Fame, la grande domanda – di P. Piero Gheddo

P. Piero GheddoPerché 800 milioni di uomini soffrono la fame? È la domanda che molti si fanno, ma non c’è una risposta semplice e univoca. Nei miei numerosi viaggi ho visto quanto è difficile risolvere questa tragedia. Nel 1969 a Moroto, in Uganda, nella vasta area cintata dei Comboniani si erano rifugiati più di mille indigeni, seduti per terra in attesa di avere acqua e cibo. Un anno di siccità li aveva portati a soffrire fame e sete. I pozzi della missione invece davano acqua e le riserve di mais e grano permettevano di sfamarli.

Centinaia di uomini, donne e bambini scheletriti e sconvolti da dolori atroci. Ho pensato a Gesù crocifisso. Tutti quei miei fratelli e sorelle, quei bambini per i quali le mamme non avevano più latte, erano crocifissi e io mi sentivo impotente, quasi colpevole. Pregavo e mi chiedevo: perché, o Signore?

Due sono le cause del sottosviluppo africano. Innanzitutto l’arretratezza dell’agricoltura e la corruzione delle élites locali. I paesi poveri non producono abbastanza cibo. Il senegalese Jacques Diouf, segretario della FAO, nel 2008 affermava: «Servono circa 44 miliardi di dollari l’anno per sconfiggere la fame».

Ma poco prima avevo intervistato a Ouagadougou l’arcivescovo cardinal Paul Zoungrana che diceva: «I soldi sono necessari, ma dati a un popolo che non ha la mentalità e la capacità di produrre con tecniche nuove, non creano sviluppo ma corruzione».

Molti paesi africani spendono il 2% del bilancio nazionale nell’agricoltura e il 20% nelle armi. I due motori dello sviluppo sono l’agricoltura e l’educazione. Il rapporto annuale della FAO del 2001 scriveva che l’Africa nera importa circa il 30% del cibo di base che consuma (riso, grano, mais). Ecco la mia significativa esperienza: a Vercelli produciamo 80 quintali di riso all’ettaro, nell’agricoltura africana a sud del Sahara 5 quintali!

E la minor produzione non è data dalla mancanza di macchine, ma dalla poca istruzione del contadino. Le campagne africane sono un cimitero di trattori che non funzionano, di pozzi da cui non si sa più tirar su l’acqua, di “progetti” fatti dall’Occidente, che i locali non hanno imparato a mantenere.

La seconda causa sta nelle tante responsabilità dell’Occidente cristiano, storiche e attuali. Lo sviluppo dell’Europa viene da Gesù Cristo e dal Vangelo che hanno cambiato il cammino dell’uomo, con il precetto dell’amore al prossimo e del perdono e tanti valori nuovi. La colonizzazione ha aperto i popoli al mondo moderno, ma non era fatta per favorire il loro sviluppare bensì per arricchire l’Occidente.

La radice del sottosviluppo è storico-culturale-religiosa, prima che economica e tecnica. Nel Congresso di Berlino (1884-1885) le potenze europee si spartirono l’Africa nera.

Il ritardo storico è evidente e non è possibile che popoli interi (non le loro élites) possano in cento anni cambiare radicalmente culture e religioni. Ecco la radicale colpa storica dell’Occidente che ancora oggi, anche dopo l’indipendenza raggiunta negli anni Sessanta, continua a sfruttare quei popoli con un sistema economico ingiusto: i prezzi eccessivi delle materie prime; la vendita di armi; il “land grabbing” ossia l’acquisto di terreni agricoli per produrre cibo da esportare; il disboscamento; la rapina di oro, diamanti, metalli preziosi.

E poi i dollari vengono divorati dalla corruzione delle classi dirigenti. All’inizio del 2000, la Nigeria aveva un debito estero di 92 miliardi di dollari, ma i depositi delle élites nigeriane nelle banche occidentali era di circa 130 miliardi!

Quali sono le nostre responsabilità attuali verso i fratelli africani? E che cosa fare, dunque? Vorrei proporre due spunti di riflessione. Il primo è la convinzione che il maggior dono che possiamo fare all’Africa è l’annunzio di Cristo e del Vangelo.

Nella Redemptoris Missio di Giovanni Paolo II, del 1990, si legge (n. 59): «Lo sviluppo dell’uomo viene da Dio, dal modello di Gesù uomo-Dio e deve portare a Dio. Ecco perché tra annunzio evangelico e promozione dell’uomo c’è una stretta connessione».

Alla radice del sottosviluppo ci sono mentalità, culture e religioni fondate su visioni inadeguate di Dio, dell’uomo e della donna, del creato. Madre Teresa di Calcutta diceva: «La più grande disgrazia dell’India è di non conoscere Gesù Cristo».

Ancora nella Redemptoris Missio si legge: «Il Vangelo è il primo contributo che la Chiesa può dare allo sviluppo dei popoli (…). È l’uomo il protagonista dello sviluppo, non il denaro o la tecnica. La Chiesa educa le coscienze rivelando ai popoli quel Dio che non conoscono (… e) il dovere di impegnarsi per lo sviluppo di tutto l’uomo e di tutti gli uomini» (n. 58).

Questa la realtà: fra i popoli arretrati i cristiani, a parità di condizioni, si sviluppano prima e meglio di altri. Il secondo punto riguarda ciò che posso fare in prima persona. Giovanni Paolo II dice: «Contro la fame cambia la vita» (R.M. 59).

Per essere fratello dei poveri devo cambiare il mio “stile di vita”, secondo il comando di Gesù: «Il vostro superfluo datelo ai poveri» (Lc 11,41). Il cristiano deve testimoniare un “modello di sviluppo” alternativo.

Cambiare la convinzione che sviluppo è uguale alla continua crescita economica e alla ricerca di un benessere più opulento, quando invece è dare a tutti gli uomini il necessario alla vita.

Però non bastano soldi e macchine, leggi e giustizia internazionale, servono persone, perché lo sviluppo è un problema di educazione, di formazione delle mentalità, di evoluzione delle culture, di condivisione.

articolo pubblicato su Armagheddo