Le inchieste, gli sprechi e il disastro della riforma del Titolo V

Roma. La Guardia di Finanza si è presentata ieri per raccogliere documenti negli uffici dei gruppi consiliari della regione Piemonte, in virtù di una indagine conoscitiva della procura di Torino, al momento senza indagati, per accertare eventuali malversazioni. La procura di Bologna ha aperto un analogo fascicolo per il Consiglio dell’Emilia-Romagna, anche qui senza ipotesi di reato e indagati. Non è un momento di grande fiducia collettiva nei confronti delle regioni. Del resto gli indagati fioccano: in Lombardia, Veneto e altrove. Dal Lazio è venuta la scossa che potrebbe modificare l’orografia tortuosa del regionalismo.

E il clima politico e mediatico è tale che potrebbe suonare da “requiem per il federalismo all’italiana”, come dice Luca Antonini, costituzionalista e presidente della commissione tecnica paritetica per l’Attuazione del federalismo fiscale istituita nel 2009 e il cui lavoro (a partire da quello sulla definizione dei costi standard) potrebbe non giungere mai a destinazione. Piccolo paradosso molto italiano: la regione Lazio è crollata sotto il peso di alcune decine di scandalosi milioni gettati in ruberie e furberie, e non per il disastro di un deficit nella sanità che sfiora il miliardo. E a una Sicilia sull’orlo del default a causa del buco plurimiliardario nella Sanità Mario Monti ha dovuto, in pratica, imporre elezioni anticipate.

I veri problemi, noti a chi voglia occuparsene, vanno insomma ben oltre il finanziamento e la corruzione dei politici. Lo ha spiegato ieri in profondità il Sole 24 Ore. In dieci anni, cioè dalla riforma nel 2001 del Titolo V della Parte seconda della Costituzione, la spesa corrente delle regioni è aumentata di oltre 40 miliardi e del 40 per cento. Con picchi inauditi: in Calabria i costi della politica sono cresciuti del 373 per cento, in Sicilia il personale costa il 40 per cento in più. Ma, a scorrere le tabelle, è chiaro che l’elefantiasi della spesa vale per tutti. Quel che varia sono semmai i livelli di efficienza.

La pressione degli scandali può spingere a riflettere sulle vere storture dell’attuale assetto, o paradossalmente finire per occultarle. Non si sa, ad esempio, su quale versante rubricare la corsa a tagliare i costi della politica lanciata ieri d’urgenza dalla Conferenza delle regioni. Il decreto sul nuovo sistema di controlli, che aumenta i poteri della Corte dei conti, è comunque in arrivo, e i governatori hanno portato a Roma l’offerta votiva di un taglio di trecento consiglieri. Troppo poco, o troppo tardi. Solo un anno fa, dieci regioni avevano fatto ricorso alla Corte costituzionale contro un decreto del governo che imponeva proprio tagli a consiglieri e indennità.

Ma che cosa davvero non ha funzionato? Si potrebbe risalire alla legge istitutiva delle regioni, ma può bastare fermarsi al 2001 e alla riforma del Titolo V. Una riforma votata male e in fretta e su cui oggi la sinistra, da Bersani (ieri sul Sole 24 Ore) a Renzi, fa mea culpa. Federico Orlando ha scritto: “Nemmeno ci accorgevamo… che sulle rovine dell’ex stato unitario fu costruito un caotico ‘regionalismo ai limiti del federalismo’”. Doveva essere un primo passo verso il federalismo, invece la riforma, oggi pare chiaro a tutti, ha destabilizzato i rapporti tra amministrazione statale e amministrazioni autonome, in un’impossibile equiparazione che ha messo gli enti locali in condizione di porre veti persino su politiche come quella energetica e delle infrastrutture.

In più si sono fatti più labili i controlli di spesa. E i successivi provvedimenti sul federalsimo fiscale o sono rimasti inattuati, o hanno assunto tempistiche bibliche (come notato da Luca Ricolfi) tali da risultare nulli o addirittura dannosi. In sintesi, non si è ralizzata una vera autonomia sulle entrate, ma in compenso c’è stato meno controllo sulle uscite e si sono moltiplicati i contenziosi. Anziché autonomia, irresponsabilità. Ora sembra venuto il momento di sbrogliare i fili da dove la riforma del 2001 li aveva arruffati.

C’è chi vorrebbe tornare alla situazione quo ante, o addirittura rivedere la riforma regionalista del 1970. Chi, come il prudente Bersani, chiede di “mettere mano a una riforma organica nel quadro della revisione della seconda parte della Costituzione”, ma senza “una nuova centralizzazione”. E chi addita invece nel mancato completamento di un vero schema federalista virtuoso l’attuale disastro. Tra questi, sempre sul Sole di ieri, Giulio Tremonti che chiede però un periodo di “quarantena”. Mentre i più arditi, come Oscar Giannino o (chissà?) la nuova Lega di Maroni che debutta oggi con i suoi stati generali a Torino, parlano di un necessario “passo vero verso macroregioni a una fortissima autonomia”, ma che “gestiscano sempre meno”.
Maurizio Crippa

Fonte: Il Foglio quotidiano