Le linee guida della Cei per i casi di abuso sessuale su minori commessi da chierici

La “protezione dei minori”, la “premura verso le vittime degli abusi” e la “formazione dei futuri sacerdoti e religiosi”. Sono questi i principali binari lungo i quali si muovono le Linee guida per i casi di abuso sessuale nei confronti di minori da parte di chierici. Il documento presentato martedì 22 maggio, all’assemblea generale della Cei era stato approvato dal Consiglio permanente dell’episcopato del gennaio scorso e, quindi, dalla Congregazione per la Dottrina della Fede, di cui il testo “traduce” le indicazioni.

Per il vescovo Mariano Crociata, segretario generale della Cei, che ne ha illustrato i contenuti ai giornalisti, le Linee guida si collocano nella prospettiva “a suo tempo indicata dalla Santa Sede agli episcopati di prendersi cura delle vittime, prevenendo al contempo il ripetersi di simili comportamenti delittuosi”.

In questo senso, “la priorità assoluta rimane la protezione dei minori e la premura verso le vittime degli abusi”, a cui “si accompagna la cura per la formazione dei futuri sacerdoti”. Infatti, “il triste e grave fenomeno degli abusi sessuali nei confronti di minori da parte di chierici – si legge nella premessa del documento – sollecita un rinnovato impegno da parte della comunità ecclesiale, chiamata ad affrontare la questione con spirito di giustizia”. Pertanto, il vescovo che riceve la denuncia di un abuso “deve essere sempre disponibile ad ascoltare la vittima e i suoi familiari, assicurando ogni cura nel trattare il caso secondo giustizia e impegnandosi a offrire sostegno spirituale e psicologico, nel rispetto della libertà della vittima di intraprendere le iniziative giudiziarie che riterrà più opportune”.

Contemporaneamente, “una speciale cura deve essere posta nel discernimento vocazionale dei candidati al ministero ordinato e delle persone consacrate”, riservando riguardo all’ammissione in seminario – secondo quanto già previsto dalle direttive della Cei del marzo 1999 – “una rigorosa attenzione allo scambio d’informazioni in merito a quei candidati al sacerdozio o alla vita religiosa che si trasferiscono da un seminario all’altro, tra diocesi diverse o tra istituti religiosi e diocesi”. Da parte sua, il vescovo è chiamato a trattare i suoi sacerdoti “come un padre e un fratello, curandone la formazione permanente e facendo in modo che essi apprezzino e rispettino la castità e il celibato e approfondiscano la conoscenza della dottrina della Chiesa sull’argomento”.
Quando il vescovo abbia notizia di possibili abusi in materia sessuale nei confronti di minori a opera di chierici sottoposti alla sua giurisdizione, il documento della Cei impone di “procedere immediatamente a un’accurata ponderazione circa la verosimiglianza di tali notizie”.

Tuttavia, viene precisato che “occorre evitare di dar seguito a informazioni palesemente pretestuose ovvero diffamatorie, o comunque prive di qualsiasi riscontro probatorio plausibile”, restando fermi “i vincoli posti a tutela del sigillo sacramentale” e “curando di tutelare al meglio la riservatezza di tutte le persone coinvolte”.
Dopo il “giudizio di verisimiglianza” e l’indagine previa, la procedura canonica in caso di abusi prevede una procedura con misure di restrizione del ministero pubblico “in modo completo o almeno escludendo i contatti con i minori”, oppure “pene ecclesiastiche”, di cui la più grave è la dimissione dallo stato clericale.

Viene ricordato poi che il procedimento canonico è “autonomo” rispetto a quello dello Stato, in vista del quale è “importante la cooperazione del vescovo con le autorità civili”, anche se sempre il vescovo “non ha l’obbligo giuridico di denunciare all’autorità giudiziaria statuale le notizie che abbia ricevuto in merito ai fatti illeciti” in materia di abusi.

Infatti, secondo l’ordinamento italiano, il vescovo non riveste la qualifica di pubblico ufficiale né di incaricato di pubblico servizio, e come tale non ha nemmeno l’obbligo giuridico della denuncia all’autorità civile. “Noi – ha detto Crociata – non possiamo chiedere a un vescovo di diventare un pubblico ufficiale. Ciò non significa che sia impedito a prendere l’iniziativa, anzi. Ma formalizzarlo avrebbe significato introdurre qualcosa che contrasta con l’ordinamento”. Tuttavia, “c’è la volontà assoluta di collaborare che sta già nell’azione ordinaria”.

Quanto al chierico riconosciuto colpevole, esso “potrà attuare un percorso impegnativo di responsabilizzazione e di serio rinnovamento della sua vita, anche attraverso adeguati percorsi terapeutico-riabilitativi e la disponibilità a condotte riparative”. Anche se, ha chiarito monsignor Crociata, “il reinserimento non è mai un ritorno alla pastorale ordinaria: un prete che ha avuto questi problemi non torna ad avere la possibilità di contatti con i minori, assolutamente no”.

Il segretario generale ha anche reso noto che dal 2000 a oggi i casi emersi in Italia sono stati 135. Di questi, per quanto riguarda il processo canonico, 53 sono state le condanne, 4 le assoluzioni e i restanti casi risultano in istruttoria. Per il foro civile, dei 135 casi, 77 sono stati denunciati alla magistratura con 22 condanne in primo grado, 17 in secondo, 21 patteggiamenti, cinque assoluzioni, 12 archiviazioni.


Fonte: L‘Osservatore Romano
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