Il regime di Pol Pot, il genocidio, la conversione dal buddismo al cattolicesimo: la testimonianza di Claire Ly

Claire Ly non odia. Ed è strano. Scampata per il rotto della cuffia alla  follia omicida del regime cambogiano dei khmer rossi – che le hanno fucilato il  padre, il marito e due fratelli –, costretta a diventare contadina quando aveva  un figlio per mano e uno in grembo, dopo un passato da insegnante di filosofia,  Claire Ly non lascia trasparire nemmeno un accenno d’odio, uno sguardo  offuscato, la smania di vendetta.

A 66 anni, docente all’Istituto di Scienze e  Teologia delle Religioni di Marsiglia, dopo il lungo travaglio dell’esule – sbarcò in Francia a 37 anni –, la conversione al cattolicesimo e il battesimo il  24 aprile 1983, si può pensare a un’astratta acquisizione di calma, un placido  equilibrio interiore, un impermeabile nirvana. Nulla di più errato. È la sua  storia a narrarlo.

Ospitata dal Pime (Pontificio istituto missioni estere di Milano), Claire Ly  ha raccontato la sua vita a una folla di gente stipata nel piccolo teatro del  complesso, la sera del 17 ottobre, e ha presentato il suo nuovo libro, Mangrovia. Una donna, due anime, edito da Pimedit (159 pagine, 13  euro). Una canzone di Joan Baez, spezzoni di Urla del silenzio, il film  di Roland Joffé sul regime di Saloth Sar, conosciuto alle cronache più buie  della storia con l’epiteto Pol Pot. Tra il 1975 e il 1979, il suo regime di  stampo leninista-maoista, rurale e autarchico ha deportato la popolazione nelle  grandi aree rurali, costringendola a pesanti privazioni, maltrattamenti, lavori  da bestie da soma.

Tra campi di sterminio, malattie, malnutrizione e omicidi  sommari, si stimano circa 2 milioni di morti su una popolazione che allora era  di 8. Un quarto di cambogiani, in appena quattro anni di dittatura.

Un computo da rabbrividire. In un territorio di circa 181 mila chilometri  quadrati sono state rinvenute: 189 prigioni, 380 fosse comuni di cambogiani  giustiziati, 19.408 fosse comuni di cambogiani morti per fame e stenti. «C’è  solo dolore in Cambogia, non c’è domani in Cambogia», ripetono le parole di Joan  Baez mentre Claire Ly racconta dell’assassinio dei suoi, eliminati «perché  borghesi, perché intellettuali». Perché contrari alle prospettive di  un’ideologia che voleva imporre l’uguaglianza tra le diverse classi sociali.  Tutti insieme, a lavorare la terra, ciascuno uguale all’altro, indipendentemente  da quello che era stato. Pol Pot volle fare tabula rasa, polverizzando privilegi  di casta e di ceto. E ci riuscì. Claire Ly era poliglotta. Conosceva la lingua  khmer quanto il francese (la Cambogia fu protettorato di Parigi dal 1863 al  1941) ma, per sopravvivere, le conveniva stare zitta.

Così fece per i due anni di lavori forzati che le erano stati comminati in  quanto intellettuale. La filosofia buddista predica il distacco e la  disaffezione, per scampare dalla schiavitù del mondo. Ma nella tragedia di un  popolo oppresso, schiacciato sotto il tacco duro del comunismo più perverso,  Claire Ly non riusciva a sopportare il dolore senza un grido di rivolta: «Perché  tutto questo? Perché proprio a me?».

Un urlo silenzioso, perché «dovevo  mantenere queste cose nel segreto del mio cuore». L’impassibilità, il distacco  dalle sofferenze, insegnata dal buddismo ha la sua radice nell’idea di karma: le  fatiche che si scontano oggi sono conseguenze di errori e malefatte compiuti nel  passato. «Ma non potevo accettare che le persone che amavo fossero morte per  colpa dei loro peccati». L’ingiustizia non trovava risposta, e «scivolavo nei  tre sentimenti peggiori della morale buddista: l’odio, la collera e la  vendetta».

Quando odiavo il dio occidentale Tuttavia, la filosofia  apre una via d’uscita: «Tra i consigli di Shakyamuni, il Buddha, per superare i  momenti di tentazione, vi è quello di creare un “feticcio”, un oggetto mentale  sul quale scaricare tutte le colpe, tutti gli odi repressi e giustificati per  liberarsi dalla gravità del male». A questo oggetto, Claire Ly diede un nome: il “dio degli occidentali”. «Il comunismo deriva dal marxismo, che a sua volta si è  formato nell’età industriale europea», spiega la cambogiana.

Con questa entità,  Claire Ly ci ha fatto a pugni costantemente, per due anni. Gli parlava, gli  rinfacciava ogni malignità, l’assurda reprimenda per un dolore da lui causato a  un popolo inerme. Finché la stagione dei campi di lavoro finì e lei divenne una  compagna contadina, secondo i khmer rossi. «Quel giorno stesso, a tarda sera, ho  chiesto al “dio degli occidentali” di applaudire alla mia vittoria. “Non vedi  come sono stata brava?”, gli dicevo. Eppure non lo ha fatto. Dio è rimasto in un  silenzio assordante. Non lo sentivo semplicemente come assenza di rumore, ma  come un’assenza abitata». L’irruzione di qualcosa – o di qualcuno – di  indicibile. Nel male assoluto, il Dio degli occidentali si era fatto  presenza.

L’esilio a Marsiglia L’inizio della conversione è proprio  qui, nel rinfacciare il proprio male a un’entità accolta perché presente. Un  dolore che non schiaccia, ma apre. Con la caduta del regime di Pol Pot e  l’invasione delle truppe vietnamite del territorio cambogiano, Claire Ly si  carica delle poche cose in suo possesso, prende i figli e parte. Direzione:  Marsiglia, in Francia, complice la conoscenza della lingua, che tuttavia non  riesce a evitarle di sentirsi straniera, non voluta, sanguisuga del sistema  assistenzialista dell’Eliseo. «Avevo perso quello che Albert Camus chiamava il “rapporto tra la terra e il piede”. In Francia ci si riempie la bocca del  termine “integrazione”. A me fa paura. Significa “disintegrarsi” da ciò che era  prima, dalla cultura delle origini. Preferisco il termine “adozione”, dove il  rapporto è giocato nella libertà assoluta delle due parti».

Nel 1980 Claire Ly è in Francia. «A quel tempo pensavo a Gesù come a un  maestro grande quanto Buddha». Fino all’incontro con il Vangelo: «È stato un  brano di Giovanni ad accendere il mio interesse: “Venne fra i suoi, e i suoi non  lo hanno accolto”. Che fa da contraltare alla frase di Luca, che dipinge Gesù  come nato sfollato: “Per loro non c’era posto nell’alloggio”. Il Dio dei  cristiani conosceva la mia stessa sofferenza.

Buddha non ha mai preteso di  essere un Dio, ma un maestro. Era l’immagine dell’uomo perfetto, senza difetto,  e per questo fin troppo lontano da me. È un ideale. Gesù, che si è detto Dio,  paradossalmente è più umano. Soffre nella carne, è vicino alle mie debolezze.  San Tommaso dice: “Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il  mio dito nel segno dei chiodi e non metto la mia mano nel suo fianco, io non  credo”, e lo afferma non perché incredulo, ma perché ha bisogno che Dio prenda  sul serio la sua integrità umana. Vuole vedere i segni del dolore, perché i suoi  siano illuminati».

La conversione al cattolicesimo non è stata un’inversione. Claire Ly non ha  fatto tabula rasa della sua antica tradizione, radicata nel terreno delle  pianure della Cambogia. È stata attratta da Cristo, Claire Ly, e non ha dovuto  rinnegare nulla dell’insegnamento del Buddha. «L’incontro tra la saggezza  orientale, vissuta secondo la via di mezzo insegnata da Shakyamuni, e l’amore  folle di un Dio venuto a prendermi nel deserto del genocidio di Pol Pot» si sono  abbracciati, permettendo la rivelazione senza disintegrare alcunché. «Ed è per  questo che, ad oggi, mi muovo molto perché gli immigrati si sentano a casa nei  loro luoghi d’esilio. Perché io sono la testimonianza vivente che due culture  diverse possono convivere in una stessa anima».

Una nuova certezza Questo è il senso profondo dell’ultimo  libro di Claire Ly, Mangrovia. La mangrovia è una foresta tropicale irrigata  alternativamente da correnti d’acqua salata e di acqua dolce. È un fiorente  habitat di specie animali e vegetali che, sviluppandosi sulla costa, protegge  dalla furia degli tsunami. Non è facile vivere tra due acque, così come non è  facile vivere tra due anime. Su questo parallelismo si gioca tutta la trama del  libro. Ravi, buddista, e Soraya, cristiana, sono due cambogiane, entrambe  scampate al massacro di Pol Pot, entrambe esuli in Francia. Tornano insieme  periodicamente a Phnom Penh e a Battambang, città d’origine, per rivivere  insieme il passato sotto la luce nuova della diversa fede.

Così, le anime di  Claire Ly si sdoppiano in due maschere che dialogano delle proprie certezze, le  verificano e le mettono sul piatto del giudice: il cuore, che non risparmia  dall’inquietudine. «Ho finalmente la certezza che il mio Dio Testimone non è il  frutto della mia immaginazione, ma che è Lui, il Dio di Gesù Cristo. Non è una  certezza assoluta, stranamente è una certezza che si presenta, sempre, come una  ferita».

Fonte: Tempi.it