In memoria di Marco Gallo e di una lettera che non abbiamo dimenticato

Il 5 novembre dello scorso anno perdeva la vita in un incidente stradale  Marco Gallo, studente del liceo Don Gnocchi di Carate Brianza. Nella  sua camera la mamma aveva trovato scritto sul muro la frase: «Perché cercate tra  i morti Colui che è vivo?». Questa sera (9 novembre, ndr) alle ore 21 sarà celebrata una Messa  di suffragio al Duomo di Monza. Pochi mesi prima di morire, Marco  aveva inviato a Tempi una lettera, che di seguito riproponiamo. A  questo link, invece, trovate l’articolo scritto da  Marina Corradi, che era andata a incontrare la famiglia pochi giorni dopo il  lutto.

Sono Marco Gallo, un ragazzo monzese di 17 anni. Ieri, andato in  pellegrinaggio alla beatificazione di Giovanni Paolo II, è come se fosse nato in  me un prepotente desiderio di conoscerlo. Ho cercato di capire chi era, e sono  rimasto profondamente colpito da queste sue parole: «Non abbiate paura. Aprite,  anzi, spalancate le porte a Cristo, alla sua salvatrice potestà, aprite i  confini degli Stati, i sistemi economici, come quelli politici, i vasti campi di  cultura di civiltà di sviluppo. Non abbiate paura! Cristo sa cosa è dentro  l’uomo, solo Lui lo sa.

Oggi così spesso l’uomo non sa cosa si porta dentro, nel  profondo del suo animo, del suo cuore, così spesso è incerto del senso della sua  vita su questa terra; è invaso dal dubbio, che si tramuta in disperazione.  Permettete quindi, vi prego, vi imploro con umiltà e con fiducia, permettete a  Cristo di parlare all’uomo, solo lui ha parole di vita, sì!, di vita  eterna».

È come se, finalmente, qualcuno mi abbia capito. Una comprensione  che va oltre quella degli amici e delle persone che ho incontrato. Come se tutto  il segreto della vita fosse racchiuso qui, in queste parole. Cavolo, sono andato  in chiesa, e per la prima volta in moltissimo tempo ho pregato intensamente,  affinché queste parole rimanessero bene incise dentro di me, affinché realmente  Cristo, ora, di fronte alla mia situazione che realmente è di dubbio e di  disperazione, mi abbracci, ora.

Non appena mi alzo, colgo uno sguardo, di una  vecchia signora. Lo colgo di sfuggita, come quando dai un’occhiata al tramonto  dal finestrino, senza attenzione. Mi accorgo che si alza e mi osserva, sembra  che venga verso di me, ma non ne son certo. Io stavo uscendo, senza accorgermi  di quello che stava accadendo, dell’intensità di quello sguardo. E mentre,  aprendo la porta per uscire dalla chiesa, mi volgo per un’ultima volta, mi  accorgo che, ferma, è ancora lì (però ferma, quasi intimorita dalla mia “fuga”).

Intuisco, uscendo, che la sua intenzione era quella di un abbraccio d’amore e di  speranza, nel vedere un giovane inginocchiato in chiesa; ma come! Uno come me!  Come me! Che speranza, che gratitudine mi merito? Quella donna aveva negli occhi  dell’amore per me! Eppure lei era lì. Era lì ad aspettarmi. E così, uscendo,  nasce in me una contraddizione, tra il banale timore di andare da una  sconosciuta a dire: “Mi voleva dire qualcosa?” e il tornare indietro per  accorgersi che lì c’era proprio colui che avevo appena invocato. Lì c’era Gesù.  Ma, prima che ciò potesse diventare certezza, quando ancora la sua presenza era  una fragile intuizione, non l’ho voluta.

Il punto del mio discorso è questo:  se Cristo realmente non fosse qualcuno che accade nel presente della nostra  vita, se Cristo realmente non mi salva, non ti salva, ora, ma soprattutto, se  noi non siamo disposti ad aspettarcelo e ad accettarlo ora, per quale motivo  possiamo definirci cristiani? Se non abbiamo intenzione di cambiare i nostri  modi di fare, se non siamo disposti ad abbandonare le nostre fragili certezze, i  nostri patetici timori (che può essere addirittura quello parlare a uno  sconosciuto), il modo in cui spendiamo il tempo e con cui ci rapportiamo con la  realtà e con le persone, in che cosa speriamo?

Marco Gallo,  Monza

 
Fonte: Tempi.it