Adolescenti: «Hikikomori», nulla oltre il pc.

Li chiamano “reclusi sociali”, adolescenti eremiti”, “ragazzi spariti”: sono le vittime della nuova patologia che colpisce i nostri teenager, fenomeno in espansione ma di cui in Italia si sa e si parla ancora poco. Non vanno a scuola, rifiutano ogni contatto con l’esterno (genitori compresi), si barricano nella loro cameretta per mesi, talvolta anni, e vivono incollati al pc, sempre connessi, immersi in una realtà puramente virtuale, svegli di notte e svaniti nel sonno di giorno.

In Giappone gli hikikomori (termine che tradotto in italiano suona come “stare in disparte, isolarsi”) raggiungono il terrificante numero di un milione: in una società competitiva fin dall’asilo, in cui l’insuccesso è vissuto come intollerabile e come vergogna sociale, l’autoreclusione è la patologia più diffusa fra i ragazzi che non stanno al passo delle aspettative altrui. Meglio barricarsi in casa e scomparire al mondo piuttosto che affrontarlo.

Ma quanti sono gli hikikomori d’Italia? «Dalla mia esperienza direi che un ragazzo ogni 250 presenta comportamenti a rischio di reclusione sociale. In una città come Milano si tratta di duemila adolescenti», afferma Antonio Piotti, filosofo e psicoterapeuta, docente all’Alta scuola di psicoterapia Arpad “Minotauro” di Milano. In questi ultimi anni si è specializzato nell’aiuto a ragazzi “reclusi”, tanto da dare alle stampe per Franco Angeli un libro originale e drammatico, Il banco vuoto (pagine 128, euro 16,50), con la presentazione di Gustavo Pietropolli Charmet, in uscita nei prossimi giorni.

Non è un trattato “tecnico”, non almeno nella sua forma classica: Piotti infatti ha scelto di compilare una sorta di diario esistenziale, con i racconti in prima persona di un autorecluso, Enrico, e i “commenti”, come una voce fuori campo, dello psicoterapeuta (l’autore stesso) con il quale a un certo stadio del suo disturbo il ragazzo viene in contatto.

Un espediente letterario, perché nella realtà gli adolescenti che si isolano dal mondo non hanno parole per descrivere il loro malessere, rifuggono dai contatti con gli altri se non nella modalità online dei giochi elettronici. Il rischio di isolarsi in casa, dunque, secondo Piotti è dello 0,4 per cento tra gli adolescenti: i sintomi, secondo Piotti, sono principalmente «la fobia scolare e l’uso del computer per 7 o 8 ore al giorno».

Il protagonista del libro, Enrico, inizia a stare male appena entra in classe, un male fisico fatto di scariche continue di dissenteria, accompagnate da una grande sensazione di vergogna, che lo porta a interrompere la frequenza della prima liceo. Non è semplicemente un rifiuto della scuola perché percepita come troppo esigente, piuttosto è una fuga dal contatto con i compagni, dalla relazione sociale che costringe al confronto. Nel suo diario, Enrico scrive: «Se dovessi dire chi sono dovrei dire semplicemente: io sono uno che si vergogna». Bambino bravissimo alle elementari, alla fine delle medie Enrico si confronta con l’insuccesso.

E, anni dopo, chiuso nella sua cameretta, scrive, pensando alle aspettative deluse dei genitori: «Come dichiarare che tu non ce la farai? Come accettare lo sguardo triste e infelice di chi ti ha così profondamente amato? Con che coraggio andar davanti a loro e confessare che tu non sei all’altezza?».

Così nasce la voglia di fuga, il disagio della scuola, la vergogna, il disprezzo cieco e immotivato per i compagni. Infine, la decisione di rinchiudersi e di non vedere più nessuno: «Io mi sono nascosto perché non ero costruito in modo tale da affrontare l’esistenza». Per passare il tempo, ricorre ai videogiochi on line, soprattutto a quello “spara-spara”: «Intento com’eri a uccidere nemici, cominciavi a intuire che esisteva almeno un posto dove la realtà non poteva raggiungerti e dove il sapore acre della vergogna si attutiva, mentre ogni pensiero poteva essere ucciso prima ancora di venire formulato (…). Il tempo passava e, mentre lui scorreva, tu godevi del fatto di non esserci».

L’isolamento sociale acuto, del quale la dipendenza da internet non è una causa ma casomai un effetto, per la sua radice nella corporeità non accettata è imparentato con l’anoressia e con l’autolesionismo: altre patologie che attaccano i nostri giovani, spesso troppo fragili di fronte alle attese del mondo. È inevitabile, per lo psicoterapeuta che va a caccia delle radici della patologia, soffermarsi sulla figura della madre.

Se nel libro una buona parte della responsabilità del comportamento di Enrico è attribuita a una madre iperprotettiva, nella realtà le cose sono più complesse. «Il fattore chiave – analizza Piotti – è la difesa dell’unicità del figlio. Dietro un isolato sociale c’è quasi sempre una madre che costruisce con il figlio un progetto di successo poco realistico e, d’altro canto, un padre che non sa riportarla alla realtà».

Quanto alle cure, si tratta di un processo lungo, che non sempre porta a una totale guarigione. «Possono bastare 7/8 mesi, ma a volte ci sono voluti anche 2 o 3 anni» conclude Piotti. Lo stesso Enrico non ne è venuto fuori del tutto, dopo che dai 15 ai 21 anni è vissuto nella trincea della sua cameretta, non uscendo dal suo guscio maleodorante neppure per consumare i pasti, che gli venivano semplicemente passati attraverso uno spiraglio della porta, da una madre impaurita e incapace di reagire.

Serve la psicoterapia, accompagnata a proposte di laboratori (musica, teatro, recitazione) per re-imparare a socializzare, ma è necessario anche intervenire con i genitori per aiutarli a interagire con i figli, servono strutture scolastiche flessibili che consentano di sostenere esami senza l’obbligo di tornare sui banchi. Servirebbe, forse, una società meno schizofrenica.
Antonella Mariani

Fonte: Avvenire