L’avamposto dei martiri: Otranto – di Rino Cammilleri

La mattina del 29 luglio 1480, un venerdì, le vedette sugli spalti di Otranto scorgevano il filo dell’orizzonte nereggiare di navi: novanta galee, quindici maone, quarantotto galeotte. A bordo, diciottomila uomini. Turchi. I musulmani, comandati dal pascià Agomaht, avrebbero voluto sbarcare a Brindisi, porto più agevole, ma il vento contrario li aveva costretti a scegliere Otranto, la più orientale delle città della penisola. L’intenzione dichiarata del sultano Maometto II era quella di arrivare a Roma e far pascolare i suoi cavalli in San Pietro.

 

 A Otranto c’erano solo quattrocento soldati del re di Napoli, Ferdinando d’Aragona. Gli inviarono immediatamente messaggeri, ma tutti sapevano che i rinforzi sarebbero in ogni caso arrivati troppo tardi. Uomini d’arme e cittadini si rinchiusero nel castello e si accinsero a sopportare l’assedio.

La tribù turca degli Ottomani fin dal XIII secolo si era imposta su tutto il mondo islamico. Tutta l’Asia Minore venne conquistata nel secolo seguente. Nel 1451 il ventunenne Maometto II cominciò ad attaccare Bisanzio, che capitolò il 29 maggio 1453: 260 mila turchi contro poco più di cinquantamila difensori.

Sulle mura di Costantinopoli morì Costantino XI Dragoses, ultimo imperatore d’Oriente. In tutta la Cristianità (che tuttavia era rimasta a guardare, sorda agli appelli dei pontefici e dei bizantini) l’impressione fu enorme.

Pio II convocò a Mantova nel 1459 tutti i principi cristiani e li rampognò severamente. Ma l’opposizione dei veneziani fece fallire l’impresa: la Serenissima aveva tutto da guadagnare dalla caduta di Bisanzio. Uno solo si crociò: Amedeo VI di Savoia, il Conte Verde. Prese Gallipoli, chiave dei Dardanelli, e inflisse audaci sconfitte ai Turchi nella zona del Mar Nero. Poi, adempiuto il suo voto, tornò a casa, conscio di aver effettuato nient’altro che un’impresa dimostrativa.

 

La Cristianità aveva altro da fare. Nella penisola, Venezia, Milano e Firenze erano alleate contro il papa e la Congiura dei Pazzi aveva fatto precipitare le cose, perché al tentato omicidio di Lorenzo dei Medici aveva partecipato Francesco Salviati, arcivescovo di Pisa e nipote di Sisto IV. Si era giunti alla guerra vera e propria, con il papa e il re di Napoli da una parte, e Firenze, Milano, Venezia e la Francia dall’altra.

Il Magnifico spinse Venezia ad accordarsi coi Turchi per mettere in difficoltà il fronte avverso, cosa che La Serenissima fece senza rimorso alcuno: nel 1479 firmò una pace coi musulmani e li spinse ad attaccare la Puglia. Con questa mossa otteneva il duplice effetto di scatenare Maometto II contro il re di Napoli e di distoglierlo dalla Dalmazia veneta.

Fu così che il sultano si convinse a togliere l’assedio a Rodi, tenacemente difesa dai cavalieri omonimi, e a puntare su Brindisi prima e, come abbiamo visto, su Otranto poi.

 

Otranto, detta “Bisanzio delle Puglie” per la secolare fedeltà all’impero d’Oriente, era stata tra le prime città della regione a convertirsi al cristianesimo. Ci si era fermato Sant’Atanasio e aveva dato impulso a quel monachesimo colto che si era diffuso dalle “laure”, le grotte di pietra in cui i primi asceti dimoravano.

Per tutto il Medioevo, chi voleva erudirsi nel greco e nel latino poteva alloggiare gratuitamente presso i monasteri locali e usufruire di biblioteche rinomate in tutta la Cristianità. A Otranto soggiornò San Francesco di ritorno dalla Palestina. A Otranto morì il langravio di Turingia, marito di santa Elisabetta d’Ungheria.

 

Qualche mese prima dell’assedio, san Francesco di Paola aveva profetizzato al re il martirio degli otrantini, ma non fu ascoltato. Il re dovette ricredersi quando vide giungere i messi terrorizzati. Si mise immediatamente in campo, ma era già troppo tardi.

Agomaht inviò un ambasciatore agli assediati: se si fossero arresi avrebbero avuto salva la vita. Gli risposero che se voleva Otranto doveva venire a prendersela e minacciarono l’ambasciatore di non più tornare.

Perché non vi fossero dubbi sulle intenzioni dei cittadini, il secondo inviato fu accolto a frecciate. Poi i capitani mostrarono al popolo le chiavi della città e le buttarono in mare. Durante la notte tutti i soldati della guarnigione si calarono dalle mura e presero la via della fuga, lasciando gli otrantini completamente soli.

All’alba cominciò il bombardamento che durò quindici giorni; alla fine le palle di pietra aprirono una breccia nelle mura e i turchi dilagarono. A nulla valse il sacrificio del capitano Zurlo che col figlio e pochi altri era corso a cercare di tamponare la falla.

 

Da quel momento il massacro è indiscriminato. I sopravvissuti si barricano nella cattedrale, attorno all’arcivescovo Stefano. Ma in breve le porte sono sfondate e il tempio invaso. Stefano accoglie i nemici seduto sul suo trono, vestito degli abiti pontificali e con la croce in mano.

Davanti a quella solenne figura i turchi si arrestano interdetti. Gli chiedono chi sia, e lui risponde di essere il pastore del suo popolo. Gli tagliano la testa di netto, poi si abbandonano al saccheggio.

Il 13 agosto il pascià chiese di vedere gli schiavi: gli portarono ottocento otrantini, quel che restava al di sopra dei quindici anni. Un prete calabrese passato all’Islam fece da interprete: il pascià si degnava di concedere la libertà a chi si fosse convertito a Maometto.

Rispose per tutti il sarto Antonio Primaldo, cristiano fervente e uomo stimato in tutta la città, dicendo che Cristo era morto per loro e che ora toccava ad essi morire per lui. Tutti gli altri alzarono la voce, esprimendosi nello stesso modo.

Quel Medioevo ormai sul volgere aveva visto tanti eroici cristiani accettare il martirio per fedeltà a Cristo (non era forse la fedeltà l’essenza stessa del Medioevo cristiano, con quella fides alla parola data su cui si basava l’intero edificio sociale, il patto feudale esteso a tutti gli aspetti della vita?).

 

Ma mai una città intera. Né a tutt’oggi si conosce un episodio come quello di Otranto. La mattina del 14 agosto gli ottocento, la corda al collo, furono condotti sul colle della Minerva, poco distante dalla città.

Per tutto il tragitto l’apostata rinnegato cercò di convincerli a cambiare idea, ma quelli resistevano, confortandosi l’un l’altro. Il primo ad essere decapitato fu il sarto. Miracolosamente il suo tronco si rizzò in piedi e non ci fu verso di atterrarlo finché l’ultima esecuzione non fu compiuta. Uno dei carnefici, al vedere il prodigioso evento, si convertì e cominciò a protestarsi cristiano.

Venne immediatamente impalato, sorte prescritta per tutti i musulmani apostati (questi fatti vennero descritti da testimoni oculari al processo di beatificazione dei martiri otrantini).

 

Ma le due settimane di strenua resistenza opposta da quel pugno di cristiani permisero a Ferdinando di Aragona di organizzarsi. La città fu ripresa, grazie anche al fatto che l’improvvisa morte di Maometto II aveva costretto Agomaht a rientrare (una spedizione più ampia, organizzata dal papa, fallì per i soliti motivi: occorrerà attendere altri novant’anni per Lepanto).

Ma lo sgomento fu terribile: già Sisto IV aveva cominciato i preparativi per la fuga ad Avignone, alla notizia della caduta di Otranto. Le truppe inviate a riconquistare la città trovarono, sul colle della Minerva, i cadaveri ancora intatti come se fossero morti da poco. Un cane riconobbe dall’odore il suo padrone e gli si mise a scodinzolare accanto. Le teste avevano gli occhi rivolti al cielo e sorridevano.

La notte la collina splendeva di luci, e così la cattedrale quando riportarono i corpi, tanto che tutti accorsero credendo scoppiato un incendio. Trecento anni dopo, la notte della loro festa, gli ottocento martiri furono visti da tutto il popolo recarsi in processione sul colle (così testimoniarono in tanti alla riapertura del processo di beatificazione nel 1771).

Più volte salvarono la città, sia dai turchi, apparendo armati sulla spiaggia, che dalle epidemie. Tranne il sarto, di essi non si conosce neppure il nome: fu un intero popolo. A chiudere il Medioevo cristiano così come era cominciato.

 

tratto da: Rino CAMMILLERI, I Santi militari, Piemme, Casale Monferrato 1992, p. 194-198.