L’uomo casalingo? Aumenta le possibilità di divorzio

Buone notizie per chi ha una visione tradizionale della vita familiare: l’uomo casalingo fa danni. Non a se stesso, bensì alla coppia. Infatti, secondo quanto emerso da uno studio norvegese dal titolo Equality in the Home [1] se l’uomo partecipa prolungatamente alle attività domestiche le probabilità di divorzio aumentano, pare, addirittura del 50%. Una conclusione che, pur non essendo evidentemente interpretabile in termini causali – aiutare la propria moglie a casa non determina ipso facto la fine del matrimonio (!) – mette però in crisi l’idea che uomo e donna, una volta che scelgono di vivere sotto lo stesso tetto, possano rivestire ruoli identici, molto simili o invertibili. 

Detto ciò non possiamo negare come, rispetto al passato, la presenza dell’uomo nelle faccende domestiche si sia resa – talora inevitabilmente – più frequente. E questo per diverse ragioni: a) il fatto che marito che moglie spesso lavorino entrambi e quindi quest’ultima non abbia più, a differenza del passato, tempo a sufficienza per badare da sola ai lavori di casa; b) il fatto che la donna del 2000 si consideri più indipendente e veda come umiliante la prospettiva di essere casalinga; c) il fatto che non di rado i mariti, prima di sposarsi, abbiano avuto una loro vita da single all’interno della quale – mentre in passato gli uomini sin da bambini venivano “iniziati” a compiti esclusivamente maschili o ritenuti tali –  hanno imparato a cavarsela anche in casa.

 

Tuttavia lo studio norvegese – il quale, lo ripetiamo, nulla dice di male circa l’opportunità, in sé positiva, che i mariti trascorrano del tempo a casa, tanto più se ci sono di mezzo dei figli, per il cui sviluppo la presenza anche domestica del padre è assai preziosa [2] – è importante perché mette in crisi l’idea tipicamente contemporanea che uomo e donna non siano diversi, che possano e debbano condividere tutto in quanto una eventuale differenza di ruoli, tanto più se determinata dalla tradizionale suddivisione di compiti (la donna impegnata nella cura domestica e nell’educazione dei figli, l’uomo principalmente al lavoro), sarebbe da considerarsi negativa. Invece forse no. Forse è bene che delle distinzioni vi siano e vengano mantenute.

Quanto alle probabilità di divorzio, c’è da ritenere le risultanze dello studio norvegese sì interessanti ed utili, come abbiamo detto, ma fino ad un certo punto. Da una consolidata tradizione di ricerca sappiamo infatti che – unitamente a quella secolarizzazione che ha depotenziato il valore simbolico dell’istituto matrimoniale e di conseguenza quello delle relazioni, oggi considerate per lo più sul versante materiale – a facilitare la rottura coniugale è l’attuale percezione (tutta materialista e parecchio illusoria) che del matrimonio che presentasse elementi di difficoltà si possa fare anche a meno, che la vita possa riservare sempre nuove occasioni, che grazie al lavoro e alla carriera sia uomini che donne abbiano comunque la possibilità di realizzarsi [3].

In questo senso appare importante, anche se difficilmente potrà realizzarsi in tempi brevi, un recupero sociale dei valori della fedeltà e del bisogno reciproco, dell’amore inteso non solamente come appagamento ma anche come dono, talora come sacrificio. Diversamente, se tanto nelle donne quanto negli uomini continuerà a prevalere una prospettiva materialista – aggravata dal pericoloso mito, sottolineato dalla ricerca norvegese, che marito e moglie siano figure identiche e che dunque è meglio che condividano tutto, compresi i ruoli – i figli, come già accade, nasceranno in numero sempre minore (perché mai dovrei mettere al mondo qualcuno che potrebbe ostacolare la mia ascesa lavorativa?) ed anche la stessa vita di coppia continuerà ad indebolirsi. E ad essere dunque sempre più esposta alla possibilità di rotture. Mentre invece sappiamo che ciascuno di noi è fatto per relazioni durature, per sentimenti che non invecchino, per vivere un Amore autentico.

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NOTE:

[1] http://www.nydailynews.com/life-style/higher-risk-divorce-couples-sharing-housework-study-article-1.1170299; [2] Cfr. Lamb M.E. (Ed.). (2004). The role of the father in child development (4th ed.). New York: Wiley; Cfr. Pleck J.H. – Masciadrelli B.P. (2004). Paternal involvement by U.S. residential fathers:Levels, sources, and consequences. In M.E. Lamb (Ed.), The role of the father in child development (4th ed., pp. 222–271). New York: Wiley; [3] Cfr. Cherlin A. (1992), Marriage, Divorce, Remarriage (rev. edn), Harvard University Press, Cambridge; Cfr. Bellah R. – Madsen R. – Sullivan W. – Swidler A. – Tipton S. (1985) Habits of the Heart: Individualism and Commitment in American Life. New York: Harper and Row; Cfr. McDonald P. (1988) Families in the future: the pursuit of personal autonomy. «Family Matters»; 22:40-46.