Calabresi a Repubblica, con qualche buco di memoria – di Robi Ronza

Da ieri Mario Calabresi firma da direttore la Repubblica, l’influente quotidiano che dette un contributo di primo piano alla campagna di odio e di discredito sull’onda della quale un gruppo di militanti del gruppo di ultrasinistra Lotta Continua si sentì autorizzato ad assassinare suo padre Luigi Calabresi, commissario capo di polizia in servizio alla Questura di Milano.

Assumendo il nuovo prestigioso incarico – che ha tanto maggior rilievo in quanto viene a coincidere con il 40° anniversario della fondazione del quotidiano — egli va a sedere al posto che fu del fondatore e primo direttore de la Repubblica Eugenio Scalfari: uno di coloro che nel giugno 1971 avevano firmato l’appello de L’Espresso contro suo padre da cui venne decisivo impulso alla campagna di odio e di discredito di cui si diceva.

L’appello venne sottoscritto da 757 persone, il cui elenco – pubblico e oggi reperibile su Internet – è un documento-chiave per chiunque voglia farsi un’idea di chi nel nostro Paese ha nelle mani la sostanza del potere. Di  Luigi Calabresi, ucciso sulla soglia di casa il 17 maggio 1972, servo di Dio per riconoscimento di papa Paolo VI, è aperta la causa di beatificazione.

Non mi permetto di certo di dare un giudizio sulle ragioni soggettive dell’itinerario umano e professionale del nuovo direttore de la Repubblica, che tra l’altro alla vicenda della sua famiglia ha dedicato pagine sofferte nel suo Spingendo la notte più in là, Mondadori Editore, 2009. Tali ragioni imperscrutabili soggettive non tolgono nulla tuttavia alla drammaticità oggettiva della sua posizione.

L’uomo si siede ogni giorno al tavolo dove molto probabilmente Scalfari firmò l’appello che di cui si diceva. Se poi ripercorre le annate di allora del suo giornale, e gli editoriali dei suoi due predecessori non cessa di ritrovare solida e stabile conferma di quel farisaismo progressista, tutto teso ad affermare la propria intangibile innocenza scaricando il peso di ogni male sulle spalle dell’avversario, che in fin dei conti armò la mano degli assassini di suo padre.

Pur senza pregiudizio per i suoi meriti professionali, viene da chiedersi se questa nomina, come pure gli altri prestigiosi incarichi che la precedettero, non facciano parte di un percorso espiatorio di chi ebbe nella vicenda le responsabilità — certamente non di rilevanza penale, ma altrettanto certamente di decisiva rilevanza morale – di cui si diceva.

Nell’editoriale di ieri su la Repubblica con cui ha inaugurato la sua direzione, Mario Calabresi definisce “preziosa” per lui la «lezione di Eugenio Scalfari». Dopo aver così dato prova di un distacco dalla sua storia personale che merita di venire giudicato eroico, il nuovo direttore continua condannando il «manicheismo dilagante» che «si è impossessato del nostro mondo».

L’alternativa a tale manicheismo «attratto fatalmente dall’idea che esistano solo bianco o nero», non sono però «i molti toni di grigio bensì i colori. I mille colori che danno sapore alle nostre vite. Ognuno di noi deve ricuperarli e tenerli di fronte agli occhi ogni giorno, antidoto al veleno dell’apatia e viatico per la speranza (…)».

Arrivati a questo punto della lettura viene quasi il sospetto che per un insieme di rocambolesche circostanze il nuovo direttore abbia sbagliato giornale. Insieme a risorse finanziarie così illimitatamente sproporzionate al mercato finanziario italiano da sembrare già solo per questo di oscura origine, il manicheismo è il grande pilastro su cui si fonda l’incombente presenza nel nostro Paese del colosso mediatico bicipite costituto da L’Espresso e da la Repubblica.

Toglietegli il manicheismo e il colosso crolla al suolo come il gigante dai proverbiali piedi d’argilla. Non ci resta al riguardo che consigliare a Mario Calabresi, per sua legittima difesa, la massima prudenza.

Fonte: La NBQ