La Rosa Bianca: l’epopea religiosa e civile dei ragazzi di Monaco che si opposero all’ideologia nazista

Hans e Sophie Scholle e a destra Christoph ProbstSant’Alessandro da Monaco stringe in mano, nell’icona che lo raffigura, una rosa bianca. La Chiesa ortodossa ha beatificato lo scorso febbraio Alexander Schmorell come testimone e martire per la fede.
(nella foto Hans e Sophie Sholl, a destra Christopher Probst) 
 
 
Apparteneva al gruppo di giovani tedeschi della “Rosa Bianca”, protagonisti settanta anni fa, in 250 giorni dal giugno 1942 al gennaio 1943, di una epopea allo stesso tempo religiosa e civile. Morirono nel segno della fede e della libertà i protestanti Hans e Sophie Scholl, i cattolici Christopher Probst, Willi Graf e Kurt Huber, l’ortodosso Schmorell, Hans Leipelt, di madre ebrea.
 
Si incontravano da tempo attorno a un cinquantenne docente di filosofia e musicologo, Hans Hubert, e a contatto con intellettuali invisi e perseguitati dal regime, fra i quali il filosofo Theodor Haecker, l’architetto Manfred Eickmeyer, l’editore di Hochland Carl Muth, il sociologo Alfred von Martin e Otto Aicher del movimento “Quikborn” fondato da Romano Guardini.

 

La loro opposizione esprimeva il rifiuto della violenza nazista ed era alimentato da letture, rapporti di amicizia, religiosità vissuta, dialogo e confronto. Poterono accedere ad autori in quegli anni inabbordabili e interdetti: Soeren Kirkegaard, Guardini, Fiodor Dostojewskij, Jacques Maritain, Georges Bernanos, Reinhold Schneider.

Sul finire del giugno 1942 la resistenza si materializza con l’invio di un primo volantino, seguito in breve tempo da altri tre, nei quali si contesta l’assoluta menzogna esistenziale del nazismo. Scritti a macchina da Hans Scholl e Schmorell e copiati, i testi vengono spediti a indirizzi scelti a caso sugli elenchi telefonici della Baviera e dell’Austria.

Vi si condannano le brutalità naziste e si esalta la libertà, insieme con l’invito a disfarsi della cricca degli indegni dirigenti.

Il primo di essi conclude: «Non dimenticate che ogni popolo merita il governo che tollera». «Il nazional socialismo — così in altro documento — è privo di valori spirituali», bugiardo e vile; i tedeschi saranno considerati corresponsabili di non aver reagito alle nefandezze che il regime sta perpetrando in Europa, in particolare contro gli ebrei e i polacchi.

Si invita al sabotaggio e alla resistenza passiva, perché «la vittoria della Germania fascista in questa guerra avrebbe conseguenze incalcolabili e terribili».

Hans Scholl, Alex Schmorell e Willi Graf studiavano medicina. Nell’estate del 1942, inviati in un reparto di sanità sul fronte orientale, riportano da quell’esperienza la consapevolezza di appartenere al popolo degli oppressori. In particolare Alex, di madre russa e russofono lui stesso, di confessione ortodossa, probabile autore del quarto documento della prima serie, che insisteva sulla colpa che ciascuno si deve assumere se resta passivo contro una dittatura del male. Nella consapevolezza di una guerra come un’impresa “senza Dio”, era necessario discostarsi dalle potenze di questo mondo: «Non ti ha dato Dio stesso — vi è scritto — la forza e il coraggio di combattere?».

Dopo la parentesi al fronte ci si collega con oppositori nella stessa Monaco, nella Saar, a Friburgo, a Bonn, impegnati a distribuire i vecchi testi e i due nuovi che si fa ancora in tempo a redigere. Molto attivo è Willi Graf che all’inizio dell’inverno scrive: «La ruota è sui binari» nel diario contenuto nella raccolta Briefe und Aufzeichnungen (Lettere e pensieri), purtroppo mai tradotta in italiano.

Nel penultimo dei due manifesti, intitolati «Fogli volanti del movimento di resistenza», c’è un «Proclama a tutti i tedeschi» con un programma politico positivo: libertà e democrazia, ritorno al federalismo tedesco, apertura alla costruzione europea, amicizia e rispetto fra i popoli, necessità di un’azione in favore delle classi lavoratrici. L’ultimo volantino è successivo al 14 febbraio, dopo la riconquista russa di Stalingrado, ed è un appello alla gioventù tedesca perché recuperi l’onore perduto.

In quelle notti appaiono sui muri di Monaco, dipinte col catrame per renderle incancellabili, le scritte «Libertà!» e «Hitler assassino dei popoli».

Il 18 febbraio Hans e Sophie sono arrestati all’università in piena azione di volantinaggio, e con loro Christoph Probst. Interrogati, si attribuiscono tutte le responsabilità senza chiamare in causa i loro amici.

Processati per direttissima sono condannati a morte per decapitazione, con sentenza eseguita il 22 febbraio.

La prima a morire è Sophie con un coraggio che merita il rispetto dei suoi carcerieri. Nell’ultima lettera-testamento scrive: «Che cosa importa della mia morte se attraverso il nostro agire migliaia di persone vengono scosse e risvegliate». «Ci è stato concesso — aggiunge — di essere coloro che aprono la via, ma prima dobbiamo morire per essa».

Christoph Probst chiede il battesimo prima dell’esecuzione. Nel messaggio di addio alla sorella afferma: «Non dimenticare mai che la vita non è altro che un crescere nell’amore e un prepararci all’eternità»; e alla madre: «Ti ringrazio di avermi dato la vita. Se ci rifletto bene, si è trattato di un’unica via verso Dio. Ora vi precedo per prepararvi una degna accoglienza». E Hans Scholl con Sophie celebrano una liturgia con il cappellano evangelico cui chiedono di leggere il passo della prima Lettera ai Corinzi con l’inno alla carità.

Hans, poco tempo prima, aveva scritto a Carl Muth: «Da qualche parte un giorno è venuta la soluzione. Ho sentito il nome del Signore e l’ho ascoltato. La benda è caduta dai miei occhi. Io prego. Percepisco uno sfondo sicuro e vedo una meta sicura. Quest’anno Cristo è nato nuovamente in me». Al mattino, dopo la loro esecuzione, su un muro dell’università comparve la scritta Das Geist lebt, lo Spirito vive. Successivamente le pene capitali furono comminate a Huber, Graf e Schmorell.

Nell’ultima lettera alla sorella Graf scrive: «Muoio nella fedeltà alla provvidenza di Dio. Devi essere certa di mantenere la mia memoria e la mia volontà. Dai a tutti i miei ultimi saluti. Devono continuare quello che noi abbiamo iniziato».

Nell’ultimo processo, Hans Leipelt viene condannato a morte per diffusione di manifesti e per aver organizzato una colletta a favore della moglie di Huber, rimasta senza mezzi; viene ucciso nel gennaio 1945. Alla sorella ricorda «tu resti nelle mani di Dio nelle quali serenamente ti lascio. Lui ci tiene tutti in mano sua, ci protegge e mantiene, e laddove sembra farci mancare la sua protezione e il suo appoggio, questo, proprio questo ci deve servire nel migliore dei modi. Ti chiedo, e perciò pregherò in queste ore, di voler mantenere per tutta la vita la tua fede in Dio».
Angelo Paoluzi

Fonte: L’Osservatore Romano   26 giugno 2012