« Lockdown, un’ideologia ormai impermeabile a fatti e numeri » di Eugenio Capozzi

Ormai è chiaro da tempo: il “lockdown” non è una strategia di governo per combattere la diffusione dell’epidemia/pandemia di Covid-19, ma una visione del mondo, uno stato mentale e psicologico delle classi dirigenti, al limite una vera e propria ideologia. Come tutti gli stati psicologici (psicopatologici) il “lockdownismo” rifiuta di prendere in considerazione qualsiasi dato o tesi infranga la “bolla” nel quale esso vive.

E come tutte le visioni del mondo ideologiche esso costruisce una propria realtà fittizia, in sé coerente e logicamente stringente, ma astratta, arbitraria, senza più connessioni con la realtà di fatto e con l’osservazione empirica.

Questa tendenza all’alienazione si riscontra nelle classi politiche di vari paesi occidentali, ma in quella italiana essa appare presentarsi nella sua forma più monomaniacale. Una volta adottato nella primavera scorsa dal governo e dal Comitato tecnico-scientifico il “frame” ufficiale – di ispirazione “cinese”, secondo cui l’unico mezzo di contrasto concepibile contro il virus sono le restrizioni delle attività economiche, della socialità, della mobilità dei cittadini, esso continua ad essere mantenuto fermo, nonostante i mutamenti profondi di contesto e le verifiche sperimentali.

Secondo quella visione se i buoni risultati arrivano è merito del “format”, se non arrivano è colpa dell’”irresponsabilità” dei comportamenti dei cittadini, che evidentemente non eseguono le istruzioni dei loro “illuminati” capi o “esperti”.

Visto il successo del “prodotto” (il consenso di gran parte dell’opinione pubblica impaurita) la “compagnia di giro” che lo interpreta (arricchita dalla volonterosa e fin troppo zelante partecipazione di molti presidenti di regione ansiosi di fare la gara a chi è più “duro”) lo ripropone in replica continuamente, senza alcuna modifica, incurante dei suoi costi economici e sociali altissimi, e nonostante una valanga di dati accumulati nel tempo, che, se incrociati, potrebbero spingere a ripensamenti critici e a decisioni ben diverse.

Nella fase che è stata già in anticipo denominata “seconda ondata”, attesa quasi con ansia dalla suddetta compagnia di giro, rispetto all’andamento dell’infezione virale nella primavera scorsa saltano agli occhi di qualsiasi osservatore spassionato differenze incommensurabili: mortalità e letalità sono scese a livelli infinitesimali, il 95% dei casi diagnosticati non presenta sintomi o ne presenta di lievissimi, i casi seri sono poco più del 4%, quelli gravi lo 0,6%.

Ma queste evidenze non scuotono minimamente la dottrina “lockdownista” italiana. Per sfuggire ai confronti, i suoi sostenitori adottano un “mantra” ossessivamente ripetuto: gli ospedali “al collasso” e la mancanza di posti in terapia intensiva, che imporrebbero per forza di cose, a loro dire, urgenti misure restrittive della socialità allo scopo di “abbassare la curva” dei contagi “prima che si troppo tardi”.

Poi si va a guardare i dati sullo stato attuale degli ospedali, e si scopre che mediamente nelle regioni italiane il tasso di occupazione delle terapie intensive si aggira per ora intorno al 15%, con qualche situazione di maggiore sofferenza locale ma anche qualche altra di maggiore tranquillità, e sicuramente da questi dati si può desumere una colpevole, mancata opera di adeguamento da parte del governo, ma nulla che autorizzi  per ora l’espressione “al collasso”.

Soprattutto se si tiene conto del fatto che ogni inverno, durante le epidemia di influenza stagionale, regolarmente ospedali e terapie intensive arrivano a livelli ben più alti di capienza, senza che nessuno abbia mai invocato per questo dei lockdown negli anni scorsi, e l’espressione “al collasso” ricorre spesso nei media (come si può riscontrare da una semplice ricerca in rete) ben più a proposito.

Però il governante/governatore lockdownista ha la risposta pronta: «Se continua così in poche settimane ci arriveremo». Si basa su un modello non predittivo, ma profetico/apocalittico, indimostrato e indimostrabile, secondo il quale l’aumento dei casi gravi dovrebbe proseguire ineluttabilmente allo stesso ritmo per mesi.

E al tempo stesso, con assoluta disinvoltura e incoerenza, alterna questo fosco scenario con la martellante insistenza sull’”impennata dei contagi”, cavallo di battaglia dei media asserviti al “verbo” allarmista. Impennata che in sé non significa nulla, perché quei “contagi” sono in realtà per il 95%, appunto, irrilevanti.

Ieri 24 ottobre, per esempio, su 19.644 casi diagnosticati, i malati effettivi ricoverati (che poi il ricovero fosse necessario e non dovuto a cause “sociali” o proprio alla pressione allarmistica, è un altro discorso) sono appena 738, il 3,7%, e i ricoverati in terapia intensiva 79, lo 0,4% dei diagnosticati.

Molte volte il più autorevole virologo italiano, Giorgio Palù, ci ha avvertito della enorme differenza tra positivi e contagiati: da ultimo in una esaustiva intervista comparsa proprio ieri sul “Corriere della Sera”.

Ma i politici lockdownisti si ostinano ad ignorare totalmente queste distinzioni. Così come ignorano ugualmente le avvertenze di studiosi come l’infettivologo Fabio Franchi e altri, i quali mettono in guardia sul fatto che i tamponi diagnostici, come sono oggi congegnati, possono arrivare addirittura fino al 90% di falsi positivi.

Così come hanno ignorato, quasi non fossero mai esistite, la dichiarazione di Great Barrington degli scienziati che hanno deplorato le politiche di lockdown ed esortato gli Stati a contrastare il Covid attraverso strategie di protezione “focalizzata” per i soggetti più fragili, e quelle del dottor Nabarro, inviato speciale dell’Oms, nello stesso senso.

E come hano ignorato persino l’ultimo rapporto settimanale dell’Istituto Superiore di Sanità, laddove esso sottolinea come l’età media dei morti per Covid, stabilizzatasi intorno agli 82 anni, non abbassi ma confermi l’aspettitiva media di vita in Italia. Cioè, in sintesi, i morti di Covid coincidono con quelli di vecchiaia. E dai grafici dell’Istituto si evince chiaramente come non esistano praticamente casi “severi” della malattia in persone al di sotto dei 65 anni.

Tutti dati che dovrebbero spingere, appunto, in direzione della “protezione focalizzata”, e distogliere da provvedimenti di chiusura e confinamento indiscriminato di efficacia minima (come è stato dimostrato ultimamente anche da un mese di provvedimenti del genere in Francia e in Spagna, dove i contagi si sono ciò nonostante moltiplicati) ma che oggi, ancor più che in primavera, rappresenterebbero un colpo fatale all’economia, all’occupazione e anche alla tenuta psicologica della società, privandola di speranza tangibile in un miglioramento dopo la recessione in cui il paese è piombato.

 

La Nuova Bussola Quotidiana