Il Sessantotto ha ucciso l’amore? – di Massimo Introvigne

È in arrivo in Italia, pubblicato dal Mulino, «Perché l’amore fa soffrire» della sociologa israeliana Eva Illouz, probabilmente il libro di sociologia più venduto nel mondo degli ultimi anni. La studiosa israeliana è stata descritta come la sociologa più influente nell’orbe terracqueo.

Ha anche dovuto subire infinite battute nei congressi internazionali di sociologi su come, volendo diventare ricco, un giovane che inizia a praticare la sociologia dovrebbe seguire il suo esempio e occuparsi di tormenti amorosi invece che affaticarsi sulla politica, l’economia o la religione che non assicurano certo tirature milionarie.

 

«Perché l’amore fa soffrire», come hanno rilevato «La Croix» e «Avvenire», può interessare molto anche ai cattolici. Ma attenzione: anche se questi quotidiani non lo hanno troppo spiegato, la Illouz non è una compagna di strada della Chiesa. Considera il femminismo e i diritti degli omosessuali acquisizioni irrinunciabili della tarda modernità, e ha cura di ripetere perfino troppe volte che quando mette in luce i problemi che questa porta con sé in nessun modo vuole promuovere nostalgie anti-moderne o pre-moderne.

 

Ma allora perché il libro è rilevante per i cattolici? Precisamente perché non si tratta di consigli per la vita di coppia, ma di sociologia, per definizione descrittiva e scevra da giudizi di valore. La Illouz spiega «come stanno le cose» oggi nel rapporto amoroso eterosessuale in Occidente, e conclude che non stanno troppo bene.

Alcuni dati sono noti, e confermano quello che la sociologia sa da molto tempo: negli anni 1960 – in Italia parliamo del «Sessantotto», negli Stati Uniti di «the Sixties» – c’è stata una rivoluzione non meno radicale di quella francese o di quella russa, una rivoluzione culturale che ha avuto al suo centro la sessualità. Aggredita dalla legalizzazione dell’aborto e della pillola anticoncezionale, l’adesione alla morale tradizionale in tema di matrimonio è crollata.

 

Sia negli Stati Uniti sia nei principali Paesi europei il numero di divorzi è rimasto costante e basso fino agli anni 1960, quindi è raddoppiato fra il 1970 e il 1990 ed è continuato a salire fino al XXI secolo, quando si è fermato perché sono diminuiti i matrimoni.

Le coabitazioni negli Stati Uniti si sono moltiplicate per cinque fra il 1970 e il 2000, e nel 50% dei casi coloro che coabitano si dichiarano totalmente disinteressati al matrimonio. Il 76% degli uomini americani che si sono sposati prima del 1960 ha avuto matrimoni durati almeno vent’anni, un traguardo raggiunto solo dal 58% di coloro che si sono sposati negli anni 1970.

 

I dati sono sul tavolo dei sociologi da anni, ma la novità della Illouz è che – attraverso un paragone con atteggiamenti e comportamenti di altri secoli, condotto attraverso un’analisi dei romanzi e dei diari – mette in dubbio che si tratti davvero di una «liberazione» delle donne.

Nel secolo XIX, spiega la sociologa, la scelta del coniuge avveniva all’interno di un circolo relativamente chiuso di famiglie conosciute e della stessa classe sociale. Il corteggiamento avveniva attraverso una serie di rituali che confermavano lo status socio-economico e culturale della persona scelta e mostravano che era dotata del necessario «carattere morale». La scelta teneva certo conto dell’avvenenza, ma la nozione di «sex appeal» nasce solo nel secolo XX.

 

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