L’ideologia marxista

Autore Paolo Zanotto (Siena, 1974). Laureatosi  Summa Cum Laude in Scienze Politiche presso l’Università di Siena, ha conseguito un Dottorato di Ricerca in Storia del Pensiero Politico presso l’Università di Perugia.  Vanta prestigiose specializzazioni e pubblicazioni, è docente invitato di Storia delle dottrine economiche presso  la Pontificia Università della Santa Croce di Roma.

 

“Sarà vero – non lo credo, non lo credo – che sulla terra non ci sono uomini, ma ventri?”
(Josemaría Escrivá, Cammino, Edizioni Ares, Milano 2002, punto n. 38, p. 44)

 

“Proletari di tutti i paesi, unitevi!” esortava il noto giornalista e scrittore politico tedesco Karl Heinrich Marx (1818-1883) nel 1848. Lo slogan era ‘preso in prestito’ da Karl Schapper e riportato in quel Manifest der Kommunistischen Partei che, uniformandosi al dibattito inglese, egli aveva pubblicato a Londra insieme all’amico Friedrich Engels (1820-1895).

 

Esso rappresentava, secondo l’auspicio dell’autore stesso, il ‘catechismo‘ su cui formare le future generazioni socialiste; lo strumento attraverso il quale abbattere tutte le religioni e tutte le morali, rendendo ogni cosa permissibile. Le credenze religiose vennero bollate nell’introduzione al saggio del 1843 Zur Kritik der Hegelschen Rechtsphilosophie – ovvero: Per la critica della filosofia del diritto di Hegelcome ‘oppio dei popoli’ (Opium des Völks). Si rilevi, incidentalmente, come la scarsa originalità di Marx lo condannasse a copiare anche questa famigerata definizione da un altro autore: in questo caso il debito è nei confronti di Heinrich Heine.

Tuttavia, se l’invito all’unità della classe operaia costituiva la celebre chiusura del Manifesto, l’incipit non è certo meno conosciuto, giacché recava insita in sé una formidabile sintesi del clima politico che caratterizzava il vecchio continente alla metà dell’Ottocento. “Uno spettro si aggira per l’Europa: lo spettro del comunismo, era l’inquietante monito dei due teorici del socialismo, soi-disant, ‘scientifico’. Ma cos’era, in realtà, quello ‘spettro‘? Quali intenti animavano Marx nella sua opera teorica in favore della costituzione della prima ‘società senza classi‘ nella storia umana? E la sua metodologia può, oggettivamente, definirsi ‘scientifica‘?

 

Tutti questi interrogativi, tanto elementari quanto fondamentali, hanno già trovato alcune parziali risposte in attenti lavori di ricerca condotti da numerosi studiosi nelle varie discipline in cui ha spaziato l’opera marxiana. Tali studi hanno decretato l’inesorabile distruzione del complesso, ma fragile, castello intellettuale che avrebbe dovuto sorreggere anche tutta la successiva produzione di scuola marxista, sebbene troppo raramente ciò venga rammentato alla pubblica opinione. Al di là dei compiacenti ritratti che ne hanno fatto propagandisti tendenziosi, è stato ampiamente rilevato come – con le parole di Paul Johnson – “egli non fu né uno studioso né uno scienziato. Non gli interessava trovare la verità, bensì proclamarla”, tanto che è stato perfino possibile decretare come si mostrasse del tutto privo di vocazione scientifica: in realtà, per quanto attiene alle questioni di fondo, egli era addirittura antiscientifico“.

 

Gli accenti misticheggianti ed apocalittici che connotano le sue opere hanno indotto importanti studiosi a parlare di lui, piuttosto, nei termini di uno scrittore ‘escatologico‘. Nonostante l’evidenza dei fatti, molto spesso, gli intellettuali ‘progressisti‘ si nascondono dietro a un dito, arrivando perfino -con un tardivo rigurgito di opportunistico e strumentale trockijsmo- a negare che vi siano connessioni strette fra il comunismo teorizzato e quello realizzato. In tal modo, essi vorrebbero escludere che quel fallimento clamoroso, col quale si è tragicamente decretata la sconfitta del socialismo ‘reale‘, possa in alcun modo scalfire la validità di quello ideale.

L’amara verità è che molti tiranni hanno massacrato i loro popoli in nome della lieta novella social-comunista, attraverso cui si annunciava l’instaurazione di un mondo migliore senza più diseguaglianze né ingiustizie. Assai spesso, quei tiranni assassini non soltanto erano attenti lettori della produzione filosofica, economica e sociologica marx-engelsiana, ma alacri teorici essi stessi: Lenin docet. Come ha acutamente fatto osservare Jean-François Revel, spetta agli ostinati difensori di questa calamità del XX secolo l’onere di spiegare per quale strana ragione, secondo loro, “la verità del comunismo non sarebbe espressa da questi fatti ma da una storia che non è mai esistita”.

 

La filosofia marxiana, improntata al metodo dialettico, pretendeva di ridurre la complessità della vita terrena ad una mera questione materiale: soltanto la sfera dell’economia aveva infatti dignità di ‘struttura’ fondante nel contesto dell’intera ‘formazione sociale’ (Gesellschaftsformation), dove tutto il resto veniva considerato ‘sovrastruttura’ (überbau).

 

Questa estrema semplificazione dell’elaborato sistema che filtra attraverso il pensiero di Marx, non ne stravolge tuttavia il messaggio essenziale, che riconduce a quel ‘materialismo storico’ nel quale il filosofo di Treviri individuava la vera causa delle continue ‘lotte di classi’ che, a suo dire, avevano da sempre caratterizzato l’esistenza dell’uomo su questa Terra.

 

Tutta l’argomentazione circa lo sfruttamento dell’uomo da parte dell’uomo, utilizzata da Marx per dimostrare la pressante esigenza di quell’unione di tutti i proletari del mondo – in una parola, l’intera dottrina sociale su cui poggiava il marxismo -, era basata sulla famigerata teoria del ‘plusvalore’ (surplus value), conseguenza e logico (ancorché capzioso) sviluppo della teoria del ‘valore-lavoro’ che avevano formulato gli economisti anglosassoni della Scuola classica.

       

 Già nel 1896, ad appena due anni dalla pubblicazione postuma dell’ultimo fra i volumi che componevano il trattato Das Kapital (che costituiva il magnum opus in cui Marx aveva esposto le proprie teorie), il celebre economista di Scuola austriaca Eugen von Bohm-Bawerk (1851-1914) demolì i sofismi del filosofo tedesco nel proprio saggio Zum Abschluss des Marxschen System, mostrandone i gravi vizi logici intrinseci. D’un soffio svanivano, così, tutte le argomentazioni ed arguzie di cui Marx si era servito per attribuire al proprio sistema quel crisma di presunta ‘scientificità’ di cui si diceva.

Al giorno d’oggi la teoria del ‘plusvalore’ è stata del tutto abbandonata e in ambiente accademico viene unanimemente ritenuta – nelle parole dell’economista Francesco Vito – “una nozione che non può in nessun modo essere utilizzata dalla scienza economica, a cagione della fallacia dei fondamenti su cui riposa”, al punto che, addirittura, “non merita un posto nello svolgimento storico della teoria del valore“.

 

Ecco demolita, in un sol colpo e dalle fondamenta, tutta la dottrina della lotta di classe. Non si può, infatti, fare a meno di concordare con il marxista austriaco Rudolf Hilferding (1877-1941) nel sostenere l’indissolubilità del legame ideale che univa l’analisi economica di Marx alla sua filosofia.

 

Nel 1904, replicando a La critica di Bohm-Bawerk a Marx, egli affermava correttamente come il problema non si ponesse a livello semplicemente economico: l’analisi materialistica dell’economia non poteva essere giudicata indipendentemente dal materialismo storico-dialettico; al contrario, essa ne costituiva la mera applicazione al campo economico. Ciò implica, mutatis mutandis, la validità anche del ragionamento inverso.

    

Dunque, la teoria marxiana, ben lungi dal rappresentare un caso di ricerca scientifica, costituirebbe, piuttosto, un icastico esempio di mistificazione ideologica. Peraltro, lo stesso Marx ammise apertamente nel suo poema Su Hegel: Parole che insegno, tutte mescolate / in un pasticcio diabolico. / Così, chiunque può pensare proprio quello / che preferisce pensare.

 

D’altra parte, era già noto ai suoi biografi come egli fosse avvezzo all’alterazione dei dati che contraddicevano le proprie tesi. Ma quale intento, allora, animava realmente questa discussa figura intellettuale? Se non si trattava dell’emancipazione della classe lavoratrice, a cosa si mirava, realmente, con quel guazzabuglio di arcane e cervellotiche teorie, con quel “pasticcio diabolico”, secondo le sue stesse parole?

 

Marx, il cui vero nome era Moses Kiessel Mordechai Levi, aveva vissuto un’adolescenza inquieta e travagliata. Suo padre era Hirshel ha-Levi Mordechai – discendente da una famiglia di rabbini fra cui figurava anche il famoso Rabbi Elieser ha-Levi di Magonza (il cui figlio Jehud Minz fu direttore della scuola talmudica di Padova) – un avvocato di cultura illuministica, descritto come “un vero francese del Settecento, che conosceva a menadito il suo Voltaire e il suo Rousseau”, il quale, in seguito a un decreto del governo prussiano del 1816 con cui s’impediva agli ebrei l’accesso alle alte cariche giuridiche e a quelle in campo medico, si era formalmente convertito al protestantesimo, mutando il proprio nome in quello di Heinrich Marx.

Di tale estrazione – sostiene sempre Johnson – il teorico del comunismo contemporaneo conservò un chiaro retaggio intellettuale, sviluppando “alcuni tratti caratteristici di un tipo particolare di studioso, soprattutto talmudista: la tendenza ad accumulare una quantità immensa di materiale non del tutto assimilato e a progettare opere enciclopediche mai portate a compimento; il gelido disprezzo per chiunque non fosse dedito agli studi e l’atteggiamento assolutista e irascibile nei confronti dei colleghi. Tutta la sua opera reca, di fatto, il marchio dello studio talmudico, in quanto consiste essenzialmente in un commento, in una critica del lavoro svolto da altri nel suo stesso campo”.

Poco tempo dopo che si fu diplomato, si verificò nel giovane Karl una strana mutazione umorale, dovuta molto probabilmente ad una grave malattia che l’avrebbe colpito portandolo sull’orlo della morte. Ne sono testimonianza concreta alcuni poemi di chiara impronta satanica da lui vergati proprio in quell’oscuro periodo della sua vita. A ricostruire le fasi salienti di questa metamorfosi interiore è stato il pastore luterano Richard Wurmbrand: un ateo romeno di origine ebraica, che in gioventù militò nelle file del comunismo marxista per poi convertirsi al cristianesimo nel 1935; la qual cosa lo avrebbe esposto, successivamente, ad oltre quattordici anni di feroci persecuzioni, nel corso dei quali venne a più riprese internato nei tristemente famosi gulag del regime filo-sovietico che, nel frattempo, si era instaurato nel suo paese.

 

L’opinione del Wurmbrand, supportata da numerosissimi indizi, è che il motivo ispiratore di Marx non sarebbe stato una qualche forma di filantropismo socialista, bensì una chiara devozione nei confronti della chiesa satanista. L’opera nella quale egli espone le proprie ricerche – spesso condotte direttamente sulle fonti primarie che sono rappresentate dagli scritti dello stesso Marx – non lascia dubbi circa l’ipotesi di fondo dell’autore, espressa fin da subito in un titolo significativo: Was Karl Marx a satanist?; saggio di cui esiste anche una traduzione italiana, intitolata L’altra faccia di Carlo Marx ed apparsa presso l’Editrice Uomini Nuovi di Marchirolo nel 1984.

  

Già nel 1851, lo scrittore politico spagnolo Juan Francisco María Donoso Cortés (1809-1853), marchese di Valdegamas, nel suo celebre Ensayo sobre el catolicismo, el liberalismo y el socialismo, aveva sostenuto che “il socialismo è forte perché è una teologia, ed è distruttore perché la sua è una teologia satanica”.

 

Altri autori avevano ipotizzato un disegno recòndito nell’opera di Marx, formalmente consacrata all’elaborazione del ‘socialismo scientifico’ e dietro alla cui formula si sarebbe celato, tuttavia, il piano di forze occulte e tremende. Così, ad esempio, è stato messo in luce come il testo del Manifesto del Partito Comunista altro non sarebbe se non la codificazione del programma e dei principî rivoluzionari che aveva stabilito settant’anni prima Johann Adam Weishaupt (1748-1830), fondatore di un movimento para-massonico deviato, noto come Ordine degli Illuminati di Baviera (Illuminatenorden).

 

Marx, infatti, che – secondo quanto affermato sulla stessa rivista “Hiram” (n. 5, 1990, p. 114), organo ufficiale del Grande Oriente d’Italia – sarebbe stato iniziato alla Loggia Apollo di Colonia, nel periodo della stesura del Manifesto dei Comunisti apparteneva alla “Lega degli Uomini Giusti” (precedentemente “dei Proscritti” e successivamente “dei Comunisti”), un gruppo misterioso che alcuni storiografi vorrebbero come succedaneo proprio di quegli Illuminati di Baviera che operarono nel decennio 1776-1786 e furono, poi, costretti a ritirarsi nella clandestinità, dopo essere stati smascherati dalla polizia bavarese.

Marx ed il carbonaro italiano Giuseppe Mazzini (1805-1872) vennero incaricati di preparare l’indirizzo e la costituzione della Prima Internazionale (realizzatasi nel settembre 1864), come è possibile leggere anche nell’Enciclopedia ebraica; sono noti, peraltro, gli intimi legami che Mazzini intrattenne con gli ambienti ebraici. Dal canto suo, Alan Stang, nel proprio saggio The Manifesto, apparso sulla rivista “American Opinion” nel febbraio del 1972, ha messo in risalto la dipendenza della Carboneria italiana dall’Ordine degli Illuminati di Baviera.

 

Del resto, attorno al 1840, Engels era corrispondente da Londra per un giornale di esuli tedeschi di chiara impostazione mazziniana: la “Young Germany”. Sempre Mazzini – non Marx – sarebbe stato il primo ad utilizzare il termine ‘dittatura’ (dictatorship) in riferimento al comunismo che avanzava (l’espressione ‘dittatura del proletariato‘ proviene originariamente da Louis Auguste Blanqui).

 

Probabilmente, i rapporti fra Marx e Mazzini s’incrinarono in coincidenza della costituzione, il 22 settembre 1845, dell’associazione d’ispirazione cartista denominata Society of Fraternal Democrats. Fatto sta che, di lì a poco, nel 1847, gli Illuminati inglesi avrebbero affidato a Marx ed Engels il compito di rielaborare i principî della setta in una forma nuova e pseudo-scientifica, mentre i finanziamenti necessari per la pubblicazione del Manifesto provennero da Clinton Roosevelt e Horace Greely, entrambi membri della Loggia Columbia, fondata a New York dagli stessi Illuminati di Baviera. 

 

Wurmbrand non accenna a tali questioni, limitandosi ad estrapolare dalle parole dei medesimi ideologi comunisti le prove del loro disegno satanico. A tale proposito acquistano un’importanza decisiva gli scritti ancora inediti di Marx. Al riguardo appaiono sconcertanti le dichiarazioni che lo scrittore di origine franco-algerina Albert Camus (1913-1960) fece nel suo libro del 1951 L’Homme révolté, dove si diceva convinto che essi non fossero propriamente simili a ciò che viene generalmente inteso come ‘marxismo’. D’altra parte, lo stesso Marx non chiarì mai come sarebbe stata la società futura, dopo l’avvento al potere della setta marxista. Egli, tuttavia, non evitò l’argomento, bensì specificò chiaramente come, su ciò che sarebbe venuto in seguito, non era assolutamente possibile dire nulla con esattezza. Vi è, dunque, un segreto che si cela dietro Marx, noto solo a pochi iniziati? Le parole di Camus lasciano estremamente perplessi, specialmente se le si raffronta con le dichiarazioni di Lenin, che ebbe a scrivere: “Dopo mezzo secolo, nessuno fra i marxisti ha compreso Marx”.

Tutto quanto detto dal Wurmbrand si è basato, pertanto, esclusivamente sull’opera edita; tuttavia, rimane materiale per altri 87 volumi ancora da pubblicare, gelosamente custodito presso l’Istituto Lenin di Mosca, il quale – ancora dopo 60 anni dalla fine dell’ultimo conflitto mondiale – si è guardato bene dal renderne noto il contenuto. Molto probabilmente, tali manoscritti potrebbero rivelarsi fondamentali per la comprensione del vero scopo che aveva in mente il padre del comunismo.

 

Nonostante il Marx inedito sia rimasto inaccessibile alla disamina del pastore romeno, il quadro che ne risulta è ugualmente sconcertante. Emerge, infatti, con sufficiente nitidezza un affresco di aspetti assolutamente trascurati del pensiero marxista che, supportato da un’ampia documentazione, getta una luce nuova ed estremamente inquietante su di un fenomeno che ha interessato ed interessa direttamente milioni di persone nel mondo (e, indirettamente, tutti gli altri). Senza voler entrare troppo nello specifico del libro, è importante fornirne qualche coordinata essenziale.

      

A tal proposito, occorre dire che, nonostante l’affiliazione di Marx alla setta demoniaca di Joanna Southcott necessiti di maggiori prove che non, semplicemente, l’aspetto estetico dell’iniziato – il quale, per quanto inusuale nella moda dell’epoca, combaciava alla perfezione con quello irsuto del tedesco-, di sicuro fanno riflettere le affermazioni blasfeme che caratterizzarono alcuni suoi scritti. L’idea diffusa secondo la quale il marxismo avrebbe predicato l’ateismo, viene infatti smontata accuratamente dal Wurmbrand, che mette piuttosto in evidenza come l’intento sia stato, semmai, quello di ingannare ed insinuare il dubbio sull’esistenza di Dio nei soli credenti, al fine di indebolire le loro difese contro gli ideali “diabolici” che i comunisti andavano diffondendo nel pianeta in cerca di adepti. Marx e gli altri ‘santoni’ del progressismo avrebbero per contro creduto fermamente nella realtà divina, rispetto alla quale semplicemente si collocavano agli antipodi.
    

  

Effettivamente, scorrendo le pagine del libro scritto da Wurmbrand è facilmente captabile il sentimento di odio antireligioso ed antiumano che trasuda dall’antologia di certe affermazioni marxiane. In particolare, l’accentuato livore nei confronti della religione spingeva ad assimilarla, come avrebbe detto Lenin in Socialismo e religione, ad una sorta di “acquavite spirituale, nella quale gli schiavi del capitale annegano la loro personalità umana e le loro rivendicazioni di una vita in qualche misura degna di uomini”; sempre Lenin affermava anche che “tutte le idee religiose sono pazzie. Dio è un mostruoso cadavere. La fede in Dio è una viltà“.

 

Secondo la definizione datane dalla Grande Enciclopedia Sovietica, la religione veniva paragonata ad un male sociale “antisocialista per definizione”, che costituiva “il prodotto dell’impotenza e dell’ignoranza”; essa era “l’oppio del popolo, secondo quell’affermazione di Marx che Lenin definì la base della dottrina marxista in materia“.

Nei Manoscritti di Marx il motivo ritornava incalzante, quando si proclamava che i comunisti avevano “dichiarato guerra una volta per sempre alla religione”, perché -si precisava in Morceaux choisis– “per l’uomo, l’Essere Supremo è l’Uomo“.

 

Con che cosa i comunisti intendessero sostituire la religione non era un mistero per chi avesse voluto vedere, come testimoniano queste sconcertanti parole di Anatolij Vasilievic Lunaciarskij, commissario della cultura nella Russia leninista, il quale affermava chiaramente: “Abbasso l’amore del prossimo! Noi abbiamo bisogno di odio. Dobbiamo imparare ad odiare. Questa è la nostra religione. Con questo mezzo arriveremo a conquistare il mondo!“.

 

Pur essendo un intellettuale di una certa caratura, Marx faceva ampio utilizzo di espressioni oscene nella propria corrispondenza, dove il turpiloquio, non comune in quell’epoca e in quella classe sociale, abbonda a discapito degli ideali umanistici o del sogno socialista, di cui non v’è traccia in una sola lettera. Ancora più impressionante risulta, tuttavia, il parallelo con le parole pronunciate da altri esponenti dell”ideale socialista’, come Mihail Aleksandrovic Bakunin (1814-1876) o Pierre-Joseph Proudhon (1809-1865), a quanto pare altrettanto legati all’adorazione del diavolo. Questione che, peraltro, avrebbe riguardato anche Lenin, Bukharin, Stalin, Mao, Ceausescu e molti altri esponenti della setta marxista.

Che dire, allora, di quel ‘pacifismo’ urlato in nome di chi ritiene che “la violenza è l’ostetrica che trae la nuova società dal grembo della vecchia”? Pensando, poi, al professato ‘internazionalismo’ e all’ostentazione degli ideali di tolleranza e rispetto per le idee e le culture altrui da parte dei movimenti socialisti, è difficile trovare una spiegazione logica ad appellativi quali “negraccio giudaico” (riservato a Ferdinand Lassalle); “stupido popolo tedesco“, affetto da una “disgustosa ristrettezza mentale”; l’aggettivo “idiota”, applicato d’amblé alle persone di colore; la definizione “plebaglia slava”, riferita a russi, cechi e croati: “razze retrograde” paragonate a dei veri e propri “rifiuti etnici”, le quali erano da disprezzare più degli stessi inglesi che pure non ci si peritava di mandare To the devil (un augurio, forse, viste le premesse?). Eppure, non si tratta che di un piccolo florilegio delle espressioni utilizzate da Marx.

 

Quasi sotto silenzio passa, inoltre, la convinta difesa dello schiavismo nord-americano che Marx intraprese in polemica contro la preconizzata emancipazione degli schiavi da parte di Proudhon. E pur avendo inveito, nel solito Manifesto, contro i capitalisti che avevano a disposizione le mogli e le figlie dei loro proletari, Marx non esitò ad approfittare vilmente della propria governante, Helen Demuth, dalla quale ebbe un figlio illegittimo che si rifiutò sempre di riconoscere.

       

 

Riflettendo su tutto quanto si è detto, così come sul fatto che Marx è stato sepolto nel cimitero londinese di Highgate il quale è, notoriamente, il principale centro del satanismo britannico, al punto che – come riferiva anche il quotidiano romano “Il Tempo” del 1 novembre 1979 – la sua tomba è meta assidua di pellegrinaggi nel corso dei quali vengono celebrati misteriosi riti di magia nera, non è difficile figurarsi quale spettro si aggiri adesso per l’Europa.

 

Paolo Zanotto