. Eb 13, 14), marcia per le vie della città terrena verso la Gerusalemme celeste; segno anche della testimonianza di fede che la comunità cristiana deve rendere al suo Signore nelle strutture della società civile; segno infine del compito missionario della Chiesa, la quale sino dagli inizi, secondo il mandato del Signore (cf. Mt 28, 19-20), si è messa in marcia per annunciare per le strade del mondo il Vangelo della salvezza.

Dal punto di vista liturgico si dovranno orientare le processioni, anche quelle di carattere più popolare, verso la celebrazione della Liturgia: presentando il percorso da chiesa a chiesa come cammino della comunità vivente nel mondo verso la comunità che dimora nei cieli; provvedendo che sia svolta sotto la presidenza ecclesiastica, onde evitare manifestazioni irrispettose e degenerative;  istituendo un momento di preghiera iniziale, in cui non manchi la proclamazione della Parola di Dio; valorizzando il canto, preferibilmente dei salmi, e l’apporto di strumenti musicali; suggerendo di recare in mano, durante il percorso, ceri o lampade accese; prevedendo delle soste, le quali, per il loro alternarsi ai tempi di marcia, danno l’immagine stessa del cammino della vita; concludendo la processione con una preghiera dossologica a Dio, fonte di ogni santità, e con la benedizione impartita dal Vescovo, dal presbitero o dal diacono.

Infine, dal punto di vista antropologico si dovrà evidenziare il significato della processione quale “cammino compiuto insieme”: coinvolti nello stesso clima di preghiera, uniti nel canto, volti all’unica meta, i fedeli si scoprono solidali gli uni con gli altri, determinati a concretizzare nel cammino della vita gli impegni cristiani maturati nel percorso processionale.


 

Capitolo VII

I SUFFRAGI PER I DEFUNTI

La fede nella risurrezione dei morti

248.  «In faccia alla morte l’enigma della condizione umana diventa sommo».[348] Ma la fede in Cristo muta l’enigma in certezza di vita senza fine. Egli infatti ha dichiarato di essere stato inviato dal Padre «perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna» (Gv 3, 16) ed ancora: «Questa è la volontà del Padre mio, che chiunque vede il Figlio e crede in lui abbia la vita eterna; io lo risusciterò nell’ultimo giorno» (Gv 6, 40). Perciò nel Simbolo Niceno-Costantinopolitano la Chiesa professa la sua fede nella vita eterna: «Aspetto la risurrezione dei morti e la vita del mondo che verrà».[349]

Fondandosi sulla Parola di Dio, la Chiesa fermamente crede e fermamente spera che «come Cristo è veramente risorto dai morti e vive per sempre, così pure i giusti, dopo la loro morte, vivranno per sempre con Cristo risorto».[350]

249. La fede nella risurrezione dei morti, elemento essenziale della rivelazione cristiana, implica una visione peculiare dell’ineluttabile e misterioso evento della morte.          

La morte è il termine della tappa terrena della vita, ma «non del nostro essere»,[351] essendo l’anima immortale. «Le nostre vite sono misurate dal tempo, nel corso del quale noi cambiamo, invecchiamo e, come per tutti gli esseri viventi della terra, la morte appare come la fine normale della vita»;[352] dal punto di vista della fede, la morte è anche «la fine del pellegrinaggio terreno dell’uomo, è la fine del tempo della grazia e della misericordia che Dio gli offre per realizzare la sua vita terrena secondo il disegno divino e per decidere del suo destino ultimo».[353]

Se per un verso la morte corporale è naturale, per un altro essa appare come «salario del peccato» (Rm 6, 23). Il Magistero della Chiesa infatti, interpretando autenticamente le affermazioni della Sacra Scrittura (cf. Gn 2, 17; 3, 3; 3, 19; Sap 1, 13; Rm 5, 12; 6, 23), «insegna che la morte è entrata nel mondo a causa del peccato dell’uomo».[354]

Anche Gesù, Figlio di Dio, «nato da donna, nato sotto la legge» (Gal 4, 4), ha subito la morte, propria della condizione umana; e, malgrado la sua angoscia di fronte ad essa (cf. Mc 14, 33-34; Eb 5, 7-8), «egli la assunse in un atto di totale e libera sottomissione alla volontà del Padre suo. L’obbedienza di Gesù ha trasformato la maledizione della morte in benedizione».[355]

La morte è il passaggio alla pienezza della vera vita, per cui la Chiesa, sovvertendo la logica e le prospettive di questo mondo, chiama il giorno della morte del cristiano dies natalis, giorno della sua nascita al cielo, dove «non ci sarà più la morte, né lutto, né lamento, né affanno, perché le cose di prima sono passate» (Ap 21, 4); è il prolungamento quindi, in modo nuovo, dell’evento vita, poiché come dice la Liturgia: «Ai tuoi fedeli, o Signore, la vita non è tolta ma trasformata; e mentre si distrugge la dimora di questo esilio terreno, viene preparata un’abitazione eterna nel cielo».[356]

Infine, la morte del cristiano è un evento di grazia, avendo in Cristo e per Cristo, un valore e un significato positivo. Esso si fonda nell’insegnamento delle Scritture: «Per me vivere è Cristo e il morire un guadagno» (Fil 1, 21); «Certa è questa parola: se moriamo con lui, viviamo anche con lui» (2 Tm 2, 11).

250. Secondo la fede della Chiesa il “morire con Cristo” è già iniziato nel Battesimo: in esso il discepolo del Signore è già sacramentalmente “morto con Cristo”, per vivere una vita nuova; e se egli muore nella grazia di Cristo, la morte fisica suggella quel “morire con Cristo” e lo porta alla sua consumazione incorporandolo pienamente per sempre a Cristo Redentore.

La Chiesa, peraltro, nella sua preghiera di suffragio per le anime dei defunti implora la vita eterna non solo per i discepoli di Cristo morti nella sua pace, ma anche per tutti i defunti, dei quali solo Dio ha conosciuto la fede.[357]

Significato dei suffragi

251. Nella morte il giusto incontra Dio, il quale lo chiama a sé per renderlo partecipe della vita divina. Ma nessuno può essere accolto nell’amicizia e nell’intimità di Dio se prima non è stato da lui purificato dalle conseguenze personali di tutte le sue colpe. «La Chiesa chiama Purgatorio questa purificazione finale degli eletti, che è tutt’altra cosa dal castigo dei dannati. La Chiesa ha formulato la dottrina della fede relativa al Purgatorio soprattutto nei Concili di Firenze e di Trento».[358]

Da qui la pia consuetudine dei suffragi per le anime del Purgatorio, che sono una pressante supplica a Dio perché abbia misericordia dei fedeli defunti, li purifichi con il fuoco della sua carità e li introduca nel suo Regno di luce e di vita.

I suffragi sono una espressione cultuale della fede nella comunione dei Santi. Infatti «la Chiesa di quelli che sono in cammino, riconoscendo la comunione di tutto il corpo mistico di Gesù Cristo, fino dai primi tempi della religione cristiana ha coltivato con grande pietà la memoria dei defunti e poiché “santo e salutare è il pensiero di pregare per i defunti perché siano assolti dai peccati” (2 Mac 12, 46), ha offerto per loro i suoi suffragi».[359] Essi sono in primo luogo la celebrazione del sacrificio eucaristico,[360] poi altre espressioni di pietà come preghiere, elemosine, opere di misericordia,[361] acquisto di indulgenze in favore delle anime dei defunti.[362]

Le esequie cristiane

252. Nella Liturgia romana, come nelle altre liturgie latine ed orientali, sono frequenti e vari i suffragi per i defunti.

Le esequie cristiane comprendono, a seconda delle tradizioni, tre momenti, anche se spesso, per le circostanze profondamente mutate della vita nelle grandi aree urbane, essi vengono ridotti a due o a uno solo:[363]

– la veglia di preghiera in casa del defunto, secondo le circostanze, o in altro luogo adatto, dove parenti, amici, fedeli si radunano per elevare a Dio una preghiera di suffragio, ascoltare «le parole di vita eterna» e, alla luce di esse, superare le prospettive di questo mondo e volgere le menti alle autentiche prospettive della fede nel Cristo risorto; per recare conforto ai congiunti del defunto; per esprimere solidarietà cristiana secondo la parola dell’Apostolo: «piangete con quelli che sono nel pianto» (Rm 12, 15).[364]

– La celebrazione dell’Eucaristia, che è del tutto auspicabile quando è possibile. In essa la comunità ecclesiale ascolta «la parola di Dio che proclama il mistero pasquale, dona la speranza di incontrarci ancora nel regno di Dio, ravviva la pietà verso i defunti ed esorta alla testimonianza di una vita veramente cristiana»,[365] e colui che presiede commenta la Parola proclamata secondo le caratteristiche dell’omelia, «evitando tuttavia la forma e lo stile dell’elogio funebre».[366] Nell’Eucaristia «la Chiesa esprime la sua comunione efficace con il defunto: offrendo al Padre, nello Spirito Santo, il sacrificio della Morte e della Risurrezione di Cristo, gli chiede che il suo figlio sia purificato dai suoi peccati e dalle loro conseguenze e che sia ammesso alla pienezza pasquale della mensa del Regno».[367] Una lettura profonda della Messa esequiale consente di percepire come la Liturgia abbia fatto dell’Eucaristia, banchetto escatologico, il vero refrigerium cristiano del defunto.

– Il rito del commiato, il corteo funebre e la sepoltura: il commiato è l’addio (ad Deum) al defunto, la “raccomandazione a Dio” da parte della Chiesa, «l’ultimo saluto rivolto dalla comunità cristiana a un suo membro prima che il corpo sia portato alla sepoltura».[368] Nel corteo funebre la madre Chiesa, che ha portato sacramentalmente nel suo seno il cristiano durante il suo pellegrinaggio terreno, accompagna il corpo del defunto al luogo del suo riposo, in attesa del giorno della risurrezione (cf. 1 Cor 15, 42-44).

253. Ognuno dei momenti delle esequie cristiane deve essere compiuto con grande dignità e senso religioso. Così è necessario che: il corpo del defunto, che è stato tempio dello Spirito Santo, sia trattato con grande rispetto; l’arredamento funebre sia decoroso, alieno dall’ostentazione e dallo sfarzo; i segni liturgici, quali la croce, il cero pasquale, l’acqua benedetta e l’incenso, siano usati con grande proprietà.

254. Distaccandosi dal senso della mummificazione, dell’imbalsamazione oppure della cremazione, nelle quali si cela talora la concezione che la morte segni la distruzione totale dell’uomo, la pietà cristiana ha assunto, come modello di sepoltura per il fedele, l’inumazione. Essa da una parte ricorda la terra dalla quale egli è stato tratto (cf. Gn 2, 6) e alla quale ora ritorna (cf. Gn 3, 19; Sir 17, 1); dall’altra evoca la sepoltura di Gesù, chicco di grano che, caduto in terra, ha prodotto molto frutto (cf. Gv 12, 24).

Nel nostro tempo, tuttavia, anche per le mutate condizioni di ambiente e di vita, vige pure la prassi della cremazione del corpo del defunto. A questo riguardo la legislazione ecclesiastica dispone: «A coloro che avessero scelto la cremazione del loro cadavere si può concedere il rito delle esequie cristiane, a meno che la loro scelta non risulti dettata da motivazioni contrarie alla dottrina cristiana».[369] In relazione a tale scelta, si esortino i fedeli a non conservare in casa le ceneri di familiari, ma a dare ad esse consueta sepoltura, fino a che Dio farà risorgere dalla terra quelli che vi riposano e il mare restituisca i suoi morti (cf . Ap 20,13).

Altri suffragi

255. La Chiesa offre il sacrificio eucaristico per i defunti in occasione non solo della celebrazione dei funerali, ma anche nei giorni terzo, settimo e trigesimo, nonché nell’anniversario della morte; la celebrazione della Messa in suffragio delle anime dei propri defunti è il modo cristiano di ricordare e prolungare, nel Signore, la comunione con quanti hanno varcato la soglia della morte.  Il 2 novembre, poi, la Chiesa offre ripetutamente il santo sacrificio per tutti i fedeli defunti, per i quali celebra pure la Liturgia delle Ore.

Ogni giorno, nella celebrazione sia dell’Eucaristia sia dei Vespri, la Chiesa non manca mai di elevare la sua supplice implorazione perché il Signore doni ai «fedeli che ci hanno preceduto con il segno della fede e […] a tutti quelli che riposano in Cristo, la beatitudine, la luce e la pace».[370]

E’ importante dunque educare il sentire dei fedeli alla luce della celebrazione eucaristica, in cui la Chiesa prega affinché siano associati alla gloria del Signore risorto tutti i fedeli defunti, di qualunque tempo e spazio, evitando il pericolo di una visione possessiva o particolaristica della Messa per il “proprio” defunto.[371] La celebrazione della Messa in suffragio dei defunti è inoltre occasione per una catechesi sui novissimi.

La memoria dei defunti nella pietà popolare

256. Come la Liturgia, anche la pietà popolare è molto attenta alla memoria dei defunti e sollecita ad innalzare per essi preghiere di suffragio.

Nella “memoria dei defunti”, la questione del rapporto tra Liturgia e pietà popolare deve essere affrontata con molta prudenza e tatto pastorale, per quanto attiene sia agli aspetti dottrinali sia all’armonizzazione tra azioni liturgiche e pii esercizi.

257. È necessario anzitutto che la pietà popolare venga illuminata dai principi della fede cristiana, quali il senso pasquale della morte di coloro che, mediante il Battesimo, sono stati incorporati al mistero della morte e risurrezione di Cristo (cf. Rm 6, 3-10); l’immortalità dell’anima (cf. Lc 23, 43); la comunione dei Santi, per cui «l’unione […] di coloro che sono in cammino coi fratelli morti nella pace di Cristo non è minimamente spezzata, anzi, secondo la perenne fede della Chiesa, è consolidata dalla comunione dei beni spirituali»:[372] «la nostra preghiera per loro può non solo aiutarli, ma anche rendere efficace la loro intercessione in nostro favore»;[373] la risurrezione della carne; la manifestazione gloriosa di Cristo, «che verrà a giudicare i vivi e i morti»;[374] la retribuzione secondo le opere di ciascuno; la vita eterna.

Nelle usanze e nelle tradizioni di alcuni popoli relative al “culto dei morti” si rilevano elementi radicati profondamente nella cultura e in particolari concezioni antropologiche, spesso improntate al desiderio di prolungare i vincoli familiari e, per così dire, sociali con i trapassati. Nell’esame e nella valutazione di tali usanze si dovrà procedere con cautela evitando, qualora non siano manifestamente in contrasto con il Vangelo, di interpretarle sbrigativamente come residui del paganesimo.

258. Per quanto concerne gli aspetti dottrinali, sono da evitare:

– il pericolo della sopravvivenza nella pietà popolare verso i defunti di elementi o aspetti inaccettabili del culto pagano degli antenati; 

– l’invocazione dei morti per pratiche divinatorie;

– l’attribuzione ai sogni, che vertono su persone defunte, di significati e di effetti immaginari, il cui timore condiziona spesso l’agire dei fedeli;

– il rischio che si insinuino forme di credenza nella reincarnazione;

– il pericolo di negare l’immortalità dell’anima e di disgiungere l’evento morte dalla prospettiva della risurrezione, sì che la religione cristiana appaia, per così dire, una religione dei morti;

– l’applicazione delle categorie spazio-temporali alla condizione dei defunti.

259. Molto diffuso nella società moderna e spesso causa di dannose conseguenze è l’errore dottrinale e pastorale dell’“occultamento della morte e dei suoi segni”.

Medici, infermieri, parenti ritengono spesso un dovere nascondere all’ammalato, che per lo sviluppo della ospedalizzazione muore quasi sempre fuori casa, l’imminenza della morte.

È stato più volte rilevato che nelle grandi città dei vivi non c’è spazio per i morti: nelle piccole abitazioni dei palazzi urbani non è possibile disporre di una “stanza per una veglia funebre”; nelle strade, per il congestionato traffico, non vengono consentiti i lenti cortei funebri che creano un intralcio alla circolazione; nell’area urbana, il cimitero che un tempo, almeno nei villaggi, era spesso attorno o nei pressi della chiesa – quindi vero camposanto e segno della comunione in Cristo tra vivi e defunti – sorge in periferia, sempre più lontano dalla città, perché con lo sviluppo urbano non venga nuovamente conglobato in essa.

La civiltà moderna rifiuta la “visibilità della morte”, per cui si sforza di eliminarne i segni. Da qui deriva il ricorso, diffuso in un certo numero di paesi, alla tanatoprassi, che mediante un processo chimico conserva al defunto il suo incarnato naturale: il morto non deve apparire morto, ma conservare le apparenze della vita.

Il cristiano, per il quale deve essere familiare e sereno il pensiero della morte, non deve aderire interiormente al fenomeno dell’“intolleranza verso i morti”, che priva i defunti di ogni spazio nella vita della città, né al rifiuto della “visibilità della morte”, quando intolleranza e rifiuto siano dettati da una irresponsabile fuga dalla realtà o da una visione materialista, priva di speranza, estranea alla fede nel Cristo morto e risorto.

Così pure il cristiano deve opporsi fermamente alle numerose forme di “commercio sulla morte”, che sfruttando i sentimenti dei fedeli, va solo in cerca di smisurati e vergognosi guadagni.

260. La pietà popolare verso i defunti si esprime in molteplici forme, a seconda dei luoghi e delle tradizioni:

– la novena dei defunti come preparazione e l’ottavario come prolungamento della Commemorazione del 2 novembre; entrambi devono essere celebrati nel rispetto dell’ordinamento liturgico;

– la visita al cimitero; essa, in alcune circostanze, è compiuta comunitariamente, come nella Commemorazione di tutti i fedeli defunti, al termine delle missioni popolari, in occasione della presa di possesso della parrocchia da parte di un nuovo parroco; in altre in forma privata, quando i fedeli si recano alla tomba dei propri cari, per tenerla in ordine, ornata di fiori e di luce; tale visita deve essere manifestazione dei legami esistenti tra il defunto e i suoi congiunti, non espressione di un obbligo, cui si ha il timore quasi superstizioso di venir meno;

– l’adesione a confraternite e altre pie associazioni che hanno lo scopo di “seppellire i morti” secondo una visione cristiana dell’evento morte, offrire suffragi per i defunti, essere fattivamente solidali con i parenti dell’estinto;

– i suffragi frequenti, di cui già è stato detto, attraverso elemosine e altre opere di misericordia, digiuni, applicazione di indulgenze e soprattutto preghiere, quali la recita del salmo De profundis, della breve formula Requiem aeternam, che spesso accompagna la recitazione dell’Angelus, della corona del santo Rosario, la benedizione della mensa familiare.


 

Capitolo VIII

SANTUARI E PELLEGRINAGGI

261. Il santuario, sia esso dedicato alla santissima Trinità, a Cristo Signore, alla beata Vergine, agli Angeli, ai Santi o ai Beati, è forse il luogo in cui i rapporti tra Liturgia e pietà popolare sono più frequenti ed evidenti. «Nei santuari, si offrano più abbondantemente ai fedeli i mezzi della salvezza, annunciando con zelo la Parola di Dio, favorendo convenientemente la vita liturgica, in specie con l’Eucaristia e la celebrazione della Penitenza, nonché coltivando forme approvate di pietà popolare».[375]

In stretto rapporto con il santuario è il pellegrinaggio, anch’esso espressione diffusa e caratteristica della pietà popolare.

Nel nostro tempo l’interesse per i santuari e la partecipazione ai pellegrinaggi, lungi dall’essersi affievoliti a causa del fenomeno del secolarismo, incontrano un grande favore presso i fedeli.

Sembra pertanto conveniente, in conformità con gli scopi di questo Documento, offrire alcune indicazioni perché nell’attività pastorale dei santuari e nello svolgimento dei pellegrinaggi sia instaurato e favorito un corretto rapporto tra azioni liturgiche e pii esercizi.

Il Santuario

Alcuni principi

262. Secondo la rivelazione cristiana il supremo e definitivo santuario è Cristo risorto (cf. Gv 2, 18-21; Ap 21, 22), attorno al quale si raduna e organizza la comunità dei discepoli, che a sua volta è la nuova casa del Signore (cf. 1 Pt 2, 5; Ef 2, 19-22).

Dal punto di vista teologico il santuario, che non di rado è sorto da un moto di pietà popolare, è un segno della presenza attiva, salvifica del Signore nella storia e un luogo di sosta dove il popolo di Dio, pellegrinante per le vie del mondo verso la Città futura (cf. Eb 13, 14), riprende vigore per proseguire il cammino.[376]

263.     Il santuario infatti, come le chiese, ha una grande valenza simbolica: è icona della «dimora di Dio con gli uomini» (Ap 21, 3) e rinvia al «mistero del Tempio» che si è compiuto nel corpo di Cristo (cf. Gv 1, 14; 2, 21), nella comunità ecclesiale (cf. 1 Pt 2, 5) e nei singoli fedeli (cf. 1 Cor 3, 16-17; 6, 19; 2 Cor 6, 16).

Agli occhi della fede i santuari sono:

– per la loro origine, talvolta, memoria di un evento ritenuto straordinario che ha determinato il sorgere di manifestazioni di duratura devozione, o testimonianza della pietà e della riconoscenza di un popolo per i benefici ricevuti;

– per i frequenti segni di misericordia che vi si manifestano, luoghi privilegiati dell’assistenza divina e dell’intercessione della beata Vergine, dei Santi o dei Beati;

– per la posizione, spesso elevata e solitaria, per la bellezza ora austera ora amena, dei luoghi in cui sorgono, segno dell’armonia del cosmo e riflesso della divina bellezza;

– per la predicazione che vi risuona, richiamo efficace alla conversione, invito a vivere nella carità e a incrementare le opere di misericordia, esortazione a condurre una vita improntata alla sequela di Cristo; 

– per la vita sacramentale che vi si svolge, luoghi di consolidamento nella fede e di crescita nella grazia, di rifugio e di speranza nell’afflizione;

– per l’aspetto del messaggio evangelico che esprimono, peculiare interpretazione e quasi prolungamento della Parola;

– per l’orientamento escatologico, monito a coltivare il senso della trascendenza e a dirigere i passi, attraverso le strade della vita temporale, verso il santuario del cielo (cf. Eb 9, 11; Ap 21, 3).

«Sempre e dappertutto, i santuari cristiani sono stati o hanno voluto essere segni di Dio, della sua irruzione nella storia. Ognuno di essi è un memoriale del mistero dell’Incarnazione e della Redenzione».[377]

Riconoscimento canonico

264. «Per santuario si intendono una chiesa o un altro luogo sacro, a cui, per speciali motivi di pietà, con l’approvazione dell’Ordinario del luogo, i fedeli fanno pellegrinaggio in grande numero».[378]

Condizione previa perché un luogo sacro sia canonicamente considerato santuario diocesano, nazionale o internazionale è l’approvazione rispettivamente del Vescovo diocesano, della Conferenza dei Vescovi, della Santa Sede. L’approvazione canonica costituisce un riconoscimento ufficiale del luogo sacro e della sua specifica finalità, che è quella di accogliere i pellegrinaggi del popolo di Dio che vi si reca per adorare il Padre, professare la fede, riconciliarsi con Dio, con la Chiesa e con i fratelli e implorare l’intercessione della Madre del Signore o di un Santo.

Non si deve dimenticare tuttavia che molti altri luoghi di culto, spesso umili – chiesette nelle città o nelle campagne – svolgono in ambito locale, pur senza riconoscimento canonico, una funzione simile a quella dei santuari. Anche essi fanno parte della “geografia” della fede e della pietà del popolo di Dio,[379] di una comunità che dimora in un determinato territorio e che, nella fede, è in cammino verso la Gerusalemme celeste (cf. Ap 21).

Il santuario luogo di celebrazioni cultuali

265. Il santuario ha una eminente funzione cultuale. I fedeli vi si recano soprattutto per partecipare alle celebrazioni liturgiche e ai pii esercizi che ivi si svolgono. Questa riconosciuta funzione cultuale del santuario non deve tuttavia oscurare nella coscienza dei fedeli l’insegnamento evangelico secondo cui il luogo non è determinante per il genuino culto al Signore (cf. Gv 4, 20-24).

Valore esemplare

266. I  responsabili dei santuari facciano sì che la Liturgia che si svolge in essi sia esemplare per la qualità delle celebrazioni: «Tra le funzioni riconosciute ai santuari, anche dal Codice di diritto canonico, è l’incremento della Liturgia. Esso non va inteso tuttavia come aumento numerico delle celebrazioni, ma come miglioramento della qualità delle medesime. I rettori dei santuari sono ben consapevoli della loro responsabilità in ordine al conseguimento di questo scopo. Comprendono infatti che i fedeli, che giungono al santuario dai luoghi più svariati, devono ripartire confortati nello spirito ed edificati dalle celebrazioni liturgiche che in esso si compiono: per la loro capacità di comunicare il messaggio salvifico, per la nobile semplicità delle espressioni rituali, per l’osservanza fedele delle norme liturgiche. Sanno inoltre che gli effetti di un’azione liturgica esemplare non si limitano alla celebrazione compiuta nel santuario: i sacerdoti e i fedeli pellegrini sono portati infatti a trasferire nei luoghi di provenienza le esperienze cultuali valide vissute nel santuario».[380]

La celebrazione della Penitenza

267. Per molti fedeli la visita al santuario costituisce un’occasione propizia, spesso ricercata, per accostarsi al sacramento della Penitenza. È necessario pertanto che siano curati i vari elementi che concorrono alla celebrazione del sacramento:

– il luogo della celebrazione: oltre ai confessionali tradizionali posti in chiesa, nei santuari molto frequentati è auspicabile che ci sia un luogo riservato alla celebrazione della Penitenza, che si presti anche a momenti di preparazione comunitaria e a celebrazioni penitenziali, e nel rispetto delle norme canoniche e della riservatezza richiesta dalla confessione, offra al penitente l’agio di un dialogo con il sacerdote confessore.

– La preparazione al sacramento: in non pochi casi i fedeli hanno bisogno di essere aiutati a compiere gli atti che sono parte del sacramento, soprattutto a orientare il cuore a Dio con una sincera conversione, «poiché da essa dipende la verità della Penitenza».[381] Si prevedano pertanto incontri di preparazione, quali sono proposti nell’Ordo Paenitentiae,[382] in cui, attraverso l’ascolto e la meditazione della Parola di Dio i fedeli siano aiutati a celebrare fruttuosamente il sacramento; o almeno si pongano a disposizione dei penitenti sussidi idonei, che li guidino non solo a preparare la confessione dei peccati, ma soprattutto a concepire un sincero pentimento.

– La scelta dell’azione rituale, che conduca i fedeli a scoprire la natura ecclesiale della Penitenza; in questa luce la celebrazione del Rito per la riconciliazione di più penitenti con la confessione e l’assoluzione individuale (seconda forma), debitamente organizzata e preparata, non dovrebbe costituire un’eccezione, ma un fatto normale, previsto soprattutto per alcuni tempi e ricorrenze dell’Anno liturgico. Infatti «la celebrazione comune manifesta più chiaramente la natura ecclesiale della penitenza».[383] La riconciliazione senza confessione individuale integra e con assoluzione generale è una forma del tutto eccezionale e straordinaria, non interscambiabile con le due forme ordinarie e non giustificabile per la sola ragione di una grande affluenza di penitenti, quale accade in occasione di feste e pellegrinaggi.[384]

La celebrazione dell’Eucaristia

268. «La celebrazione dell’Eucaristia è il culmine e quasi il fulcro di tutta l’azione pastorale dei santuari»;[385] ad essa pertanto occorre prestare la massima attenzione, perché risulti esemplare nello svolgimento rituale e conduca i fedeli a un incontro profondo con Cristo.

Spesso accade che più gruppi vogliano celebrare l’Eucaristia nello stesso tempo, ma separatamente. Ciò non è coerente con la dimensione ecclesiale del mistero eucaristico, dal momento che in tal modo la celebrazione dell’Eucaristia, invece di essere momento di unità e di fraternità, diviene espressione di un particolarismo che non riflette il senso di comunione e di universalità della Chiesa.

Una semplice riflessione sulla natura della celebrazione dell’Eucaristia, «sacramento di pietà, segno di unità, vincolo di carità»,[386] dovrebbe persuadere i sacerdoti che guidano i pellegrinaggi a favorire la riunione dei vari gruppi in una medesima concelebrazione, debitamente articolata e attenta – se è il caso – alla diversità delle lingue; in occasione di riunioni di fedeli di varie nazionalità è opportuno che siano cantati, in lingua latina e nelle melodie più facili, almeno le parti dell’Ordinario della Messa, specialmente il simbolo della fede e la preghiera del Signore.[387] Una tale celebrazione darebbe un’immagine genuina della natura della Chiesa e dell’Eucaristia, e costituirebbe per i pellegrini occasione di mutua accoglienza e di reciproco arricchimento.

La celebrazione dell’Unzione degli infermi

269. L’Ordo unctionis infirmorum eorumque pastoralis curae prevede la celebrazione comunitaria del sacramento dell’Unzione nei santuari, soprattutto in occasione di pellegrinaggi di infermi.[388] Ciò è perfettamente consono alla natura del sacramento e alla funzione del santuario: è giusto che ove l’implorazione della misericordia del Signore è più intensa, là divenga più sollecita l’azione materna della Chiesa in favore dei suoi figli che per malattia o vecchiaia cominciano a trovarsi in pericolo.[389]

Il rito si svolgerà secondo le indicazioni dell’Ordo, per cui «se vi sono più sacerdoti, ognuno impone le mani e amministra l’unzione con la relativa formula ai singoli infermi di un gruppo; le orazioni invece vengono recitate dal celebrante principale».[390]

La celebrazione di altri sacramenti

270. Nei santuari, oltre all’Eucaristia, alla Penitenza e all’Unzione comunitaria degli infermi, si celebrano anche, più o meno frequentemente, altri sacramenti. Ciò esige che i responsabili dei santuari, oltre all’osservanza delle disposizioni impartite dal Vescovo diocesano:

– ricerchino una sincera intesa e una proficua collaborazione tra santuario e comunità parrocchiale;

– considerino attentamente la natura di ogni sacramento; ad esempio: i sacramenti dell’iniziazione cristiana, che richiedono una prolungata preparazione e operano il radicamento del battezzato nella comunità ecclesiale, dovrebbero di norma essere celebrati nella parrocchia;

– si assicurino che la celebrazione di ogni sacramento sia stata preceduta da una adeguata preparazione; i responsabili di un santuario non devono procedere alla celebrazione del sacramento del matrimonio se non risulta il permesso concesso dall’Ordinario o dal parroco;[391]

– valutino serenamente le molteplici e imprevedibili situazioni, per le quali non è possibile stabilire a priori norme rigide.

La celebrazione della Liturgia delle Ore

271. La sosta in un santuario, tempo e luogo favorevoli per la preghiera personale e comunitaria, costituisce un’occasione privilegiata per aiutare i fedeli ad apprezzare la bellezza della Liturgia delle Ore e ad associarsi alla lode quotidiana che, nel corso del suo pellegrinaggio terreno, la Chiesa eleva al Padre, per Cristo, nello Spirito Santo.[392]

I rettori dei santuari, pertanto, inseriscano opportunamente celebrazioni degne e festive delle Ore, specialmente delle Lodi e dei Vespri, nei programmi indicati ai pellegrini, suggerendo talora in tutto o in parte, anche un Ufficio votivo connesso col santuario. [393]

Lungo il pellegrinaggio e nelle tappe di avvicinamento alla meta, i sacerdoti che accompagnano i fedeli non manchino di proporre ad essi la preghiera di almeno qualche Ora dell’Ufficio Divino.

La celebrazione dei sacramentali

272. Fin dall’antichità esiste nella Chiesa l’uso di benedire persone, luoghi, cibi, oggetti. Nel nostro tempo tuttavia la prassi delle benedizioni, a motivo di usi inveterati e di concezioni profondamente radicate in alcune categorie di fedeli, presenta aspetti delicati. Ma essa costituisce una questione pastorale abbastanza marcata nei santuari, dove i fedeli, accorsi per implorare la grazia e l’aiuto del Signore, l’intercessione della Madre della misericordia o dei Santi, chiedono spesso ai sacerdoti le benedizioni più varie. Per un corretto svolgimento della pastorale delle benedizioni, i rettori dei santuari dovranno:

– procedere con pazienza all’applicazione progressiva dei principi stabiliti dal Rituale Romanum,[394] i quali perseguono fondamentalmente lo scopo che la benedizione costituisca un’espressione genuina di fede in Dio largitore di ogni bene;

– dare il giusto rilievo per quanto possibile ai due momenti che costituiscono la “struttura tipica” di ogni benedizione: la proclamazione della Parola di Dio, che dà significato al segno sacro, e la preghiera con cui la Chiesa loda Dio e implora i suoi benefici,[395] come richiamato anche dal segno di croce tracciato dal ministro ordinato; 

– preferire la celebrazione comunitaria a quella individuale o privata ed impegnare i fedeli ad una partecipazione attiva e consapevole.[396]

273. È pertanto auspicabile che nei periodi di maggiore affluenza di pellegrini i rettori dei santuari predispongano, durante la giornata, particolari momenti per la celebrazione delle benedizioni;[397] in essi, attraverso un’azione rituale caratterizzata da verità e da dignità, i fedeli comprenderanno il senso genuino della benedizione e l’impegno ad osservare i comandamenti di Dio, che la “richiesta di una benedizione” comporta.[398]

Il santuario luogo di evangelizzazione

274. Innumerevoli centri di comunicazione sociale quotidianamente divulgano notizie e messaggi di ogni genere; il santuario è invece il luogo in cui costantemente viene proclamato un messaggio di vita: il «Vangelo di Dio» (Mc 1, 14; Rm 1, 1) o «Vangelo di Gesù Cristo» (Mc 1, 1), cioè la buona notizia che proviene da Dio ed ha come oggetto Cristo Gesù: egli è il Salvatore di tutte le genti, nella cui morte e risurrezione il cielo e la terra si sono riconciliati per sempre.

Al fedele che si reca al santuario devono essere proposti, direttamente o indirettamente, i punti fondamentali del messaggio evangelico: il discorso programmatico della montagna, l’annuncio gioioso della bontà e paternità di Dio nonché della sua amorosa provvidenza, il comandamento dell’amore, il significato salvifico della croce, il destino trascendente della vita umana.

Molti santuari sono effettivamente luogo di diffusione del Vangelo: nelle forme più svariate il messaggio di Cristo è trasmesso ai fedeli come monito alla conversione, invito alla sequela, esortazione alla perseveranza, richiamo alle esigenze della giustizia, parola di consolazione e di pace.

Non va dimenticata la cooperazione che molti santuari, sostenendo in vario modo le missioni “ad gentes”,  prestano all’opera evangelizzatrice della Chiesa.

Il santuario luogo della carità

275. La funzione esemplare del santuario si esplica anche nell’esercizio della carità. Ogni santuario infatti, in quanto celebra la presenza misericordiosa del Signore, l’esemplarità e l’intercessione della Vergine e dei Santi, «è per se stesso un focolare che irradia la luce e il calore della carità».[399] Nell’accezione comune e nel linguaggio degli umili «la carità è l’amore espresso nel nome di Dio».[400] Essa trova le sue concrete manifestazioni nell’accoglienza e nella misericordia, nella solidarietà e nella condivisione, nell’aiuto e nel dono.

Per la generosità dei fedeli e lo zelo dei responsabili, molti santuari sono luogo di mediazione tra l’amore di Dio e la carità fraterna da una parte e i bisogni dell’uomo dall’altra. In essi fiorisce la carità di Cristo e sembrano prolungarsi la sollecitudine materna della Vergine e la solidale vicinanza dei Santi, che si esprimono, per esempio:

– nella creazione e nel sostegno permanente di centri di assistenza sociale, quali ospedali, istituti per l’educazione di fanciulli bisognosi e case per persone anziane; 

– «nell’accoglienza e ospitalità verso i pellegrini, soprattutto i più poveri, cui sono offerti, nella misura del possibile, spazi e strutture per un momento di ristoro;

– nella sollecitudine e premura verso i pellegrini anziani, infermi, portatori di handicap, ai quali si riservano le attenzioni più delicate, i posti migliori nei santuari; per essi si organizzano, negli orari più adatti, celebrazioni che, senza isolarli dagli altri fedeli, tengono conto della loro peculiare condizione; per essi si instaura una fattiva collaborazione con le associazioni che generosamente curano il loro trasporto;  

– nella disponibilità e nel servizio offerto a tutti coloro che accedono al santuario: fedeli colti e incolti, poveri e ricchi, connazionali e stranieri».[401]

Il santuario luogo di cultura

276. Spesso il santuario è già, in se stesso, un “bene culturale”: in esso infatti si riscontrano, quasi raccolte in sintesi, numerose manifestazioni della cultura delle popolazioni circostanti: testimonianze storiche e artistiche, caratteristici moduli linguistici e letterari, tipiche espressioni musicali.

Sotto questo profilo il santuario costituisce non di rado un valido punto di riferimento per definire l’identità culturale di un popolo. E allorché nel santuario si attua una armoniosa sintesi tra natura e grazia, pietà ed arte, esso può proporsi come espressione della via pulchritudinis per la contemplazione della bellezza di Dio, del mistero della Tota pulchra, della meravigliosa vicenda dei Santi.

Inoltre si va sempre più affermando la tendenza a fare del santuario uno specifico “centro di cultura”, un luogo in cui si organizzano corsi di studio e conferenze, dove si assumono interessanti iniziative editoriali e si promuovono sacre rappresentazioni, concerti, mostre e altre manifestazioni artistiche e letterarie.

L’attività culturale del santuario si configura come una iniziativa collaterale per la promozione umana; essa si affianca utilmente alla sua funzione primaria di luogo per il culto divino, per l’opera di evangelizzazione, per l’esercizio della carità. In tal senso, i responsabili dei santuari veglieranno affinché la dimensione culturale non abbia il sopravvento su quella cultuale.

Il santuario luogo di impegno ecumenico

277. Il santuario, in quanto luogo di annuncio della Parola, di invito alla conversione, di intercessione, di intensa vita liturgica, di esercizio della carità è un “bene spirituale” condivisibile, in una certa misura e secondo le indicazioni del Direttorio ecumenico,[402] con i fratelli e le sorelle che non sono in piena comunione con la Chiesa cattolica.

In questa luce il santuario deve essere un luogo di impegno ecumenico, sensibile alla grave e urgente istanza dell’unità di tutti i credenti in Cristo, unico Signore e Salvatore.

Pertanto i rettori dei santuari aiutino i pellegrini a prendere coscienza di quell’«ecumenismo spirituale», di cui parlano il decreto conciliare Unitatis redintegratio[403] e il Direttorio ecumenico,[404] per il quale i cristiani devono avere sempre presente lo scopo dell’unità nelle preghiere, nella celebrazione eucaristica, nella vita quotidiana.[405] Perciò nei santuari dovrebbe essere intensificata la preghiera a tal fine in alcuni periodi particolari come la settimana di preghiera per l’unità dei cristiani e nei giorni tra l’Ascensione del Signore e la Pentecoste, nei quali si ricorda la comunità di Gerusalemme riunita in preghiera e in attesa per la venuta dello Spirito Santo, che la confermerà nell’unità e nella sua missione universale.[406]

Inoltre, i rettori dei santuari promuovano, ogni qualvolta se ne offra l’opportunità, incontri di preghiera fra i cristiani delle varie confessioni; in tali incontri, preparati con cura e in collaborazione, dovrà primeggiare la Parola di Dio e dovranno essere valorizzate le espressioni di preghiera proprie delle varie confessioni cristiane.

Secondo le circostanze, sarà talvolta opportuno estendere eccezionalmente l’attenzione anche ai membri delle altre religioni: vi sono infatti santuari frequentati da non cristiani, che vi accorrono attratti dai valori propri del cristianesimo. Tutti gli atti di culto che si svolgono nei santuari debbono essere chiaramente coerenti con l’identità cattolica, senza mai nascondere ciò che appartiene alla fede della Chiesa.

278. L’impegno ecumenico assume aspetti particolari quando si tratta di santuari dedicati alla beata Vergine. Sul piano soprannaturale infatti santa Maria, che ha dato alla luce il Salvatore di tutte le genti ed è stata la sua prima e perfetta discepola, svolge certamente una missione di concordia e di unità nei confronti dei discepoli di suo Figlio, per cui la Chiesa cattolica la saluta quale Mater unitatis;[407] sul piano storico, invece, la figura di Maria, a causa delle diverse interpretazioni del suo ruolo nella storia della salvezza, è stata spesso motivo di contrasto e di divisione fra i cristiani. Si deve tuttavia riconoscere che, sul versante mariano, il dialogo ecumenico sta oggi dando i suoi frutti.

Il pellegrinaggio

279. Il pellegrinaggio, esperienza religiosa universale,[408] è un’espressione tipica della pietà popolare, strettamente connessa con il santuario, della cui vita costituisce una componente indispensabile:[409] il pellegrino ha bisogno del santuario e il santuario del pellegrino.

Pellegrinaggi biblici

280. Nella Bibbia risaltano, per il loro simbolismo religioso, i pellegrinaggi dei patriarchi Abramo, Isacco, Giacobbe a Sichem (cf. Gn 12, 6-7; 33, 18-20), Betel (cf. Gn 28, 10-22; 35, 1-15) e Mamre (Gn 13, 18; 18, 1-15), dove Dio si manifestò ad essi e si impegnò a dare la “terra promessa”.

Per le tribù uscite dall’Egitto, il Sinai, il monte della teofania a Mosè (cf. Es 19-20), divenne un luogo sacro e l’intera traversata del deserto sinaitico ebbe per esse il senso di un lungo viaggio verso la terra sacra della promessa: viaggio benedetto da Dio, che, nell’Arca (cf. Nm 10, 33-36) e nel Tabernacolo (cf. 2Sam 7,6), simboli della sua presenza, cammina con il suo popolo, lo guida e lo protegge per mezzo della Nube (cf. Nm 9, 15-23).

Gerusalemme, divenuta sede del Tempio e dell’Arca, passò ad essere la città-santuario degli Ebrei, la meta per eccellenza del desiderato «santo viaggio» (Sal 84, 6), in cui il pellegrino avanza «in mezzo ai canti di gioia di una moltitudine in festa» (Sal 42, 5) fino «alla casa di Dio», per comparire alla sua presenza (cf. Sal 84, 6-8).[410]

Tre volte all’anno i maschi di Israele dovevano «presentarsi al Signore» (cf. Es 23, 17), vale a dire recarsi al Tempio di Gerusalemme: ciò diede luogo a tre pellegrinaggi in occasione delle feste degli Azzimi (la Pasqua), delle Settimane (Pentecoste) e delle Tende; e ogni pia famiglia israelita si recava, come faceva la famiglia di Gesù (cf. Lc 2, 41), nella città santa per la celebrazione annuale della Pasqua. Durante la vita pubblica, anche Gesù si reca abitualmente pellegrino a Gerusalemme (cf. Gv 11, 55-56); è noto peraltro che l’evangelista Luca presenta l’azione salvifica di Gesù come un misterioso pellegrinaggio (cf. Lc 9, 51—19, 45), la cui meta intenzionale è Gerusalemme, la città messianica, il luogo del suo sacrificio pasquale e del suo esodo al Padre: «Sono uscito dal Padre e sono venuto nel mondo; ora lascio di nuovo il mondo e vado al Padre» (Gv 16, 28).

E proprio durante un raduno di pellegrini a Gerusalemme, di «Giudei osservanti di ogni nazione che è sotto il cielo» (At 2, 5), per celebrare la Pentecoste, la Chiesa inizia il suo cammino missionario.

Il pellegrinaggio cristiano

281. Da quando Gesù ha compiuto in se stesso il mistero del Tempio (cf. Gv 2, 22-23) ed è passato da questo mondo al Padre (cf. Gv 13, 1), compiendo nella sua persona l’esodo definitivo, per i suoi discepoli non esiste più alcun pellegrinaggio obbligatorio: tutta la loro vita è cammino verso il santuario celeste e la Chiesa stessa sa di essere «pellegrina sulla terra».[411]

Tuttavia la Chiesa, per la consonanza esistente tra la dottrina di Cristo e i valori spirituali del pellegrinaggio, non solo ha ritenuto legittima questa forma di pietà, ma l’ha incoraggiata lungo i secoli.

282. Nei primi tre secoli il pellegrinaggio, salvo qualche eccezione, non fa parte delle espressioni cultuali del cristianesimo: la Chiesa temeva la contaminazione con pratiche religiose del giudaismo e del paganesimo, nei quali la pratica del pellegrinaggio era in auge.

Tuttavia in questi secoli si pongono le basi per una ripresa, con impronta cristiana, della pratica del pellegrinaggio: il culto dei martiri, presso le cui tombe si recavano i fedeli per venerare le spoglie mortali di questi insigni testimoni di Cristo, determinerà progressivamente e logicamente il passaggio dalla “visita devota” al “pellegrinaggio votivo”.

283. Dopo la pace costantiniana, in seguito all’identificazione dei luoghi e al ritrovamento di reliquie della Passione del Signore, il pellegrinaggio cristiano conosce una svolta: è soprattutto la visita alla Palestina che, per i suoi “luoghi santi”, diviene tutta, a cominciare da Gerusalemme, Terrasanta. Lo testimoniano i resoconti di famosi pellegrini, quali l’Itinerarium Burdigalense e l’Itinerarium Egeriae, entrambi del IV secolo.

Sui “luoghi santi” si costruiscono basiliche, quali l’Anastasis edificata sul Santo Sepolcro e il Martyrium sul Monte Calvario, che costituiscono un forte richiamo per i pellegrini. Anche i luoghi dell’infanzia del Salvatore e della sua vita pubblica diventano meta di pellegrinaggi, che si estendono pure nei luoghi sacri dell’Antico Testamento, quale il Monte Sinai.

284. Il Medioevo è stata l’epoca aurea per i pellegrinaggi; essi, oltre alla preminente funzione religiosa, hanno svolto un’azione straordinaria in rapporto all’edificazione della cristianità occidentale, all’amalgama dei vari popoli, all’interscambio dei valori delle diverse civiltà europee.

I centri di pellegrinaggio sono numerosi. Innanzitutto, Gerusalemme, la quale, nonostante l’occupazione islamica, continua ad essere un luogo di grande attrazione spirituale, anzi è all’origine del fenomeno delle crociate, il cui motivo ispiratore fu appunto quello di permettere ai fedeli di visitare il sepolcro di Cristo. Anche le reliquie della passione del Signore, come la tunica, il volto santo, la scala santa, la sindone attirano innumerevoli fedeli e pellegrini. A Roma si recano i “romei” per venerare le memorie degli apostoli Pietro e Paolo (ad limina Apostolorum), per visitare le catacombe e le basiliche, per riconoscere il servizio del Successore di Pietro in favore della Chiesa universale (ad Petri sedem). Frequentatissimo nei secoli IX-XVI, ed anche oggi, è Santiago de Compostela, verso il quale convergono da diversi paesi “cammini” vari, costituitisi in seguito ad una visione del pellegrinaggio a sua volta religiosa, sociale, e caritativa. Tra altri si possono nominare Tours, dove è la tomba di san Martino, venerato fondatore di quella Chiesa; Canterbury, dove san Tommaso Becket consumò il suo martirio, che ebbe grande risonanza in tutta Europa; il Monte Gargano in Puglia, S. Michele della Chiusa in Piemonte, il Mont Saint-Michel in Normandia, dedicati all’arcangelo Michele; Walsingham, Rocamadour e Loreto, sedi di celebri santuari mariani.

285. Nell’epoca moderna, per il mutato clima culturale, per le vicende occasionate dal movimento protestante e per l’influsso dell’illuminismo, il pellegrinaggio subisce un declino: il “viaggio al paese lontano” diventa “pellegrinaggio spirituale”, “cammino interiore” o “processione simbolica”, consistente in un breve percorso, come nel caso della Via Crucis.

A partire dalla seconda metà dell’Ottocento si assiste ad una ripresa del pellegrinaggio, ma cambia in parte la sua fisionomia: esso ha come meta santuari che sono particolari espressioni dell’identità della fede e della cultura di una nazione; tale è il caso, ad esempio, dei santuari di Altötting, Antipolo, Aparecida, Assisi, Caacupé, Chartres, Coromoto, Czestochowa, Ernakulam-Angamaly, Fatima, Guadalupe, Kevelaer, Knock, La Vang, Loreto, Lourdes, Mariazell, Marienberg, Montevergine, Montserrat, Nagasaki, Namugongo, Padova, Pompei, San Giovanni Rotondo, Washington, Yamoussoukro, eccetera.

Spiritualità del pellegrinaggio

286. Nonostante i mutamenti subiti nel corso dei secoli, il pellegrinaggio mantiene, anche nel nostro tempo, i tratti essenziali che ne determinarono la spiritualità.

Dimensione escatologica. Essa è essenziale e originaria: il pellegrinaggio, “cammino verso il santuario”, è momento e parabola del cammino verso il Regno; il pellegrinaggio infatti aiuta a prendere coscienza della prospettiva escatologica in cui si muove il cristiano, homo viator: tra l’oscurità della fede e la sete della visione, tra il tempo angusto e l’aspirazione alla vita senza fine, tra la fatica del cammino e l’attesa del riposo, tra il pianto dell’esilio e l’anelito alla gioia della patria, tra l’affanno dell’attività e il desiderio della serena contemplazione.[412]

L’evento dell’esodo, cammino di Israele verso la terra promessa, si riflette anche nella spiritualità del pellegrinaggio: il pellegrino sa che «non abbiamo quaggiù una città stabile» (Eb 13, 14), perciò, al di là della meta immediata del santuario, avanza, attraverso il deserto della vita, verso il Cielo, vera Terra promessa.

Dimensione penitenziale. Il pellegrinaggio si configura come un “cammino di conversione”: camminando verso il santuario, il pellegrino compie un percorso che va dalla presa di coscienza del proprio peccato e dei legami che lo vincolano a cose effimere e inutili al raggiungimento della libertà interiore e alla comprensione del significato profondo della vita.

Come è stato detto, per molti fedeli la visita al santuario costituisce un’occasione propizia, spesso ricercata, per accostarsi al sacramento della Penitenza[413] e il pellegrinaggio stesso è stato inteso e proposto nel passato – ma anche nel nostro tempo – come un’opera penitenziale.

Peraltro, quando il pellegrinaggio è compiuto in modo genuino, il fedele ritorna dal santuario con il proposito di “cambiare vita”, di orientarla più decisamente verso Dio, di dare ad essa una più marcata prospettiva trascendente.

Dimensione festiva. Nel pellegrinaggio la dimensione penitenziale coesiste con la dimensione festiva: anch’essa è nel cuore del pellegrinaggio, in cui si riscontrano non pochi motivi antropologici della festa.

La gioia del pellegrinaggio cristiano è prolungamento della letizia del pio pellegrino di Israele: «Quale gioia, quando mi dissero: “Andremo alla casa del Signore”» (Sal 122, 1); è sollievo per la rottura della monotonia quotidiana nella prospettiva di un momento diverso; è alleggerimento del peso della vita, che per molti, soprattutto per i poveri, è fardello pesante; è occasione per esprimere la fraternità cristiana, per dare spazio a momenti di convivenza e di amicizia, per liberare manifestazioni di spontaneità spesso represse.

Dimensione cultuale. Il pellegrinaggio è essenzialmente un atto di culto: il pellegrino cammina verso il santuario per andare incontro a Dio, per stare alla sua presenza rendendogli l’ossequio della sua adorazione e aprendogli il cuore.

Nel santuario il pellegrino compie numerosi atti di culto appartenenti alla sfera sia della Liturgia sia della pietà popolare. La sua preghiera assume forme varie: di lode e adorazione al Signore per la sua bontà e la sua santità; di ringraziamento per i doni ricevuti; di scioglimento di un voto, a cui il pellegrino si era obbligato nei confronti del Signore; di implorazione di grazie necessarie per la vita; di richiesta di perdono per i peccati commessi.

Molto spesso la preghiera del pellegrino è rivolta alla beata Vergine, agli Angeli e ai Santi, riconosciuti validi intercessori presso l’Altissimo. Peraltro le icone venerate nel santuario sono segno della presenza della Madre e dei Santi accanto al Signore glorioso, «sempre vivo per intercedere» (Eb 7, 25) in favore degli uomini e sempre presente nella comunità riunita nel suo nome (cf. Mt 18, 20; 28, 20). L’immagine sacra del santuario, sia essa di Cristo, della Vergine, degli Angeli o dei Santi, è segno santo della divina presenza e dell’amore provvidente di Dio; è testimone della preghiera che di generazione in generazione si è levata davanti ad essa come voce supplice del bisognoso, gemito dell’afflitto, giubilo riconoscente di chi ha ottenuto grazia e misericordia.

Dimensione apostolica. L’itineranza del pellegrino ripropone, in un certo senso, quella di Gesù e dei suoi discepoli, che percorrono le strade della Palestina per annunciare il Vangelo di salvezza. Sotto questo profilo il pellegrinaggio è un annuncio di fede e i pellegrini divengono «araldi itineranti di Cristo».[414]

Dimensione comunionale. Il pellegrino che si reca al santuario è in comunione di fede e di carità non solo con i compagni con i quali compie il «santo viaggio» (cf. Sal 84, 6), ma con il Signore stesso, che cammina con lui come camminò al fianco dei discepoli di Emmaus (cf. Lc 24, 13-35); con la sua comunità di provenienza e, attraverso di essa, con la Chiesa dimorante nel cielo e pellegrinante sulla terra; con i fedeli che, lungo i secoli, hanno pregato nel santuario; con la natura, che circonda il santuario, di cui ammira la bellezza e che si sente portato a rispettare; con l’umanità, la cui sofferenza e la cui speranza si manifestano variamente nel santuario, e il cui ingegno e la cui arte hanno lasciato in esso molteplici segni.

Svolgimento del pellegrinaggio

287. Come il santuario è un luogo di preghiera, così il pellegrinaggio è un cammino di preghiera. In ogni sua tappa la preghiera dovrà animare il pellegrinaggio e la Parola di Dio esserne luce e guida, nutrimento e sostegno.

Il buon esito di un pellegrinaggio, in quanto manifestazione cultuale, e gli stessi frutti spirituali che da esso si attendono sono assicurati dall’ordinato svolgimento delle celebrazioni e da una adeguata sottolineatura delle sue varie fasi.

La partenza del pellegrinaggio sarà opportunamente caratterizzata da un momento di preghiera, compiuto nella chiesa parrocchiale oppure in un’altra più adatta, consistente nella celebrazione dell’Eucaristia o di una parte della Liturgia delle Ore[415] o in una peculiare benedizione dei pellegrini.[416]

L’ultimo tratto del cammino sarà animato da più intensa preghiera; è consigliabile che quell’ultimo tratto, quando il santuario è già in vista, sia percorso a piedi, processionalmente, pregando, cantando, sostando presso le edicole che eventualmente sorgono lungo il tragitto.

L’accoglienza dei pellegrini potrà dar luogo a una sorta di “liturgia della soglia”, che ponga l’incontro tra i pellegrini e i custodi del santuario su un piano squisitamente di fede; ove sia possibile, questi ultimi muoveranno incontro ai pellegrini, per compiere con loro l’ultimo tratto del cammino.

La permanenza nel santuario dovrà ovviamente costituire il momento più intenso del pellegrinaggio e sarà caratterizzata dall’impegno di conversione, opportunamente ratificato dal sacramento della riconciliazione; da peculiari espressioni di preghiera quali il ringraziamento, la supplica o la richiesta di intercessione, in rapporto alle caratteristiche del santuario e agli scopi del pellegrinaggio; dalla celebrazione dell’Eucaristia, culmine del pellegrinaggio stesso.[417]

La conclusione del pellegrinaggio sarà caratterizzata convenientemente da un momento di preghiera, nello stesso santuario o nella chiesa da cui esso è partito;[418] i fedeli ringrazieranno Dio del dono del pellegrinaggio e chiederanno al Signore l’aiuto necessario per vivere con più generoso impegno, una volta tornati nelle loro case, la vocazione cristiana.

Dall’antichità, il pellegrino desidera portare con sé dei “ricordi” del santuario visitato. Si avrà cura che oggetti, immagini, libri, trasmettano l’autentico spirito del luogo santo. Si deve inoltre far sì che i punti vendita non si trovino all’interno dell’area sacra del santuario né abbiano l’apparenza di mercato.

 

CONCLUSIONE

288. Questo Direttorio, nelle due parti che lo compongono, presenta molte indicazioni, proposte e orientamenti per favorire e illuminare, in armonia con la Liturgia, la variegata realtà della pietà e religiosità popolare.

Facendo riferimento a tradizioni e circostanze diverse, come a pii esercizi e devozioni di varia indole e natura, il Direttorio intende fornire i presupposti fondamentali, ricordare le direttive e dare suggerimenti in vista di una fruttuosa azione pastorale.

E’ compito dei Vescovi, con l’aiuto dei loro diretti collaboratori, in modo speciale i rettori dei santuari, stabilire norme e dare orientamenti pratici, tenendo conto delle tradizioni locali e di particolari espressioni di religiosità e pietà popolare.


[1] SC10.

[2] Cf. SC 12 e 13.

[3] Cf. SC 13

[4] Cf. S. CONGREGAZIONE DEI RITI, Istruzione Eucharisticum mysterium (25.4.1967), 58-67; PAOLO VI, Esortazione apostolica Marialis cultus (2.2.1974), 24-58; Esortazione apostolica Evangelii nuntiandi (8.12.1975), 48; GIOVANNI PAOLO II, Esortazione apostolica Catechesi tradendae (16.10.1979), 54; Esortazione apostolica Familiaris consortio (22.11.1981), 59-62; Congregazione per il Clero,  Direttorio Generale per la Catechesi (15.8.1997), Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1997, nn. 195-196.

[5] Si veda, ad esempio, III CONFERENCIA GENERAL DEL EPISCOPADO LATINO-AMERICANO, Documento de Puebla, 444-469, 910-915, 935-937, 959-963; CONFERENCIA EPISCOPAL DE ESPAÑA, Documento pastoral de la Comisión episcopal de Liturgia, Evangelización y renovación de la piedad popular, Madrid 1987; Liturgia y piedad popular, Directorio Litúrgico-Pastoral, Secretariado Nacional de Liturgia, Madrid 1989; CONFERENCIA GENERAL DEL EPISCOPADO LATINO-AMERICANO, Documento de Santo Domingo, 36, 39,53.

[6] GIOVANNI PAOLO II, Lettera apostolica Vicesimus quintus annus (4.12.1988), 18.

[7] Giovanni Paolo II, Costituzione apostolica Pastor Bonus (28.6.1988), 70.

[8] Cf. LG 21; SC 41; Decreto Christus Dominus, 15; S. CONGREGAZIONE PER I VESCOVI, Directorium de pastorali ministerio Episcoporum, Typis Polyglottis vaticanis 1973, 75-76, 82, 90-91; CIC, can. 835, § 1 e can. 839, § 2; GIOVANNI PAOLO II, Lettera apostolica Vicesimus quintus annus, 21.

[9] Si consideri ad esempio, che nell’Esortazione apostolica Evangelii nuntiandi, al n. 48, trattando di tale materia, dopo averne richiamata la ricchezza di valori, Paolo VI così si esprime: «a motivo di questi aspetti, la chiamiamo volentieri pietà popolare, cioè religione del popolo, piuttosto che religiosità»; l’Esortazione apostolica Catechesi tradendae, al n. 54, adotta l’espressione “pietà popolare”; il Codice, can. 1234, § 1, usa l’espressione “pietà popolare”; nella Lettera apostolica Vicesimus quintus annus, Giovanni Paolo II usa l’espressione “pietà popolare”; il Catechismo della Chiesa cattolica, nn. 1674-1676, usa l’espressione “religiosità popolare”, ma conosce anche “pietà popolare” (n. 1679);la IV Istruzione per una corretta applicazione della Costituzione conciliare sulla sacra Liturgia (nn. 37-40) Varietates legitimae, pubblicata dalla Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti (25.1.1994), al n. 45 usa “pietà popolare”.

[10] Cf. SC 13.

[11] Cf. SC 13.

[12] SC 13.

[13] Cf. CONCILIO DI TRENTO, Decretum de invocatione, veneratione et reliquiis Sanctorum, et sacris imaginibus (3 dicembre 1563), in DS 1821-1825; PIO XII, Lettera enciclica Mediator Dei, in AAS 39 (1947) 581-582; SC 104; LG 50.

[14] GIOVANNI PAOLO II, Omelia pronunziata durante la Celebrazione della Parola a La Serena (Chile), 2, in Insegnamenti di Giovanni Paolo II, X/1 (1987), Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1988, p. 1078.

[15] PAOLO VI, Esortazione apostolica Evangelii nuntiandi, 48.

[16] SC 7.

[17] congregazione per il culto divino e la disciplina dEi sacramenti, IV Istruzione per una corretta applicazione della Costituzione conciliare sulla sacra Liturgia (nn. 37-40) Varietates legitimae, 48.

[18] Cf. CIC, can. 826, § 3.

[19]Cf. SC 118.

[20] Cf. CONCILIO DI NICEA II, Definitio de sacris imaginibus (23 oct. 787), in DS 601; CONCILIO DI TRENTO, Decretum de invocatione, veneratione et reliquiis Sanctorum, et sacris imaginibus (3 dec. 1563), in DS 1823-1825.

[21] Cf. SC 124-125.

[22] Cf. CIC, can. 1188.

[23] Cf. GIOVANNI PAOLO II, Lettera apostolica Vicesimus quintus annus, 18; congregazione per il culto divino e la disciplina dEi sacramenti, IV Istruzione per una corretta applicazione della Costituzione conciliare sulla sacra Liturgia (nn. 37-40) Varietates legitimae, 45.

[24] Cf. CIC, can. 826, § 3.

[25] Ad una matrice popolare sono riconducibili, ad esempio, la Oblatio casei et olivarum (n. 6) e la Benedictio fructuum (n. 32), in B. BOTTE (ed.), La tradition apostolique de saint Hippolyte. Essai de reconstitution, Aschendorff, Münster Westfalen, ed. 1989,  pp. 18, 78.

[26] Sono note alcune espressioni di culto ai martiri di sicura ascendenza popolare: lucerne che ardevano presso il sepolcro; serti di foglie e di fiori, che davano una nota festiva al sacro luogo; profumi e aromi sparsi sulla tomba del martire; oggetti vari e soprattutto stoffe, denominate brandea, palliola, sanctuaria, nomina  che, messi a contatto con la tomba venerata, erano ritenuti preziose, autentiche reliquie; la prassi del refrigerium presso i sepolcri dei martiri.

[27] Il celebre apocrifo De Nativitate Mariae (secolo II), più noto come Protoevangelium Iacobi ed i numerosi apocrifi De Dormitione Mariae, le cui radici affondano nel secolo II, sono essi stessi testimoni della pietà delle antiche comunità cristiane verso la Madre del Signore. Ambedue hanno accolto, secondo gli studiosi, non poche tradizioni popolari ed hanno avuto un significativo influsso nello sviluppo della pietà mariana.

[28] «[Placuit] ut nemo in precibus vel Patrem pro Filio, vel Filium pro Patre nominet. Et cum altari assistitur, semper ad patrem dirigatur oratio. Et quicumque sibi preces aliunde describit, non eis utatur, nisi prius cum instructioribus fratribus contulerit»: CONCILIO DI CARTAGINE III, can. 23, in I. D. MANSI, Sacrorum Conciliorum nova et amplissima collectio, III, Florentiae 1759, col. 884; «Placuit etiam hoc, ut preces quae probatae fuerint in concilio, sive praefationes sive commendationes, seu manus impositiones, ab omnibus celebrentur, nec aliae omnino contra fidem praeferantur: sed quaecumque a prudentioribus fuerint collectae, dicantur»: Codex canonum Ecclesiae Africae, can. 103 (ibid., col. 807).

[29] In DS 600-603.

[30]Testo in Annales Camaldulenses, IX, Venezia 1773, coll. 612-719.

[31] Cf. CONCILIO LATERANENSE V, [Bulla reformationis Curiae], in Conciliorum Oecumenicorum Decreta, a cura dell’Istituto per le scienze religiose di Bologna, Edizioni Dehoniane, Bologna 1991, p. 625.

[32] Così nel Decretum de sacramentis (DS 1600-1630) e  nel Decretum de ss. Eucharistia (DS 1635-1650), nelle trattazioni riguardanti la Doctrina de sacramento pænitentiæ (DS 1667-1693), la Doctrina de sacramento extremæ unctionis (DS 1694-1700), la Doctrina de communione sub utraque specie et parvulorum (DS 1725-1730), la Doctrina de ss. Missæ sacrificio (DS 1738-1750), che tocca questioni essenziali della fede cattolica sull’Eucaristia come sacrificio e punti specifici della sua celebrazione rituale, il Decretum super petitione concessionis calicis (DS 1760), la Doctrina de sacramento ordinis (DS 1763-1770), la Doctrina de sacramento matrimonii (DS 1797-1800), il Decretum de purgatorio (DS 1820), il Decretum de invocatione, veneratione et reliquiis Sanctorum, et sacris imaginibus (DS 1821-1825), di larga applicazione nel campo della pietà popolare.

[33] In Conciliorum Oecumenicorum Decreta, cit., pp. 784-796.

[34] Il 9 luglio 1568 Pio V, con la bolla Quod a nobis, promulgò il Breviarium Romanum ex decreto SS. Concilii restitutum; con la bolla Quo primum tempore del 14 luglio 1570, Pio V promulgò il Missale Romanum ex decreto sacrosancti Concilii tridentini restitutum; il 16 giugno 1614, Paolo V completava la riforma dei libri liturgici promulgando, con la Lettera apostolica Apostolicae Sedi, il Rituale Romanum.

[35] La Sacra Congregatio Rituum fu istituita da Sisto V con la Costituzione apostolica Immensa aeterni Dei del 22 gennaio 1588.

[36] Nella bolla di promulgazione del Missale Romanum si afferma esplicitamente che gli esperti della Sede Apostolica «ad pristinam Missale ipsum sanctorum Patrum normam ac ritum restituerunt».

[37] “Motu proprio” Tra le sollecitudini (22.11.1903), in Pii X Pontificis Maximi Acta, I, Akademische Druck – u. Verlagsanstalt, Graz 1971, p. 77.

[38] Cf. PIO XII, Allocuzione ai partecipanti al I Congresso Internazionale di Liturgia pastorale di Assisi-Roma (22.9.1956), in AAS 48 (1956)  712; SC 43.

[39] Tra essi Lambert Beauduin (+ 1960), Odo Casel (+ 1948), Pius Parsch (+ 1954), Bernard Botte (+ 1960), Romano Guardini (+ 1968), Josef A. Jungmann (+ 1975), Cipriano Vagaggini (+ 1999), Aimé-Georges Martimort (+ 2000).

[40] In AAS 39 (1947) 521-600.

[41] Cf. SC 7, 10, 13.

[42] Cf. SC 13.

[43] Cf. GIOVANNI PAOLO II, Omelia pronunziata durante la Celebrazione della Parola a La Serena (Chile), 2, in Insegnamenti di Giovanni Paolo II, X/1 (1987), cit., p. 1078.

[44] SC 10.

[45] SC 7.

[46] Cf. SC 5-7.

[47] SC 2.

[48] Cf. sopra n. 9.

[49]Cf. CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, Lettera «Orationis forma» ai Vescovi della Chiesa cattolica su alcuni aspetti della meditazione cristiana (15.10.1989): AAS 82 (1990) 362-379.

[50] SC 13

[51] III CONFERENCIA GENERAL DEL EPISCOPADO LATINO-AMERICANO, Documento de Puebla, 465 e.

[52] Cf. ibid.

[53]Cf. Giovanni Paolo II, Lettera apostolica Vicesimus Quintus Annus, 15.

[54]Giovanni Paolo II, nel Messaggio rivolto alla Plenaria della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti (21 settembre 2001), dopo aver richiamato la centralità e insostituibilità della Liturgia per la vita della Chiesa, ribadiva «che la religiosità popolare ha il suo naturale coronamento nella celebrazione liturgica, verso la quale, pur non confluendovi abitualmente, deve idealmente orientarsi, e ciò deve essere illustrato con un’appropriata catechesi»: in Notitiae 37 (2001) 403. Cf. anche Congregazione per il Clero, Direttorio generale per la catechesi, cit., 195-196.

[55] SC 12.

[56] Cf. sopra n. 2.

[57] GIOVANNI PAOLO II, Omelia pronunziata nel santuario della Vergine Maria “de Zapopan”, 2, in AAS 71 (1979)  228.

[58] Cf. PAOLO VI, Esortazione apostolica Marialis cultus, 31; GIOVANNI PAOLO II, Allocuzione ai Vescovi della Basilicata e della Puglia in visita “ad limina”, 4, in AAS 74 (1982)  211-213.

[59] GIOVANNI PAOLO II, Omelia pronunziata durante la Celebrazione della Parola a La Serena (Chile), 2, in Insegnamenti di Giovanni Paolo II, X/1 (1987), cit., p. 1078.

[60] PAOLO VI, Esortazione apostolica Evangelii nuntiandi, 48.

[61] Cf. GIOVANNI PAOLO II, Esortazione apostolica Catechesi tradendae, 54.

[62] III CONFERENCIA GENERAL DEL EPISCOPADO LATINO-AMERICANO, Documento de Puebla, 913.

[63] PAOLO VI, Esortazione apostolica Evangelii nuntiandi, 48.

[64] III CONFERENCIA GENERAL DEL EPISCOPADO LATINO-AMERICANO, Documento de Puebla, 913.

[65] Cf. ibid., 912.

[66] Cf. GIOVANNI PAOLO II, Omelia pronunziata nel santuario della Vergine Maria “de Zapopan”, 2, in AAS 71 (1979) 228-229; III CONFERENCIA GENERAL DEL EPISCOPADO LATINO-AMERICANO, Documento de Puebla, 283.

[67] GIOVANNI PAOLO II, Esortazione apostolica Catechesi tradendae, 54.

[68] Giovanni Paolo II, Discorso di apertura della IV Conferenza Generale dell’Episcopato Latinoamericano a Santo Domingo (12.10.1992), 12: Insegnamenti di Giovanni Paolo II, XV/2 (1992), Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1994, p.323.

[69] III CONFERENCIA GENERAL DEL EPISCOPADO LATINO-AMERICANO, Documento de Puebla, 913.

[70]Ibid., 960.

[71] GIOVANNI PAOLO II, Allocuzione alla Conferenza dei Vescovi dell’Abruzzo e Molise in visita “ad limina”, 3, in AAS 78 (1986) 1140.

[72] GIOVANNI PAOLO II, Discorso a Popayan (Colombia), in Insegnamenti di Giovanni Paolo II, IX/2 (1986), Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano  1986, p. 115.

[73] Cf. GIOVANNI PAOLO II, Lettera apostolica Vicesimus quintus annus, 18; Allocuzione alla Conferenza dei Vescovi dell’Abruzzo e Molise in visita “ad limina”, 6, in AAS 78 (1986) 1142; III CONFERENCIA GENERAL DEL EPISCOPADO LATINO-AMERICANO, Documento de Puebla, 458-459; CONGREGAZIONE PER IL CULTO DIVINO, Lettera circolare Orientamenti e proposte per la celebrazione dell’Anno mariano (3.4.1987), 68.

[74] GIOVANNI PAOLO II, Allocuzione alla Conferenza dei Vescovi dell’Abruzzo e Molise in visita “ad limina”, 6, in AAS 78 (1986) 1142.

[75] Cf. CONGREGAZIONE PER IL CULTO DIVINO E LA DISCIPLINA DEI SACRAMENTI, IV Istruzione per una corretta applicazione della Costituzione conciliare sulla sacra Liturgia (nn. 37-40) Varietates legitimae, 9-20.

[76] SC 12.

[77] Cf. Institutio generalis de Liturgia Horarum, 9.

[78] In riferimento alla Liturgia va compresa anche la seguente raccomandazione dell’Institutio generalis de Liturgia Horarum, 27: «E’ cosa lodevole che la famiglia, santuario domestico della Chiesa, oltre alle comuni preghiere celebri anche, secondo l’opportunità, qualche parte della Liturgia delle Ore, inserendosi così più intimamente nella Chiesa».

[79] GIOVANNI PAOLO II, Esortazione apostolica Familiaris consortio, 61.

[80] Cf. CIC, can. 301 e can. 312.

[81] Cf. SC 13; LG 67.

[82] Cf. SC 13.

[83] GIOVANNI PAOLO II, Omelia pronunziata durante la Celebrazione della Parola a La Serena (Chile), 2, in Insegnamenti di Giovanni Paolo II, X/1 (1987), cit., p. 1079.

[84] Cf. SC 13.

[85] SC 13.

[86] Cf. CIC, can. 23.

[87] Cf. EI, Aliae concessiones,  pp. 50-77.

[88] Cf. SC 7.

[89] CONGREGAZIONE PER IL CULTO DIVINO, Lettera circolare Orientamenti e proposte per la celebrazione dell’Anno mariano, 54.

[90] Cf. PAOLO VI, Esortazione apostolica Marialis cultus, 31, 48.

[91] CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA, COMMISSIONE EPISCOPALE PER LA LITURGIA, Nota pastorale Il rinnovamento liturgico in Italia (23.9.1983) 18, in Enchiridion CEI, 3, Edizioni Dehoniane, Bologna 1986,  p. 886.

[92] Cf. PAOLO VI, Esortazione apostolica Marialis cultus, 31; III CONFERENCIA GENERAL DEL EPISCOPADO LATINO-AMERICANO, Documento de Puebla, 915.

[93] Cf. S. CONGREGANE PER I VESCOVI, Directorium de pastorali ministerio Episcoporum, cit., 91; PAOLO VI, Esortazione apostolica Marialis cultus, 24-38.

[94] Cf. CONCILIO VATICANO II, Costituzione Dei Verbum, 2.

[95] DS 150;  Missale Romanum, Ordo Missae, Symbolum Nicaeno-Constantinopolitanum.

[96]Ibid.

[97] S. CIPRIANO, De oratione dominica, 23: CSEL 3/1, Vindobonae 1868, p. 285.

[98] Cf. SC 5-7.

[99] Cf. SC 13; LG 67.

[100] Cf. CONCILIO VATICANO II, Costituzione Dei Verbum, 25.

[101]Ibid.

[102]Sull’argomento si veda l’intervento di J. RATZINGER, Commento teologico, in CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, Il messaggio di Fatima, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2000, pp. 32-44.

[103] Ibid., p. 35.

[104] Cf. Pontificio Consiglio della Cultura, Per una pastorale della Cultura, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1999, 28: « La pietà popolare rimane una delle principali espressioni di una vera inculturazione della fede, poiché in essa armonizzano la fede e la liturgia, il sentimento e le arti, mentre si afferma la coscienza della propria identità nelle tradizioni locali. Così, “l’America, che è stata storicamente ed è crogiolo di popoli, ha riconosciuto nel volto meticcio della Vergine di Tepeyac, in santa Maria di Guadalupe, un grande esempio di evangelizzazione perfettamente inculturata” (Ecclesia in America, n. 11). (…) La pietà popolare consente ad un popolo di esprimere la sua fede, i suoi rapporti con Dio e la sua Provvidenza, con la Vergine e i Santi, col prossimo, con i defunti, con la creazione, e rafforza la sua appartenenza alla Chiesa».

[105] Cf. CONGREGAZIONE PER IL CULTO DIVINO E LA DISCIPLINA DEI SACRAMENTI, IV Istruzione per una corretta applicazione della Costituzione conciliare sulla sacra Liturgia (nn. 37-40) Varietates legitimae,  45.

[106] Cf. SC 7, 13.

[107] Cf. sopra nn. 61-64.

[108] Cf. sopra n. 74.

[109] SC 102.

[110] PAOLO VI, Lettera apostolica Mysterii paschalis, in AAS 61 (1969) 222.

[111] SC 106. Cf. Calendarium Romanumex decreto Sacrosancti Oecumenici Concilii Vaticani II instauratum auctoritate Pauli PP. VI  promulgatum, Typis Polyglottis Vaticanis 1969, Normae universales, 4.

[112]Cf. ibid., 58.

[113]GIOVANNI PAOLO II, Lettera apostolica Dies Domini (31.5.1998), 80.

[114] Cf. CONCILIO VATICANO II, Costituzione Gaudium et spes, 34, 35, 67.

[115] Cf. PAOLO VI, Esortazione apostolica Marialis cultus, 4.

[116] Ibid.

[117] GIOVANNI PAOLO II, Discorso all’Angelus Domini del 24 gennaio 1999, Città del Messico.

[118] DS 150; Missale Romanum, Ordo Missae, Symbolum Nicaeno-Constantinopolitanum.

[119] Cf. Institutio generalis de Liturgia Horarum, 215.

[120] Cf. Actus consecrationis familiarum, in EI, Aliae concessiones, 1, p. 50.

[121] Cf. RITUALE ROMANUM, De Benedictionibus, Ordo benedictionis filiorum, Editio Typica, Typis Polyglottis Vaticanis 1985, 174-194.

[122] Cf. ibid., Ordo benedictionis desponsatorum, 195-204.

[123] Eretta da Leone XIII con la Lettera apostolica Neminem fugit (14 giugno 1892), in Leonis XIII Pontificis Maximi Acta, XII, Typographia Vaticana, Romae 1893, pp. 149-158; confermata da Giovanni Paolo II con decreto del Pontificium Consilium pro Laicis (25 novembre 1987).

[124] Cf. EI, Piae invocationes, p. 83.

[125] PRUDENZIO, Cathemerinon XII, 130: CCL 126, Turnholti 1966, p. 69; Liturgia Horarum: die 28 decembris, Ss. Innocentium, martyrum, Ad Laudes, Hymnus “Audit tyrannus anxius”.

[126] Cf. EI, Aliae concessiones, 26, p. 71.

[127] Missale Romanum, die 1 ianuarii, In octava Nativitatis Domini, Sollemnitas sanctae Dei Genetricis Mariae, Collecta.

[128] Cf. ibid., In Vigilia paschali, Praeparatio cerei.

[129] Cf. EI, Aliae concessiones, 26, p. 70.

[130] Nell’Oriente bizantino la festa è concentrata sul mistero della Hypapante, ossia sull’Incontro del Salvatore con coloro che è venuto a salvare, rappresentati nelle persone di Simeone e Anna, secondo le parole del Nunc dimittis (Lc 2,29-32), riprese incessantemente nei canti liturgici della festa: «Luce per illuminare le genti e gloria del tuo popolo Israele».

[131] RITUALE ROMANUM, De Benedictionibus, Ordo benedictionis mulieris ante partum, cit., 219-231.

[132] Ibid., Ordo benedictionis mulieris post partum, 236-253.

[133] PAOLO VI, Esortazione apostolica Marialis cultus, 7.

[134] Missale Romanum, Feria IV Cinerum, Collecta.

[135] Cf. CIC, cann. 989 e 920.

[136] Cf. RITUALE ROMANUM, Ordo unctionis infirmorum eorumque pastoralis curae, Editio Typica, Typis Polyglottis Vaticanis 1972, nn. 224-229.

[137] Cf. EI Aliae concessiones, 13, pp. 59-60.

[138] E’ il caso della “Via Crucis” contenuta nel Libro del pellegrino preparato dal Comitato Centrale per la celebrazione dell’Anno Santo 1975.

[139] Tale è il formulario usato dal Santo Padre Giovanni Paolo II per la “Via Crucis al Colosseo” negli anni 1991, 1992 e  1994.

[140] Cf. LEONE XIII, Lettera apostolica Deiparae Perdolentis, in Leonis XIII Pontificis Maximi Acta, III, Typographia Vaticana, Romae 1884, pp. 220-222.

[141] CONGREGAZIONE PER IL CULTO DIVINO, Lettera circolare sulla preparazione e celebrazione delle feste pasquali (16.1.1988), 27.

[142] Ibid., 28.

[143] S. AGOSTINO, Epistula 55, 24: CSEL 34/2, Vindobonae 1895, p. 195. Cf. S. CONGREGAZIONE DEI RITI, Decreto generale Maxima redempionis nostrae mysteria, in AAS 47 (1955) 338.

[144] CONGREGAZIONE PER IL CULTO DIVINO, Lettera circolare sulla preparazione e celebrazione delle feste pasquali, 38.

[145] La processione e la reposizione del Santissimo Sacramento non si facciano in quelle chiese in cui il Venerdì Santo non si celebra la Passione del Signore:Cf.Congregazione per il Culto Divino, Lettera circolare sulla preparazione e celebrazione delle feste pasquali, 54.

[146] Cf. CONGREGAZIONE PER IL CULTO DIVINO, Lettera circolare sulla preparazione e celebrazione delle feste pasquali, 55; S. CONGREGAZIONE DEI RITI, Istruzione sul culto eucaristico Eucharisticum mysterium, 49, in AAS 59 (1967) 566-567.

[147] Cf. CONGREGAZIONE PER IL CULTO DIVINO, Lettera circolare sulla preparazione e celebrazione delle feste pasquali, 55.

[148] Cf. ibid., 56.

[149] Cf. SC 5; S. AGOSTINO, Enarratio in Psalmum 138, 2: CCL 40, Turnholti 1956,  p. 1991.

[150] CONGREGAZIONE PER IL CULTO DIVINO, Lettera circolare sulla preparazione e celebrazione delle feste pasquali, 72.

[151] Ibid., 73.

[152] RUPERTO DI DEUTZ, De glorificatione Trinitatis, VII, 13: PL 169, 155D.

[153] Cf. Liturgia Horarum, Commune beatae Mariae Virginis, II Vesperae, Preces; Collectio missarum de beata Maria Virgine, I, Form. 15 : Beata Maria Virgo in Resurrectione Domini, Praefatio.

[154] Cf. sopra n. 143.

[155] Cf. RITUALE ROMANUM, De Benedictionibus, Ordo benedictionis mensae, cit., 782-784, 806-807.

[156]Cf. Ibid.,Ordo benedictionis annuae familiarum in propris domibus, 68-89.

[157]Cf. Notificazione della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti (5.5.2000): cf. L’Osservatore Romano 24 maggio 2000, p. 4.

[158]GIOVANNI PAOLO II, Lettera enciclica Dives in misericordia, 8.

[159] Cf. Pontificio Consiglio per l’unità dei cristiani, Directoire pour l’application des Principes et des Normes sur l’Oecuménisme (25.3.1993), 110: AAS 85 (1993) 1084.

[160] Cf. CONGREGAZIONE PER IL CULTO DIVINO, Lettera circolare sulla preparazione e celebrazione delle feste pasquali, 107; le modalità, i testi biblici e le orazioni per la veglia di Pentecoste – già presenti in alcune edizioni del Messale Romano nelle varie lingue – sono indicati in Notitiae 24 (1988) 156-159.

[161] Giovanni Paolo II, Omelia pronunziata durante la Celebrazione della Parola a La Serena (Chile), 2, in Insegnamenti di Giovanni Paolo II, X/1 (1987), cit.,  p. 1078.

[162] Cf. EI, Aliae concessiones 26, pp. 70-71.

[163] Cf. Gal 5,16.22; CONCILIO VATICANO II,  Ad gentes, 4; Gaudium et spes, 26.

[164] Giovanni Paolo II, Lettera enciclica Redemptoris missio, 78: in AAS 83 (1991) 325.

[165] CCC 234.

[166] Ibid., 233.

[167] Ibid., 234.

[168] Cf. nn. 76-80.

[169] RITUALE ROMANUM, De sacra communione et de cultu mysterii eucharistici extra Missam, Editio Typica, Typis Plyglottis Vaticanis 1973, 80.

[170] Ibid., 101; cf. CIC, can. 944.

[171] Cf. RITUALE ROMANUM, De sacra communione et de cultu mysterii eucharistici extra Missam, cit., 101-108.

[172] Cf. ibid., 101-102.

[173] Ibid., 104.

[174] Ibid., 81.

[175] Cf. PIO XII, Lettera enciclica Mediator Dei, in AAS 39 (1947) 568-572; PAOLO VI, Lettera enciclica Mysterium fidei, in AAS 57 (1965) 769-772; S. CONGREGAZIONE DEI RITI, Istruzione Eucharisticum mysterium, nn. 49-50, in AAS 59 (1967) 566-567; RITUALE ROMANUM,  De sacra communione et de cultu mysterii eucharistici extra Missam, cit., 5.

[176] S. CONGREGAZIONE DEI RITI,  Istruzione Eucharisticum mysterium, nn. 49 e 50.

[177] Sulle indulgenze concesse all’adorazione e processione eucaristica, cf. EI, Aliae concessiones, 7, pp. 54-55.

[178] Cf. RITUALE ROMANUM, De sacra communione et de cultu mysterii eucharistici extra Missam, cit.,  82-90; CIC, can. 941.

[179] Cf. CIC, can. 942.

[180] Cf. Risposta al dubium sul n. 62 dell’Istruzione Eucharisticum mysterium, in Notitiae 4 (1968) pp. 133-134; circa il Rosario vedi la nota seguente.

[181] Cf. PAOLO VI, Esortazione apostolica Marialis cultus, 46; Lettera della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti (15.1.1997), in Notitiae 34 (1998) 506-510; si veda anche il rescritto della Penitenzieria Apostolica dell’8 marzo 1996, in Notitiae 34 (1998) 511.

[182] Cf. Leone XIII, Lettera enciclica Annum sacrum (25.5.1899), sulla consacrazione del genere umano al culto del Sacro Cuore, in Leonis XIII Pontificis Maximi Acta, XIX, Typographia Vaticana, Romae 1900, pp. 71-80; PIO XII, Lettera enciclica Haurietis aquas, in AAS 48 (1956) 311-329; Paolo VI, Lettera apostolica Investigabiles divitias Christi (6.2.1965), in AAS 57 (1965) 298-301; Giovanni Paolo II, Messaggio in occasione del centenario della consacrazione del genere umano al Cuore divino di Gesù (11.6.1999), in L’Osservatore Romano 12 giugno 1999.

[183] SC 5; cf. S. AGOSTINO, Enarratio in Psalmum 138, 2: CCL 40, cit., p. 1991.

[184] S. AGOSTINO, Sermo 311, 3: PL 38, 1415.

[185] PIO XI, Lettera enciclica Miserentissimus Redemptor, in AAS 20 (1928) 167.

[186]Cf. EI, Aliae concessiones 1, p. 50.

[187] Cf. EI, Aliae concessiones, 3, pp. 51-53.

[188] SC 106.

[189] Tra le consacrazioni al Cuore Immacolato di Maria spicca quella del mondo compiuta da Pio XII il 31 ottobre 1942 (cf. AAS 34 [1942] 318), rinnovata da Giovanni Paolo II, in comunione con tutti i vescovi della Chiesa, il 25 marzo 1984 (cf. Insegnamenti di Giovanni Paolo II VII/1 [1984], Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1984, pp. 774-779).

[190] Cf. sopra n. 171.

[191] Cf. SC 5.

[192] Liturgia Horarum, Tempus Nativitatis I, Ad Vesperas, Hymnus “Christe, Redemptor omnium”.

[193] Missale Romanum, Feria VI in Passione Domini, Adoratio sanctae Crucis, Hymnus “Crux fidelis”.

[194] Liturgia Horarum, Tempus paschale I, Ad Vesperas, Hymnus “Ad coenam Agni providi”. Analogamente nell’inno alternativo “O rex aeterne, Domine”: Tu crucem propter hominem / suscipere dignatus es; / dedisti tuum sanguinem / nostrae salutis pretium.

[195] Testo in AAS 52 (1960) 412-413; cf. EI, Aliae concessiones 22, p. 68.

[196] SC 103.

[197] PAOLO VI, Esortazione apostolica Marialis cultus, 6.

[198] SC 103.

[199] Cf. PAOLO VI, Esortazione apostolica Marialis cultus, 6.

[200] Cf. Rituale Romanum Pauli V Pontificis Maximi iussu editum ¼ SS.mi D.N. Pii Papae XII auctoritate auctum et ordinatum, Editio iuxta Typicam, Desclée, Romae 1952,  pp. 444-449.

[201] Cf. Missale Romanum, Ordo Missae, la preghiera Domine Iesu Christe, prima dello scambio di pace.

[202] Vedi ad esempio: intercessioni ai Vespri della domenica e del lunedì della I settimana, del mercoledì della III settimana; le invocazioni alle Lodi del mercoledì della IV settimana.

[203] Cf. Concilio Vaticano II, Decreto Unitatis redintegratio, 3.

[204] Cf. Paolo VI, Esortazione apostolica Marialis cultus, 32-33.

[205] Concilio Vaticano II, Decreto Unitatis redintegratio, 8.

[206] Pontificio Consiglio per l’unità dei cristiani, Directoire pour l’application des Principes et des Normes sur l’Oecuménisme (25.3.1993), 110: AAS 85 (1993) 1084.

[207] Cf. EI, Aliae concessiones, 11, p. 58.

[208] CONGREGAZIONE PER IL CULTO DIVINO, Lettera circolare Orientamenti e proposte per la celebrazione dell’Anno mariano (3.4.1987), 67.

[209] Cf. LG 67; Decreto Presbyterorum Ordinis, 18; Decreto Optatam totius, 8; Decreto Apostolicam actuositatem, 4; CIC, cann. 276, § 2, 5°; 663, § 2-4; 246, § 3.

[210] Cf. CCC 971. 2673-2679.

[211] Cf. sopra nn. 47-59, 70-75.

[212] Cf. PAOLO VI, Esortazione apostolica Marialis cultus, 1; CONGREGAZIONE PER IL CULTO DIVINO, Lettera circolare Orientamenti e proposte per la celebrazione dell’Anno mariano, 7; Collectio missarum de beata Maria Virgine, Praenotanda, 9-18.

[213] Cf. PAOLO VI, Esortazione apostolica Marialis cultus, 24.

[214] Ibid., Intr.

[215] Cf. ibid., 25-39; CONGREGAZIONE PER IL CULTO DIVINO, Lettera circolare Orientamenti e proposte per la celebrazione dell’Anno mariano, 8.

[216] Cf. Ibid., 8.

[217] Cf. più avanti n. 232.

[218] Il Missale Romanum contiene diversi formulari per la celebrazione della messa in onore della Beata Vergine Maria nelle ore mattutine dei sabati del tempo “per annum”, in cui sono permesse le memorie facoltative; si veda Collectio missarum de beata Maria Virgine, Praenotanda 34-36; similmente anche la Liturgia Horarum, per i sabati del tempo “per annum”, in cui è permesso, presenta l’Ufficio di santa Maria in sabato.

[219] Cf. ALCUINO, Le sacramentaire grégorien, II, ed. J. Deshusses, Editions Universitaires, Fribourg 1988, pp. 25-27 e 45; PL 101, 455-456.

[220] Cf. UMBERTO DE ROMANIS, De vita regulari, II. Cap. XXIV, Quare sabbatum attribuitur Beatae Virgini, Typis A. Befani, Romae 1889, pp. 72-75.

[221] CONGREGAZIONE PER IL CULTO DIVINO, Lettera circolare Orientamenti e proposte per la celebrazione dell’Anno mariano, 5.

[222] E’ il caso della fortunata Felicitación sabatina a María Inmaculada, composta dal sacerdote Manuel García Navarro, divenuto poi certosino (+ 1903).

[223] Nel rito bizantino il mese di agosto, la cui liturgia è centrata sulla solennità della Dormizione di Maria (15 di agosto), costituisce, fin dal secolo XIII, un vero “mese mariano”; nel rito copto il “mese mariano” coincide sostanzialmente con il mese di kiahk (dicembre-gennaio) ed è strutturato liturgicamente intorno al Natale. In Occidente le prime testimonianze del mese di maggio dedicato alla Vergine, si hanno verso la fine del secolo XVI. Nel secolo XVIII il mese mariano, nel senso moderno dell’espressione, è già ben attestato; ma si tratta di un’epoca in cui i pastori incentrano la loro azione apostolica – tranne che per la Penitenza ed il sacrificio eucaristico – non tanto sulla liturgia quanto sui pii esercizi, e verso di essi convogliano di preferenza i fedeli.

[224] Cf. CONGREGAZIONE PER IL CULTO DIVINO, Lettera circolare Orientamenti e proposte per la celebrazione dell’Anno mariano, 64-65.

[225] Per alcune indicazioni su Maria e i sacramenti dell’iniziazione cristiana, cf. ibid. 23-31.

[226] SC 108.

[227] Cf. SC 35, 4.

[228] Cf. PAOLO VI, Esortazione apostolica Marialis cultus, 30.

[229] Cf.  ibid., 17; Collectio missarum de beata Maria Virgine, Praenotanda ad lectionarium, 10.

[230] CONGREGAZIONE PER IL CULTO DIVINO, Lettera circolare Orientamenti e proposte per la celebrazione dell’Anno mariano, 60.

[231] PAOLO VI, Esortazione apostolica Marialis cultus, 41.

[232] CONGREGAZIONE PER IL CULTO DIVINO, Lettera circolare Orientamenti e proposte per la celebrazione dell’Anno mariano, 61.

[233] L’antifona è attestata  nell’Antifonario (secolo XII) dell’Abbazia di san Lupo di Benevento. Cf. R. J. HESBERT (ed.), Corpus Antiphonalium Officii, vol. II, Herder, Roma 1965, pp. xx-xxiv; vol. III, Herder, Roma 1968, p. 440.

[234] Circa le indulgenze concesse cf. EI, Aliae concessiones, 17, p. 62. Per un commento all’Ave Maria cf. CCC 2676-2677.

[235] CONGREGAZIONE PER IL CULTO DIVINO, Lettera circolare Orientamenti e proposte per la celebrazione dell’Anno mariano, 62.

[236] PAOLO VI, Esortazione apostolica Marialis cultus, 47.

[237] Cf. CIC, cann. 246, § 3; 276, § 2, 5°; 663, § 4; Congregazione per il Clero, Direttorio per il ministero e la vita dei presbiteri, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1994, 39.

[238] Cf. RITUALE ROMANUM, De Benedictionibus, Ordo benedictionis coronarum Rosarii, cit., 1183-1207.

[239] Ibid..

[240] Cf. ibid., 1183 – 1184.

[241] CONGREGAZIONE PER IL CULTO DIVINO, Lettera circolare Orientamenti e proposte per la celebrazione dell’Anno mariano, 62, a.

[242] Ibid., 62, b.

[243] Cf. SC 90.

[244] CONGREGAZIONE PER IL CULTO DIVINO, Lettera circolare Orientamenti e proposte per la celebrazione dell’Anno mariano, 62, c.

[245] PAOLO VI, Esortazione apostolica Marialis cultus, 55.

[246] Le litanie lauretane furono inserite per la prima volta nel Rituale Romanum, in Appendice, nell’edizione tipica del 1874. Per le indulgenze concesse cf. EI, Aliae concessiones, 22, p. 68.

[247] Cf. Ordo coronandi imaginem beatae Mariae Virginis, Editio Typica, Typis Polyglottis Vaticanis 1981, n. 41, pp. 27-29.

[248] Cf. CONGREGAZIONE PER IL CULTO DIVINO, Lettera circolare Orientamenti e proposte per la celebrazione dell’Anno mariano, 63, c.

[249] Nel secolo XVI si moltiplicarono i formulari litanici, che non di rado erano di cattivo gusto o frutto di una pietà poco illuminata. Per arginare l’eccessiva e incontrollata produzione litanica, il 6 settembre 1601 Clemente VIII fece pubblicare da parte del Sant’Ufficio il severo decreto Quoniam multi, secondo cui solo le antiche litanie contenute nel Breviario, nei Messali, nei Pontificali, nei Rituali nonché le Litanie lauretane erano da ritenersi approvate (cf. Magnum Bullarium Romanum, III, Lugduni 1656, p. 1609).

[250] CONGREGAZIONE PER IL CULTO DIVINO, Lettera circolare Orientamenti e proposte per la celebrazione dell’Anno mariano, 63, d.

[251] Vedi l’Atto di affidamento alla Beata Vergine Maria pronunciato da Giovanni Paolo II la domenica 8 ottobre 2000, in comunione con i Vescovi raccolti a Roma per il Grande Giubileo.

[252]GIOVANNI PAOLO II, Lettera enciclica Redemptoris Mater, 48.

[253] Cf. LG 61; GIOVANNI PAOLO II, Lettera enciclica Redemptoris Mater, 40-44.

[254] CONGREGAZIONE PER IL CULTO DIVINO, Lettera circolare Orientamenti e proposte per la celebrazione dell’Anno mariano, 86.

[255] LG 67; cf. PAOLO VI, Lettera al Card. Silva Henríquez, Legato pontificio al Congresso mariologico di Santo Domingo, in AAS 57 (1965) 376-379.

[256] RITUALE ROMANUM, De Benedictionibus, Ordo benedictionis et impositionis scapularis, cit., 1213.

[257] CONGREGAZIONE PER IL CULTO DIVINO, Lettera circolare Orientamenti e proposte per la celebrazione dell’Anno mariano, 88.

[258] RITUALE ROMANUM, De Benedictionibus, Ordo benedictionis rerum quae ad pietatem et devotionem exercendam destinatur, cit., 1168.

[259] Ibid..

[260] Cf.  LG 67;  PAOLO VI, Esortazione apostolica Marialis cultus, 38; CCC 2111.

[261] Oltre all’Akathistos ci sono altre preghiere, delle varie tradizioni orientali, arricchite di indulgenze: cf. EI, Aliae concessiones, 23, pp. 68-69.

[262] Con il canto dell’Akathistos nella basilica di S. Maria Maggiore a Roma, il 7 giugno 1981, sono stati commemorati gli anniversari dei Concili Costantinopolitano I (381) ed Efesino (431); l’inno è risonato anche per il 450° anniversario dell’apparizione della Vergine di Guadalupe in Messico, il 10-12 dicembre 1981. Durante l’Anno mariano, il 25 marzo 1988,  nella basilica di S. Maria sopra Minerva Giovanni Paolo II ha presieduto il Mattutino con l’Akathistos, in rito bizantino-slavo. Menzionato espressamente nella bolla Incarnationis Mysterium tra le pratiche giubilari per l’indulgenza dell’Anno Santo, l’Akathistos – cantato nelle lingue greca, paleoslava, ungherese, ucraina, romena e araba – è stato motivo di una solenne celebrazione presieduta dal Papa l’8 dicembre 2000, nella basilica di S. Maria Maggiore a Roma, con la partecipazione di Rappresentanti di varie Chiese bizantine cattoliche.

[263] Tramandato anonimo,  la critica scientifica odierna propende a datarlo negli anni successivi al Concilio di Calcedonia; la versione latina redatta dal vescovo Cristoforo di Venezia intorno all’anno 800, che tanto influsso esercitò sulla pietà del Medioevo occidentale, porta il nome di Germano di Costantinopoli (+733) .

[264] GIOVANNI PAOLO II, Lettera enciclica Redemptoris Mater, 34.

[265]  Cf. EUSEBIO DI CESAREA, Storia ecclesiastica, V, xv, 42-47: SCh 31, Paris 1952, pp. 189-190.

[266] SC 104.

[267] DS 150; Missale Romanum, Ordo Missae, Symbolum Nicaeno-Constantinopolitanum.

[268] GIOVANNI PAOLO II, Costituzione apostolica Divinitus perfectionis magister, in AAS 75 (1983) 349.

[269] Cf. LG 4.

[270] Ibid., 48.

[271] Ibid., 48.

[272] Symbolum Apostolicum, in  DS 19.

[273] CCC 1472.

[274] LG 49.

[275] Cf. ibid.

[276] CONCILIO DI FIRENZE, Decretum pro Graecis, in DS 1305.

[277] Cf. Missale Romanum, Die 1 nov. Omnium Sanctorum sollemnitas, Praefatio.

[278] Ibid., Praefatio I de Sanctis.

[279] LG 51.

[280] CCC 328.

[281] Ibid., 336.

[282] Così, ad esempio, nella stessa massima solennità della Pasqua e nelle solennità dell’Annunciazione (25 marzo), del Natale (25 dicembre), dell’Ascensione, dell’Immacolata Concezione (8 dicembre), di San Giuseppe (19 marzo), dei santi Pietro e Paolo (29 giugno), dell’Assunzione (15 agosto) e di Tutti i Santi (1 novembre).

[283] Missale Romanum, Praefatio de Angelis.

[284] Cf. Ibid., Prex eucharistica, Sanctus.

[285] Ibid., Prex eucharistica I, Supplices te rogamus.

[286] Cf. S. BENEDETTO, Regula, 19, 5: CSEL 75, Vindobonae 1960, p. 75.

[287] Cf. Rituale Romanum, Ordo Paenitentiae, Editio Typica, Typis Polyglottis Vaticanis 1974,  54.

[288] Cf. Liturgia Horarum, Die 2 octobris, Ss. Angelorum Custodum memoria, Ad Vesperas, Hymnus “Custodes hominum psallimus angelos”.

[289]  Cf. Ibid., Ad Completorium post II Vesperas Dominicae et Sollemnitatum, Oratio “Visita quaesumus”.

[290]  Cf. Rituale Romanum, Ordo unctionis infirmorum eorumque pastoralis curae, cit., 147.

[291]  Cf. Rituale Romanum, Ordo exsequiarum, Editio Typica, Typis Polyglottis Vaticanis 1969, 50.

[292]  S. BASILIO DI CESAREA, Adversus Eunomium, III, 1: PG 29, 656.

[293] S. BERNARDO DI CHIARAVALLE, Sermo XII in Psalmum “Qui habitat”, 3: Sancti Bernardi Opera. IV, Editiones Cistercienses, Romae 1966, p. 459.

[294] Cf. EI, Normae et concessiones, 18, p. 65.

[295] Missale Romanum, Die 19 martii, Sollemnitas s. Joseph sponsi beatae Mariae Virginis, Collecta.

[296] S. CONGREGAZIONE DEI RITI, Decreto Quemadmodum Deus, in Pii IX Pontificis Maximi Acta, Pars Prima, vol. V, Akademische Druck – u. Verlagsanstalt, Graz 1971, p. 282; cf. GIOVANNI PAOLO II, Esortazione apostolica Redemptoris Custos, 1, in AAS 82 (1990) 6.

[297] La dichiarazione del patrocinio di san Giuseppe  sulla Chiesa universale ebbe luogo l’8 dicembre 1870 con il Decreto Quemadmodum Deus, citato nella nota precedente.

[298] LEONE XIII, Lettera enciclica Quamquam pluries (15 agosto 1889), in Leonis XIII Pontificis Maximi Acta,  IX, Typographia Vaticana, Romae 1890, p. 180.

[299] Cf. PIO XII, Allocutio ad adscriptos Societatibus Christianis Operariorum Italicorum (A.C.L.I.) (1° maggio 1955), in AAS 47 (1955) 402-407, nella quale dichiarava istituita la festa di san Giuseppe artigiano, fissata al 1° maggio (cf. S. CONGREGAZIONE DEI RITI, Decretum [24 aprile 1956], in AAS 48 [1956] 237); GIOVANNI PAOLO II, Esortazione apostolica Redemptoris Custos, 22-24, in AAS 82 (1990) 26-28.

[300] Cf. S. BERNARDINO DA SIENA, De sancto Joseph sponso beatae Virginis, art. II, cap. III, in S. Bernardini opera omnia, t. VII, Typis Collegii sancti Bonaventurae, Ad Claras Aquas 1959, p. 28.

[301] Soprattutto nei giorni in cui il tema centrale della liturgia è la genealogia del Salvatore (Mt. 1, 1-17): 17 dicembre) o l’annuncio dell’Angelo a Giuseppe (Mt. 1, 18-24: 18 dicembre); Dom. IV Avv. A): ambedue le pericopi intendono sottolineare che Gesù è il Messia “figlio di Davide” (Mt. 1,1) per mezzo di Giuseppe, che era appunto della stirpe di Davide (cf. Mt. 1, 20; Lc. 1, 27.32).

[302] Cf. Calendarium Romanum, Litaniae Sanctorum, cit., pp. 33-39.

[303] Cf. RITUALE ROMANUM, Ordo unctionis infirmorum eorumque pastoralis curae, cit., 143.

[304] Ibid., 146.

[305] Cf. EI, Piae invocationes, p. 83.

[306] Cf. EI, Aliae concessiones, 19, p. 66.

[307] Cf. EI, Aliae concessiones, 22, p. 68.

[308] GIOVANNI PAOLO II, Esortazione apostolica Redemptoris Custos, 1, in AAS 82 (1990) 31.

[309] Cf. Rituale Romanum Pauli V Pontificis Maximi iussu editum ¼ Pii XII auctoritate ordinatum et auctum. Tit. IX, cap. III, 13: Benedictio rogi in Vigilia Nativitatis S. Ioannis Baptistae.

[310] La tradizione chiama “dies natalis” il giorno della morte dei martiri. L’uso risale almeno al secolo V. Cf. S. AGOSTINO, Sermo 310, 1: PL 38, 1412-1413.

[311] Martyrologium Romanum ex decreto Sacrosancti Oecumenici Concilii Vaticani II instauratum auctoritate Ioannis Pauli PP. II promulgatum, Editio Typica, Typis Vaticanis 2001.

[312] Il Calendarium Romanum Generale è stato promulgato da Paolo VI il 14 febbraio 1969, con la Lettera apostolica Mysterii paschalis, in AAS 61 (1969) 222-226.

[313] SC 111.

[314] Ibid..

[315] PAOLO VI, Lettera apostolica Mysterii paschalis, 1, in AAS 61 (1969)  222.

[316] SC 111.

[317] Cf. Calendarium Romanum,cit., Normae universales, 58-59; S. CONGREGAZIONE PER IL CULTO DIVINO, Istruzione De Calendariis particularibus, 8-12, in AAS 62 (1970) 653-654.

[318] Liturgia Horarum, Commune Sanctorum virorum, Ad Invitatorium.

[319] Missale Romanum, Prex eucharistica I, Supra quae propitio.

[320] Ibid., Communicantes. Un luogo per ricordare il Santo del giorno o patrono è previsto nella Prex eucharistica III.

[321] Cf. Ordo  Romanus XXI, in A. ANDRIEU (ed.), Les “Ordines Romani” du Haut Moyen-Age, III, Spicilegium Sacrum Lovaniense, Louvain 1951, p. 249. Per le indulgenze cf. EI, Aliae concessiones, 22, p. 68.

[322]Cf. CONGREGAZIONE PER IL CULTO DIVINO E LA DISCIPLINA DEI SACRAMENTI, Notificatio de cultu Beatorum, 13, in Notitiae 35 (1999) 446.

[323] SC 111; cf. CONCILIO DI TRENTO, Decretum de invocatione, veneratione et reliquiis Sanctorum, et sacris imaginibus ( 3 dec. 1563 ), in DS 1822.

[324]Cf. ibid.

[325] Institutio generalis Missalis Romani, 302.

[326] Cf. Pontificale Romanum, Ordo dedicationis ecclesiae et altaris, Editio Typica, Typis Polyglottis Vaticanis 1977, cap. IV, Praenotanda, 5.

[327] Cf. ibid., cap. II, Praenotanda, 5.

[328] Ibid.

[329] Cf. CIC, can. 1190.

[330] Cf. S. AMBROGIO, Epistula LXXVII (Maur. 22), 13: CSEL 82/3, Vindobonae 1982, pp. 134-135; Pontificale Romanum, Ordo dedicationis ecclesiae et altaris, cit., cap. IV, Praenotanda, 10.

[331] CONCILI O DI  NICEA II, Definitio de sacris imaginibus (23 oct. 787),  in DS 600.

[332] CCC 1159.

[333] Cf. CONCILIO DI NICEA II, Definitio de sacris imaginibus (23 oct. 787), in DS 600-603; CONCILIO DI TRENTO, Decretum de invocatione, veneratione et reliquiis Sanctorum, et sacris imaginibus (3 dec. 1563), in DS 1821-1825; SC 111.

[334] Cf. nn. 1159-1162.

[335] CONCILIO DI NICEA II, Definitio de sacris imaginibus, in Conciliorum Oecumenicorum Decreta, cit., p. 135 (non compare in DS).

[336] CCC 1161.

[337] Ibid.

[338] CONCILIO DI NICEA II, Definitio de sacris imaginibus, in DS 601.

[339] CONCILIO DI TRENTO, Decretum de invocatione, veneratione et reliquiis Sanctorum, et sacris imaginibus in DS 1824.

[340] Ibid., 1823.

[341] RITUALE ROMANUM, De Benedictionibus, Ordo ad benedicendas imagines quae fidelium venerationi publicae exhibentur, cit., 985.

[342] Cf. RITUALE ROMANUM, De Benedictionibus, Ordo benedictionis  imaginis Sanctorum, cit., 1018-1031.

[343] Ibid., 1027.

[344] Cf. CIC, can. 1188; Institutio generalis Missalis Romani, 318.

[345]Cf. Pontificale Romanum, Ordo dedicationis ecclesiae et altaris, cit., cap. IV, Praenotanda, 10.

[346] Cf. Rituale Romanum, De sacra communione et de cultu mysterii eucharistici extra Missam, cit., 101; CIC, can. 944; sopra n. 162.

[347] Institutio generalis de Liturgia Horarum, 213.

[348] CONCILIO VATICANO II, Costituzione Gaudium et spes, 18.

[349] DS 150; Missale Romanum, Ordo Missae, Symbolum Nicaeno-Constantinopolitanum.

[350] CCC 989.

[351] S. AMBROGIO, De excessu fratris I, 70: CSEL 73, Vindobonae 1955, p. 245.

[352] CCC 1007.

[353] Ibid., 1013.

[354] Ibid., 1008; cf. CONCILIO DI TRENTO, Decretum de peccato originali (17 iunii 1546), in DS 1511.

[355] CCC 1009.

[356] Missale Romanum, Praefatio defunctorum, I.

[357] Cf. Ibid., Prex eucharistica IV, Commemoratio pro defunctis.

[358] CCC 1031; cf. DS 1304; 1820; 1580.

[359] LG 50.

[360] Cf.  CONCILIO DI LIONE II, Professio fidei Michaelis Paleologi  (6 iulii 1274), in DS 856: S. CIPRIANO, Epistula I, 2: CSEL 3/2, Vindobonae 1871, pp. 466-467; S. AGOSTINO, Confessiones, IX, 12, 32: CSEL 33/1, Vindobonae 1896, pp. 221-222.

[361] Cf. S. AGOSTINO, De cura pro mortuis gerenda, 6: CSEL 41, Vindobonae 1900, pp. 629-631; S. GIOVANNI CRISOSTOMO, Homiliae in primam ad Corinthios, 41, 5: PG 61, 494-495; CCC 1032.

[362] Cf. EI, Normae de Indulgentiis, 3, p. 21; Aliae concessiones, 29, pp. 74-75.

[363] Cf. Rituale Romanum,  Ordo exsequiarum, cit., Praenotanda, 4.

[364] Questa veglia, chiamata ancora “wake” nei paesi anglofoni anche se ogni comprensione del suo significato storico-teologico è andata persa, è un atto di fede nella risurrezione dei morti, a imitazione della veglia delle donne “mirofore” del Vangelo, che portarono gli unguenti aromatici per ungere il corpo del Signore, divenendo così le prime testimoni della risurrezione.

[365] Rituale Romanum,  Ordo exsequiarum, cit., Praenotanda, 11.

[366] Ibid., 41.

[367] CCC 1689.

[368] Rituale Romanum, Ordo exsequiarum, cit., Praenotanda, 10.

[369] Ibid., 15; SUPREMA SACRA CONGREGAZIONE DEL S. UFFIZIO, Istruzione De cadaverum crematione, 2-3, in AAS  56 (1964)  822-823; CIC, can . 1184, § 1, 2°.

[370] Missale Romanum, Prex eucharistica I, Commemoratio pro defunctis.

[371] Circa le messe dei defunti cf. Institutio generalis Missalis Romani, 355.

[372] LG 49.

[373] CCC 958.

[374] DS 150; Missale Romanum, Ordo Missae, Symbolum Nicaeno-Constantinopolitanum.

[375] CIC, can. 1234, § 1.

[376]Cf. PONTIFICIO CONSIGLIO DELLA PASTORALE PER I MIGRANTI E GLI ITINERANTI, Il Santuario. Memoria, presenza e profezia del Dio vivente (8.5.1999), Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1999.

[377] GIOVANNI PAOLO II,  Allocuzione ai rettori dei santuari francesi (22.01.1981), in Insegnamenti di Giovanni Paolo II, IV/1 (1981), Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1981, p. 138.

[378] CIC, can. 1230. Per la concessione di indulgenze cf. EI, Aliae concessiones, 33, § 1, 4°, p. 77.

[379] Cf. GIOVANNI PAOLO II, Lettera enciclica Redemptoris Mater, 28.

[380] CONGREGAZIONE PER IL CULTO DIVINO, Lettera circolare Orientamenti e proposte per la celebrazione dell’Anno mariano, 75.

[381] Rituale Romanum, Ordo Paenitentiae, cit., 6 a.

[382] Cf. Ibid., Appendix II, Specimina celebrationum paenitentialium, 1-73.

[383] Ibid., Praenotanda, 22.

[384] Cf. CIC, can. 961, § 2.

[385]  Collectio missarum de Beata  Maria Virgine, Praenotanda, 30.

[386] SC 47.

[387] Cf. Institutio generalis Missalis Romani, 41.

[388] Cf. n. 83.

[389] Cf. CIC, can. 1004.

[390] Rituale Romanum, Ordo unctionis infirmorum eorumque pastoralis curae, cit., 90.

[391] Cf. CIC, can. 1115.

[392]Cf. Institutio generalis de Liturgia Horarum, 27.

[393]Cf. ibid., 245.

[394] Cf.RITUALE ROMANUM,  De Benedictionibus, cit., Praenotanda, 1-34.

[395] Cf. ibid., 22-24.

[396] Cf. ibid., 24 a.

[397] Cf. ibid., 30.

[398] Cf. ibid., 15.

[399] COMITATO CENTRALE PER L’ANNO MARIANO, I Santuari mariani, 4 (Lettera circolare del 7.10.1987).

[400] Ibid..

[401] CONGREGAZIONE PER IL CULTO DIVINO, Lettera circolare Orientamenti e proposte per la celebrazione dell’Anno mariano, 76.

[402] Cf. Pontificio Consiglio per l’unità dei cristiani, Directoire pour l’application des Principes et des Normes sur l’Oecuménisme (25.3.1993): AAS 85 (1993) 1039-1119.

[403] N. 8.

[404] N. 25, in AAS 85 (1993) 1049.

[405] Cf. ibid., n. 27, p. 1049.

[406] Cf. ibid., n. 110, p. 1084.

[407] Cf. Collectio missarum de beata Maria Virgine, Form. 38: “Sancta Maria, mater unitatis”; S. AGOSTINO, Sermo 192, 2: PL 38, 1013; PAOLO VI, Omelia nella festa della Presentazione di Gesù al Tempio (2.2.1965), in Insegnamenti di Paolo VI, III (1965), Tipografia Poliglotta Vaticana, Città del Vaticano 1966, p. 68; GIOVANNI PAOLO II, Omelia nel Santuario mariano di Jasna Góra (4.6.1979), in Insegnamenti di Giovanni Paolo II, II/1 (1979), Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1979, p. 1418; Discorso alla preghiera mariana dell’Angelus (12.6.1988), in Insegnamenti di Giovanni Paolo II, XI/2 (1988),  Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1989, p. 1997.

[408]Cf. PONTIFICIO CONSIGLIO DELLA PASTORALE PER I MIGRANTI E GLI ITINERANTI, Il Pellegrinaggio nel Grande Giubileo del 2000 (25.4.1998), Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1998.

[409] Secondo il Codice di diritto canonico la frequenza dei pellegrinaggi è un elemento integrante del concetto di santuario: «Per santuario si intende una chiesa o un altro luogo sacro, a cui, per speciali motivi di pietà, con l’approvazione dell’Ordinario del luogo, i fedeli fanno pellegrinaggio in grande numero» (can. 1230).

[410] Testimonianza significativa del pellegrinaggio a Gerusalemme è la collezione dei “Cantici delle ascensioni”, i salmi 120-134, destinati all’ uso di chi si reca alla Città santa. Nell’interpretazione cristiana essi cantano la gioia della Chiesa, pellegrina sulla terra, in cammino verso la Gerusalemme celeste.

[411] Missale Romanum, Prex eucharistica III, Intercessiones.

[412] Cf. S. AGOSTINO, Tractatus CXXIV in Iohannis Evangelium, 5: CCL 36, Turnholti 1954, p. 685.

[413] Cf. sopra n. 267.

[414]  CONCILIO VATICANO II, Decreto Apostolicam actuositatem, 14.

[415] Cf. RITUALE ROMANUM, De Benedictionibus, Ordo ad benedicendos peregrinos, cit., 407.

[416] Cf. ibid., 409-419.

[417] Cf. sopra nn. 265-273.

[418] Cf. RITUALE ROMANUM, De Benedictionibus,  Ordo benedictionis peregrinorum ante vel post reditum, cit., 420-430.

  Fonte: Santa Sede